8 marzo: storia e leggenda
L’8 marzo è universalmente riconosciuto come la giornata internazionale della donna, un’occasione annuale per ricordare le violenze subite dalle donne nella storia e celebrare le conquiste sociali, politiche e civili che negli anni hanno visto protagoniste molte donne coraggiose. Ma come nasce questa “festa” che negli anni si è mescolata alla leggenda?
Questa giornata viene collegata erroneamente a un evento tragico del 1908, legato alla morte di centinaia di operaie di un’industria tessile di New York (Cotton oppure Cotton and Cotton), fatto che a sua volta viene confuso con un altro incendio di una fabbrica tessile avvenuto realmente nella stessa città tre anni dopo (nella fabbrica Triangle), nel quale morirono 146 lavoratori, per la maggior parte donne. Diverse sono le storie che si intrecciano, cambia il luogo, il numero delle vittime e il nome della fabbrica di volta in volta. I dati documentati storicamente sono pochi e confusi e per questo è stato facile, negli anni, dar seguito a questo falso storico. Possiamo tranquillamente dedurre che la narrazione tramandata e generalmente conosciuta, legata all’incendio, può essere definita una vera e propria fake news. In realtà, l’istituzione di questa giornata commemorativa è legata ad altri motivi, più inerenti alle rivendicazioni femminili, tra le quali soprattutto il diritto al voto.
Le radici della giornata internazionale della donna risalgono al 1907, all’ambiente socialista. Fu durante il Congresso dell’internazionale socialista, infatti, che i partiti socialisti si impegnarono soprattutto sul tema del suffragio femminile. Nella Conferenza del partito socialista a Chicago del 3 maggio dell’anno seguente, si affrontò la tematica dei diritti delle donne e venne istituito il primo “Woman’s day” nell’ultima domenica del mese di febbraio (28 febbraio 1909). Nel 1910, in occasione della Conferenza internazionale delle donne socialiste, si decise di istituire una giornata per la rivendicazione dei diritti delle donne. La portavoce di questo progetto fu la politica socialista tedesca Clara Zetkin, la quale propose l’istituzione di una giornata dedicata alla promozione dei diritti delle donne, per il miglioramento delle condizioni lavorative delle operaie e l’aumento salariale e per la promozione del suffragio femminile nel Congresso socialista tenutosi a Copenaghen. Le fonti sull’origine della manifestazione sono diverse e contraddittorie; alcune ritengono che siano state le donne russe, scese in piazza per scioperare contro la guerra, il 23 febbraio del calendario giuliano del 1917 (che corrisponde all’8 marzo del calendario gregoriano), a dar vita alla ricorrenza. Secondo questa teoria, quindi, la nascita dell’evento sarebbe strettamente collegata con la Rivoluzione Russa e con la fine del regime zarista.
La giornata della donna è stata celebrata per anni in diversi Paesi, ma in date differenti. Solo nel 1977 l’ONU ha ufficializzato la manifestazione, adottando la risoluzione “Giornata delle Nazioni Unite per i diritti delle Donne e per la pace internazionale” e indicando agli Stati l’8 marzo come giornata designata alla celebrazione.
In Italia, la prima giornata della donna venne celebrata il 12 marzo del 1922; successivamente, però, l’avvento del fascismo interruppe le celebrazioni. Dopo il secondo conflitto mondiale, furono le donne dell’UDI (Unione Donne Italiane), che rivendicavano il diritto al voto delle donne, a riprendere la ricorrenza, sempre con il fine di promuovere i diritti femminili. Si deve a Teresa Mattei, la più giovane tra le 21 donne elette all’Assemblea Costituente, l’associazione tra la ricorrenza e il fiore simbolico della mimosa, che fiorisce proprio in questo periodo ed è molto diffuso.
Negli anni Settanta, poi, le femministe sfruttarono questa data simbolica per rivendicare diritti e battaglie come il divorzio, l’aborto e una legge contro la violenza sessuale.
