C’era una volta Andersen e la socialdemocrazia

C’era una volta Andersen e la socialdemocrazia

 

E’ quasi ora di chiusura al Museo dei Lavoratori in Rømersgade 22. Le luci della Sala Assemblee, fondata nel 1879 e simbolo delle storiche lotte sindacali danesi, sono ancora accese. Prima di andare via, gli ultimi turisti rimasti guardano frettolosamente le foto in bianco e nero di alcuni operai che sfilano per le vie di Copenaghen negli anni ‘60.

La presenza di un museo che celebra i lavoratori dà subito l’idea di quanto sia stata importante la componente socialista nella storia politica danese: quasi quarant’anni di ininterrotta socialdemocrazia, un sistema economico ibrido che ha visto combinati due insiemi tra loro lontani, socialismo e capitalismo. Mentre in Italia la Democrazia Cristiana furoreggiava e faceva il pieno di voti, talvolta minacciata da un PCI vivace e competitivo, in Scandinavia la socialdemocrazia viveva i suoi anni d’oro.

Cosa ha significato la socialdemocrazia per la Danimarca?

Quando si citano i paesi scandinavi non si può fare a meno di parlare di welfare: tutela dei lavoratori, equilibrio tra ore di lavoro e vita privata (in Danimarca il turno di lavoro termina generalmente alle 16-17, e le ore extra sono maggiormente retribuite), sindacati che hanno un adeguato potere contrattuale, università gratuite, stipendio per gli studenti danesi, e così via. Sono questi alcuni degli ingredienti di quella che è stata definita la Terza Via Scandinava.

A partire dalla seconda metà del Novecento i socialdemocratici hanno governato il Paese per 36 anni. Un periodo politicamente lungo, inaugurato dalla nomina di Vilhelm Buhl come primo ministro. In questi anni, i Socialdemokraterne hanno promosso la creazione del capitalismo sociale danese, famoso per gli altissimi livelli di protezione sociale e di tassazione. Se mai vi trovaste a chiacchierare con un danese, notereste subito con quanto orgoglio si soffermerà sul cosiddetto Flexsecurity, un modello economico che prevede un mercato del lavoro flessibile senza generare emarginazione sociale. La flessibilità del mercato del lavoro viene infatti bilanciata con sussidi di disoccupazione e percorsi di formazione e orientamento, rivolti ai lavoratori che perdono il lavoro. Si tratta di percorsi concepiti per consentire al lavoratore di rientrare in attività in un lasso di tempo relativamente breve.

L’avvento della sinistra liberale e la crisi del 2008.

Gli anni passano, i governi socialdemocratici si succedono, gli anni Novanta registrano un incremento di consensi per il partito liberale Venstre. Venstre (in danese “sinistra”), tutt’ora guidato dall’attuale primo ministro Lars Løkke Rasmussen, si colloca nella tradizione liberale conservatrice e rurale, con un’offerta politica che tenta di coniugare le istanze dei piccoli proprietari terrieri con politiche di libero mercato. Il partito conquista nel 2001 il 31% dei consensi, e si pone alla guida di un governo di coalizione di centro-destra.

Arriva il 2008 e la crisi finanziaria. Dopo il triennio 2004-2006 di vivace espansione economica – con livelli di crescita del PIL pari al 2,1% nel 2004, 3,1% nel 2005 ed al 3,4% nel 2006 – nel 2007 si è avuto il primo rallentamento, con una flessione dell’indice in analisi, all’1,7%. Il peggioramento è proseguito nel 2008, raggiungendo il risultato delllo -0,9% ( i dati utilizzati sono rintracciabili nel seguente link http://www.ice.it/paesi/pdf/danimarca.pdf).
Fino ad allora, la situazione del mercato del lavoro in Danimarca era stata ottimale: era lo Stato con il maggior rapporto occupati su popolazione in età lavorativa ed era tra le nazioni con il minor numero di disoccupati. Dal 2008 la percentuale di persone in cerca di lavoro sulla popolazione in età lavorativa è più che raddoppiata (+114,3%)  mentre gli occupati sono calati del 6,8% (fonte https://scenarieconomici.it/leconomia-reale-della-danimarca-negli-ultimi-20-anni/).

Il ritorno dei socialisti e lo scandalo Dong.