Una riflessione profonda
Essere donna è così affascinante. È un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia mai. […] Avrai da batterti per dimostrare che dentro il tuo corpo liscio e rotondo c’è un’intelligenza che urla d’essere ascoltata. […] E spesso, quasi sempre, perderai. Ma non dovrai scoraggiarti. Battersi è molto più bello che vincere, viaggiare è molto più divertente che arrivare: quando sei arrivato o hai vinto, avverti un gran vuoto. E per superare quel vuoto devi metterti in viaggio di nuovo, crearti nuovi scopi.[1]
Così la scrittrice Oriana Fallaci definisce l’essere donna, come una sfida, come una battaglia contro la società maschilista per affermarsi. La cosiddetta “guerra tra i sessi” è una storia antica, ma che perdura tuttora. Nella società attuale persistono ancora comportamenti, mentalità e pregiudizi nei confronti delle donne, che le tengono distanti da alcuni settori riservati soltanto agli uomini. Il famoso “soffitto di cristallo”, di cui parla Maria Cristina Bombelli, che attua verso le donne una segregazione verticale, che impedisce loro di raggiungere le cariche più elevate di aziende e istituzioni, è una realtà ancora persistente. Nei Paesi occidentali continua a esistere una mentalità maschilista, retaggio antico, che vorrebbe ancora le donne segregate dietro ai fornelli, a occuparsi delle faccende domestiche e ad accudire i figli. Tuttora si sente parlare di imbecillitas sexus, una sorta di incapacità connaturata nell’essere femminile che lo renderebbe inferiore all’essere maschile per attitudini. Stando a ciò, le donne non sarebbero in grado di accedere a determinati ambiti, riservati solo all’altro sesso. Da Lady Godiva ai giorni recenti, la storia è costellata di vicende di donne più argute e tenaci, che hanno avuto la forza e il coraggio di ribellarsi alle regole degli uomini. È celebre la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, richiesta di parità tra i sessi che, nella Francia rivoluzionaria, ma non troppo, costò la vita alla coraggiosa Olympe de Gouges. Altrettanto nota è la coeva Rivendicazione dei diritti della Donna di Mary Wollstonecraft, che in una Londra di fine Settecento scriveva:
È tempo di compiere una rivoluzione nei modi di esistere delle donne – è tempo di restituire loro la dignità perduta – e fare in modo che esse, come parte della specie umana, si adoperino, riformando se stesse, per riformare il mondo.[2]
Di donne antesignane del femminismo che ritenevano indispensabile il riconoscimento della cittadinanza paritaria, potremmo citarne a centinaia. La lotta per l’emancipazione femminile vede anche alcuni uomini protagonisti, come John Stuart Mill, primo vero difensore dei diritti delle donne, che nel 1869 pubblicò il suo libro La soggezione della donna. La storia gli darà ragione, dimostrando che il pregiudizio contro la capacità della donna è un’opinione basata esclusivamente su sentimenti maschili. Nello stesso secolo, lo scrittore francese Stendhal dichiarava:
L’ammissione della donna alla perfetta eguaglianza sociale coll’uomo sarà il segno più certo dell’incivilimento, raddoppierà le forze intellettuali del genere umano e farà più probabile la sua felicità.[3]
In tutti gli Stati civilizzati, dove le donne hanno raggiunto la parità di diritti, almeno formale, ci sono stati protagonisti di ambo i sessi che si sono prodigati affinché questo avvenisse: potremmo citare le suffragette (le più celebri sicuramente furono quelle anglosassoni); questo è un tratto che accomuna i Paesi occidentali, un pezzo di storia comune. Fa riflettere, però, che il primo Stato a concedere il diritto di voto alle donne sia stata la Nuova Zelanda nel 1893 e che in Sud Africa le donne nere, discriminate per il colore della pelle, siano state ammesse al voto solo nel 1994, rispetto alle connazionali bianche che potevano votare già dal 1930.
Nella società occidentale continuano a persistere modi di dire e modi di pensare retrogradi che vorrebbero ancora le donne occupate nell’economia domestica, che hanno pregiudizi nel mondo lavorativo o nel giudicare la relazione tra una donna agée con un ragazzo più giovane o un comportamento femminile troppo spregiudicato sessualmente. Molti sono i detti e i proverbi che confinano le donne in posizione d’inferiorità rispetto all’uomo.
Per non parlare dei Paesi africani, dove nascere donne non è affatto facile. In Etiopia, per esempio, il gruppo etnico dei mursi si caratterizza per l’usanza delle donne di ornarsi di grandi dischi labiali di terracotta, che provocano problemi di masticazione e caduta dei denti anteriori inferiori. In alcune tribù esistono addirittura degli “annusatori di streghe”, che accusano le donne di praticare la stregoneria soltanto odorandole, per il semplice fatto che non sono ben viste dalla comunità. Ciò è frutto di superstizioni medievali ancora vigenti in alcune realtà. Altro fenomeno molto discusso ultimamente è la pratica dell’infibulazione femminile (contro la quale Emma Bonino si batte da anni), che priva la donna, sin da bambina, del piacere sessuale, mutilandola a vita.
Nei Paesi del Medio Oriente e musulmani la situazione della donna non migliora molto: sono costrette a coprirsi totalmente con il burqa (che a lungo andare provoca anche problemi alla vista), non è consentito loro di accedere all’istruzione, sono vittime di matrimoni combinati fin dalla tenera età, devono sottostare a leggi maschiliste che impediscono loro di decidere della propria esistenza e del proprio corpo. È notizia recente che alle donne dell’Arabia Saudita è stato concesso di poter prendere la patente di guida, notizia che a noi donne occidentali sembra surreale, dato che la prima donna italiana a ottenere la licenza di guida risale al 1907 (fu la torinese Ernestina Prola).
In India, le donne rimaste vedove sono costrette a vestirsi di bianco per essere riconoscibili nella società e addirittura, in alcuni casi, vengono esiliate in dei villaggi appositi popolati solo da vedove, perché non possono risposarsi. Altro fenomeno assai discusso negli ultimi anni è quello delle cosiddette “spose-bambine“, minori di otto anni, date in spose a uomini adulti, a volte anziani, come merce di scambio.
Questi sono solo alcuni, pochi, esempi di come le donne siano trattate come oggetti, prive di dignità personale e di diritti, ancora in molti Paesi del mondo. Potremmo definirle battaglie sociali o culturali, lotte ancora da combattere, che vedono i Paesi occidentali, europei, moderni e civilizzati, in prima linea nel trainare questi Paesi “arretrati” verso un orizzonte nuovo, di rispetto, di diritti, di uguaglianza tra i sessi. Molto spesso, quasi sempre, questi comportamenti misogini sono supportati dalla forza della convenzione, o mascherati dietro una strumentalizzazione religiosa, attuata dagli uomini, che va a giustificare il predominio maschile in tutti gli ambiti della società. Questa visione subalterna della donna è presente da sempre nell’immaginario collettivo, a volte anche nella mentalità delle donne stesse. Nei secoli la donna è stata considerata come “figlia di” o “moglie di”, senza una vera dimensione personale, quasi un oggetto bello da guardare, da esibire, da possedere o barattare. Le figlie femmine, soprattutto nei ceti sociali inferiori e poveri, erano considerate quasi una sventura, a volte venivano abbandonate o uccise appena nate, altre finivano in convento, obbligate a prendere i voti perché la famiglia non poteva occuparsi di sfamarle o dare loro una dote per maritarle. Questi comportamenti fanno riflettere e fanno comprendere quanto, nonostante le associazioni, le varie convenzioni e trattati sui diritti umani, ci sia ancora molto su cui intervenire a livello mondiale.
Cenni storici in Italia
Fin dall’Ottocento, le donne occidentali si sono impegnate, da sole o unite in diverse associazioni e in campagne di propaganda, nella scrittura di opuscoli e libretti per la sensibilizzazione alla causa del diritto al voto delle altre donne, ma anche dell’altro sesso. In Italia hanno lottato donne come Anna Maria Mozzoni, che purtroppo non riuscirà ad assistere all’agognata vittoria, o come Maria Montessori, fino ad arrivare alle madri costituenti, le prime elette nell’Italia del dopoguerra. Dopo le varie e reiterate proposte di legge sul voto femminile respinte, dopo anni di sconfitte, e la promessa vana del Duce riguardo al voto amministrativo nel 1925, dopo vent’anni di dittatura, le donne diventavano, finalmente, cittadine. Il decreto Bonomi n. 23 del 1945 concesse il voto alle donne (escluse le meretrici) ed è sicuramente una data che segna una separazione col passato. Questo passaggio fondamentale avvenne, però, soprattutto grazie alla grande partecipazione delle donne italiane alla Resistenza. Fu infatti proprio la Resistenza al nazifascismo che spinse per la prima volta le donne a rompere le regole e a correre dei rischi. Le italiane si ritrovarono così a lottare per la prima volta accanto agli uomini, anche negli scontri a fuoco.