Nel 2009 Lars Løkke Rasmussen viene nominato primo ministro, e inaugura il suo governo con un ambizioso programma: abbassare le tasse (seguendo il noto mantra liberale). Ma il governo liberale si infrange con le elezioni parlamentari del 2011, che vedono la vittoria dei socialdemocratici in coalizione con la Sinistra Radicale ed il Partito Popolare Socialista. Si tratta di una vittoria dai margini piuttosto risicati che non impedisce la nomina di Helle Thorning-Schmidt come primo ministro. Un ritorno al passato socialdemocratico, si dirà.
Nonostante il successo elettorale, una fitta bufera piomba sul governo socialdemocratico. Nel 2014, Goldman Sachs stringe un accordo con cui riesce ad assicurarsi il 18% delle azioni del colosso energetico danese Dong, che fino ad allora era stato sotto il controllo esclusivo dello Stato. Un suicidio politico che costerà caro ai Socialdemokraterne. Goldman Sachs è infatti l’emblema di quella crisi che ha falciato posti di lavoro e punti percentuali di PIL, il “vampire squid” (così definito dal giornalista Matt Taibbi nel suo articolo per Rolling Stone  http://www.rollingstone.com/politics/news/the-great-american-bubble-machine-20100405 ) che torna a minacciare la Danimarca.
Secondo un sondaggio condotto dal canale danese TV2, il 68% degli elettori danesi è contrario all’accordo.
La coalizione di governo entra in crisi quando sei ministri del Partito Popolare Socialista rassegnano le dimissioni; ma Thorning-Schmidt resiste e riesce a costituire un secondo governo.

Il successo del Dansk Folkeparti alle elezioni del 2015 e la “questione musulmana”.

Nel 2015 avvengono nuove elezioni parlamentari, che questa volta non premiano nè Venstre, nè i Socialdemokraterne. Il vero vincitore è il Dansk Folkeparti (DF), che si attesta secondo partito con il 21,1% dei voti. Il partito nazionalista, attualmente guidato da Kristian Thulesen-Dahl, è nato negli anni Novanta come movimento di protesta contro gli immigrati musulmani. Nel 2015 il partito propose addirittura la costituzione di un programma nazionale per aiutare i musulmani ad abbandonare la propria religione (https://www.thelocal.dk/20150317/danish-peoples-party-wants-muslim-exit-programme).

In Europa il DF è uno dei partiti anti-immigrazione più influente, ed è riuscito a polarizzare il dibattito politico danese sulla “questione musulmana”, tanto da portare Venstre e i Socialdemokraterne ad una separazione meno netta su questo tema. Attualmente il Folketing sta infatti discutendo una legge per vietare il burka e il niqab, e i socialdemocratici si sono detti disponibili a discutere questo tema.

“Siamo pronti a vietare il burqa se necessario.”

ha dichiarato il leader dei Socialdemokraterne, Mette Fredriksen, durante un dibattito in parlamento il 5 ottobre 2017.
Ma i socialdemocratici non sono gli unici ad essersi avvicinati alle posizioni di DF. L’attuale ministro per l’immigrazione in quota Venstre, Inger Støjberg, è stata coinvolta in uno scandalo a causa di un falso aneddoto, da lei raccontato, riguardante il divieto imposto in un asilo ad Aalborg di mangiare carne di maiale per non indispettire le famiglie dei bambini musulmani (maggiori dettagli sono disponibili consultando il seguente link https://www.thelocal.dk/20160112/danish-integration-minister-slammed-for-false-pork-anecdote). Trattasi della stessa ministra che nel 2015 ha comprato un annuncio pubblicitario su 4 giornali libanesi per informare eventuali futuri immigrati del cambio di passo nella legislazione danese (maggiori dettagli sull’annuncio pubblicitario si possono trovare nel link di seguito https://www.thelocal.dk/20150907/denmarks-anti-refugee-ads-published-in-foreign-papers ).

DF non ha solamente dimostrato di poter cambiare la posizione di partiti storicamente consolidati, ma anche di poter ricattare il governo di Lars Løkke Rasmussen, imponendo norme più severe sull’immigrazione. Bisogna però ricordare che DF ha rifiutato di entrare nel governo di coalizione formato da Rasmussen subito dopo le elezioni del 2015, garantendo un appoggio esterno solo su singoli temi. Una tattica che, secondo alcuni giornalisti danesi, consentirebbe a DF di “ricattare” il governo, senza però lasciare una propria impronta nell’operato di quest’ultimo.

Il dibattito rimane incandescente, ma le responsibilità dei Socialdemokraterne circa il clima islamofobo che si è creato nel paese sono evidenti: assistere alla trasformazione del partito popolare da ultraliberista a xenofobo, e al diffondersi della convinzione secondo cui gli stranieri anziché alimentare il welfare ( come avviene, pur tra mille problemi) lo minacciano, non poteva che determinare il successo elettorale di DF.
Si prospetta un futuro politico incerto per i Socialdemokraterne, che hanno davanti a sè la sfida di riadattare il proprio programma politico per contrastare gli impetuosi venti nazionalisti di DF. Ma con quali conseguenze per l’identità storica del partito?

Sara Belfiore per www.policlic.it 

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