Le prime donne elette all’Assemblea Costituente della Repubblica Italiana, nel 1946 (solo 21 su 556 deputati), ebbero un ruolo importantissimo nel redigere la Costituzione Italiana, portando avanti idee di uguaglianza e non discriminazione. In un’Italia devastata dalla guerra, il ruolo delle donne si era dovuto trasformare; erano state costrette a ricoprire i posti degli uomini, altre avevano deciso invece, autonomamente, di combattere accanto ai partigiani, imbracciando le armi e rischiando la vita. Le donne avevano acquisito coscienza di sé, autostima e si erano scoperte forti davanti agli ostacoli; non potevano più accettare, quindi, di essere escluse dall’attività statale. Anzi, reclamavano di essere coprotagoniste del nuovo processo che l’Italia stava per intraprendere. Queste donne che con grandi sacrifici avevano sfatato il mito dell’imbecillitas sexus, o della “deficienza d’attitudine”, avevano dimostrato il proprio valore non solo in ambito privato. Si erano guadagnate il diritto al voto, che non poteva essere procrastinato ulteriormente: anche loro dovevano partecipare alla costruzione dello stato democratico che stava nascendo. I luoghi del potere da sempre riservati agli uomini dovevano aprirsi anche a loro, doveva chiudersi quel passato che le aveva volute vittime delle leggi degli uomini senza possibilità d’appello. Non tutti gli uomini furono favorevoli a questo cambiamento, ma la società stava mutando e non ci furono resistenze esplicite all’ingresso delle donne in Parlamento. Dal lungimirante testo costituzionale, al quale le donne diedero un contributo rilevante, comincia la storia delle leggi delle donne, proposte dalle donne e a favore delle donne, che hanno cercato di riequilibrare i rapporti tra i sessi nella società della neonata Repubblica Italiana.
Questo lungo cammino di emancipazione femminile e di riscatto prosegue un po’ a fatica, ed è molto spesso avversato. Gli articoli costituzionali erano stati approvati, ma bisognava applicarli. Negli anni Cinquanta e Sessanta si susseguirono leggi sulla tutela della maternità, delle lavoratrici, sul lavoro a domicilio, sulla parità salariale, sulla prostituzione, sull’accesso alla magistratura… Le leggi che vedono protagoniste le donne cercarono da un lato di abrogare leggi esplicitamente sessiste, dall’altro di promuovere una nuova cultura. Le donne si impegnarono per promuovere pari dignità, sia sul piano sanitario che su quello sessuale, e una parità nella condivisione dei compiti in tutti gli aspetti della vita. Furono leggi nate in Parlamento, ma soprattutto fuori, dalla volontà popolare, da esigenze sociali. La ricostruzione del dopoguerra, la costituzione dell’Unione Europea, il “boom” economico degli anni Sessanta, l’avvento del capitalismo e del consumismo delinearono esigenze nuove, una crescita sociale, dovuta anche alle relazioni più vicine tra i popoli. Gli anni Settanta vedono il movimento femminista in prima linea e il Partito Radicale impegnati nelle leggi sul divorzio, sul diritto di famiglia, sull’aborto. Rivendicazioni di un popolo che sta mutando, in cui le donne svolgono una parte essenziale. Sono tutti cambiamenti epocali, che in un Paese fortemente cattolico destabilizzano, fanno riflettere, trasformano la società e il ruolo della donna, che ne esce fortificato e valorizzato man mano. La rivoluzione femminista segna una svolta, è un punto di non ritorno. Inoltre, la delicata situazione che visse il Paese negli “anni di piombo” complicò notevolmente il compito della politica, che si trovò in difficoltà nel comprendere e contenere gli avvenimenti italiani di quel periodo storico.
Gli anni Ottanta si aprirono con un avvenimento importante, quale fu certamente l’abolizione del “matrimonio riparatore” (1981). Questo breve quadro storico sottolinea come una maggioranza sia stata, e sia tuttora, trattata come una minoranza, e quanto si sia ancora distanti dalla parità che si ricerca da più di settant’anni. Ricostruendo la storia delle italiane repubblicane, i loro successi e le loro conquiste, che sono anche le nostre, si denuncia quindi uno stato di cose che al momento è lontano dall’essere come dovrebbe, come queste combattenti avrebbero desiderato. Emerge la persistenza di una mentalità misogina che fa sì che in Italia si parli ancora di una democrazia incompiuta. Tuttavia, nello stesso tempo, si celebrano anche le vittorie, i diritti acquisiti che, grazie a loro, noi giovani italiane possiamo godere e sui quali dovremmo riflettere e non darli per scontati.
La ricorrenza dell’8 marzo, dunque, dovrebbe essere un’opportunità per celebrare conquiste e combattere ogni tipo di discriminazione contro le donne e non dovrebbe essere definita “festa”. D’altronde, ci sarà un motivo se non è mai stata istituita una giornata internazionale degli uomini!
Sottorappresentanza e violenza
Il cammino verso la parità di genere intrapreso fin dalla redazione della Carta costituente non è ancora stato totalmente raggiunto, ma è in continuo divenire. Molto è stato fatto, ma nonostante il radicamento del concetto di pari opportunità e l’avvenuta conquista di una parità, meramente formale, la percentuale di presenze femminili nei luoghi istituzionali o nei vertici delle carriere lavorative continua ad essere molto bassa e a progredire con lentezza.
Nel 1996, finalmente, la violenza sessuale, definita nei tribunali come vis grata puellae (violenza grata alla fanciulla), è stata dichiarata reato contro la persona e contro la libertà individuale e non contro la morale pubblica e il buon costume, come veniva considerata in precedenza nel Codice penale fascista Rocco. Questa è stata una delle leggi più attese e sofferte per il mondo femminile, approvata dopo un iter durato venti anni e sei legislature, grazie all’alleanza trasversale fra le donne di tutti i partiti. Questa legge rappresenta un progresso importante per tutta la società, un mutamento della cultura, della morale, della tradizione.
Nel 2009, nell’ottica dei provvedimenti contro la violenza sulle donne, nasce la legge sullo stalking, che punisce i comportamenti ossessivi (atti persecutori) che compromettono la libertà delle donne (e in rari casi anche uomini) che ne sono vittime, a difesa e tutela delle donne perseguitate dagli uomini, di solito dagli ex compagni. Lo stalking può sfociare in femminicidio, dunque è importante una legge che ne riconosca il rischio e la pericolosità. Nel 2012, su iniziativa femminista dell’UDI, della Casa internazionale delle donne e di altre associazioni, è nata la Convenzione “No more!” contro la violenza maschile sulle donne. La Convenzione ha lo scopo di richiamare le istituzioni alla loro responsabilità e afferma che la violenza maschile sulle donne è una questione politica, un fenomeno di pericolosità sociale. Tale violenza è un’espressione del potere diseguale tra i sessi, di cui il femminicidio è l’estrema conseguenza. Tutti questi provvedimenti mirano a un cambiamento radicale della cultura e della mentalità, della rappresentanza delle donne nella società. La chiave per contrastare il fenomeno della violenza risiede in questo, nell’uso non sessista del linguaggio, anche nei media, e nell’intervento delle istituzioni. Sempre tra gli scopi della prevenzione della violenza in Italia, rientra la legge sul femminicidio (legge n. 119, 15 ottobre 2013). La legge, molto criticata da una parte del movimento delle donne, prevede misure atte a prevenire quella che ad oggi, in Italia, è una vera emergenza sociale. Viene uccisa, in media, una donna ogni tre giorni, da uomini offesi nella propria virilità che non accettano un rifiuto. Inoltre, nel 2016, è nato in Italia “Non una di meno” (Ni una menos), sull’onda del movimento femminista transnazionale originario dell’America Latina. Lo slogan del movimento lanciato dalla messicana Susana Chavez (mutilata e uccisa nel 2011 per aver denunciato i femminicidi a Ciudad Juarez) è Ni una Mujer menos, ni una muerta más. Tutti questi provvedimenti nazionali e internazionali, nonché le associazioni come “Doppia Difesa” (fondata nel 2007 da Michelle Hunziker e Giulia Bongiorno), nascono per intervenire e risolvere una piaga sociale e per sensibilizzare la società, denunciando il fatto che il privato si intreccia con il pubblico e il pubblico non può ignorarlo.
Negli ultimi decenni sono state moltissime le convenzioni e le conferenze sul tema. Nel 2013 è nato “One Billion Rising“: un movimento globale, ideato dalla scrittrice statunitense Eve Ensier, aperto a tutti, laico e apartitico. Il principio fondante che anima il movimento è che ogni donna ha il diritto di vivere e decidere del proprio corpo, della propria salute e del proprio destino. Il percorso legislativo attuato da grandi personalità femminili in Italia sin dalla nascita della Repubblica dimostra come a volte è la legge che forza la società al cambiamento, mentre altre volte è la cultura a forzare la legge.
Questi sono solo alcuni esempi di quanto la tematica sia sentita in tutto il mondo e nonostante tutto la situazione internazionale è tuttora drammatica in alcuni Paesi. È necessario adeguare la legislazione per consentire una rappresentanza equilibrata, ma ancora più necessario è coinvolgere e informare maggiormente l’opinione pubblica sulla questione dello squilibrio di genere nella rappresentanza. Con una forte azione di sensibilizzazione che coinvolga tutti i cittadini, potrà radicarsi una cultura delle pari opportunità anche nel nostro Paese.
Le donne sono state liberate, negli anni, da molte costrizioni imposte, trovando un angolo di libertà nel quale poter esprimere le proprie idee, le proprie attitudini. Poter lavorare e trovare l’indipendenza economica; poter scegliere se diventare madri o meno, grazie alla diffusione dei metodi anticoncezionali, arrivata molto in ritardo nel nostro Paese; poter scegliere di autodeterminarsi e contribuire in modo attivo nella società civile. Tutto questo è il frutto di un processo lungo, prima maturato nella coscienza individuale e poi esploso dirompente contro i simboli del potere maschile, contro i dogmi religiosi, contro tutto ciò che ingabbiava le personalità individuali. Ovviamente, questo processo non è ancora terminato.
La difficile partita a scacchi tra donne e politica non è ancora vinta. In Italia nessuna donna è mai stata eletta Presidente del Consiglio o Presidente della Repubblica. Rimane bassissima la presenza femminile nel Governo o nella Corte Costituzionale, nelle più alte cariche istituzionali dello Stato. Si parla di un vero e proprio deficit della democrazia che esclude una parte della popolazione.
Nelle scienze e nella ricerca, nelle istituzioni, nella politica e nell’economia, le donne sono tuttora sottorappresentate. Un dato significativo è che su 758 premi Nobel attribuiti, solo 34 sono stati assegnati a delle donne (22 dei Nobel rosa sono stati assegnati per la pace e per la letteratura, solo due a italiane). Nessuna donna ha mai ricevuto la medaglia Fields, l’equivalente di un Nobel per la matematica.
In conclusione, dunque, l’8 marzo non è la “festa della donna”, un giorno in cui ricevere auguri e rametti di fiori; piuttosto dovrebbe essere un’occasione per riflettere, incoraggiare le pari opportunità e diffondere la cultura del rispetto di genere.
REMEMBER!
Alessandra Diani per Policlic.it
Note
[1] O. Fallaci., Lettera a un bambino mai nato, Milano, Rizzoli, 1975, pp. 10-11.
[2] M. Wollstonecraft, Rivendicazione dei diritti della donna, a cura di G. Conti Odorisio e F. Taricone, Caravan Edizioni, 2013.
[3] M. D’Amelia (a cura di), Donne alle urne: la conquista del voto. Documenti 1864-1946, Biblink, 2006, p. 107.