Prefazione
A cura di Francesco Finucci
Incardinare le ritmiche della musica nel danzare del tempo è opera complessa, frammentaria e forse necessariamente incompleta. Il saggio qui presentato, però, propone un’esposizione profonda di tale legame, delineando la natura procedurale e lineare del rapporto tra passato, presente e futuro, e affrontandone così la dimensione al contempo intima e universale. Oggetto dell’analisi è non solo però la natura del tempo come eterno presente, cioè come un presente passato, contingente o futuro, ma anche la potenza espressiva della musica nel sovrapporre al suo scorrere elementi necessari quali memoria e attesa.
Il tempo musicale, qui, è immerso nel flusso costante del sentimento, irrorato di un passato che incatena a sé e anticipa l’avvento di un presente a sua volta gravido di futuro e anticipazione. Poco si dice, è vero, della natura sincronica della musica, nel suo essere sinfonia di voci; molto però si ricerca nel suo essere un tempo diacronico, dettato dal flusso coscienziale, vissuto e a sua volta reso vivente dagli spettri, le vite che lo animano. È il musicale descritto tempo fa da Riccardo Muti, quando parla dell’Orchestra Filarmonica di Vienna: “l’orchestra è sempre circondata dagli spiriti di Brahms, Bruchner, Mahler, e i molti altri compositori e interpreti che in questa sala hanno fatto la storia”. Il tempo, così, è inteso come durée, profondamente vissuto: spirito e opera si fondono, e altrettanto fanno esistenza e musica.
La più immediata e quasi primitiva forma di comunicazione col mondo, quella del suono, apre così una via, un punto di passaggio che dalla fruizione del musicale arriva a una hegeliana interiorità astratta, un’alterità-identità dove il sentimento dell’autore è in qualche modo accolto, diffondendosi nel fruitore, inondandone i sensi. Da questo germoglio nasce il musicale. Non è casuale, dunque, che trattando questa opera generativa, l’autore parli di catarsi: è una discesa nell’abisso dell’introspezione, che è in realtà ascesa verso le stelle di un sentimento condiviso, viaggi opposti e contemporanei nei quali, in un’eterna avventura, il fruitore è destinato a mutare. La musica si inscrive quindi nelle più classiche dinamiche della freccia del tempo, che si comprime ed estende, ma non può tornare indietro.
Partendo da Sant’Agostino
Il concetto di tempo ha da sempre stimolato analisi filosofiche intese alla comprensione dei modi e delle forme del suo divenire, tutte riconducibili ad un unico principio fondante, quello dell’esistenza umana che nel tempo si comprende acquisendo quel carattere transeunte che la caratterizza. Nel tempo, “possiamo agire, gioire, creare, amare la vita e attendere la morte”[1]; nel tempo viviamo quella profonda contraddizione che consiste nel desiderare che esso scorra spedito, perché solo attraverso il suo fluire può dispiegarsi la nostra natura progettuale, e al contempo, che possa rallentare la sua inesorabile corsa perché è proprio il divenire “che conferisce a tutto ciò che esiste l’inconsistenza dell’effimero; che getta su tutto ciò che esiste un’ombra anticipata del nulla e il sospetto del non-senso”[2].
Il tempo, lo percepiamo procedere unidirezionalmente dal “prima” al “dopo”, allontanandosi come tempo passato, su cui non abbiamo presa perché irrimediabilmente perduto, approssimandosi come tempo futuro, allo stesso modo impalpabile: il tempo, sembra arrestato al medesimo istante in cui lo viviamo, un “frangente di eternità” che paradossalmente si sostantiva attraverso il suo stesso fluire.
Nell’opera le Confessioni, Sant’Agostino pone un’importate quesito:
come può diminuire o consumarsi il futuro che non esiste ancora, come può crescere il passato che non esiste più, se non perché nella mente, in cui quel complesso ha il suo svolgimento, sussistono le tre forme?[3]
il filosofo precisa come,
più esatto sarebbe dire: tre sono i tempi, il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Queste ultime tre forme esistono nell’anima, ne vedo possibilità altrove. Il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l’intuizione diretta, il presente del futuro è l’attesa[4].
È proprio questa “presenza dell’assenza”, colma di passato e gravida di futuro, un istante sospeso tra il divenire e il divenuto, ad essere evocato dall’opera musicale e restituito all’ascoltatore come un evento totalizzante, in cui l’io, “preso per mano dal ritmo cadenzato della musica”, ritrova il tempo stesso della sua esistenza esperito attraverso una nuova luce, una fonte inesauribile di presente che si irradia in tutte le dimensioni del tempo, una “piccola durata”, che tendiamo a percepirla eterna grazie al potere preminente della musica. In tal senso, Jeanne Hersch in Tempo e musica osserva come:
l’ascolto si manifesta nella <<piccola durata>> del presente, così come è vissuta nel presente pratico; in quella <<piccola durata>> – la miniatura dell’eternità – si dilata fino ad abbracciare in un certo senso tutta l’opera, quasi fosse simultanea, racchiudendo in se, in virtù dei diversi elementi della musica, tutte le dimensioni del tempo.[5]
Lo sviluppo armonico e melodico, nel suo costante coniugarsi al presente, sembra espandersi in tutte le direzioni del tempo: nell’istante dell’ascolto, la nota presente, qualificata dalla nota precedente, richiama la successiva attraverso un gioco di attrazione e repulsione, assonanza e dissonanza, che rende inatteso lo svolgimento del discorso musicale:
i suoni e i ritmi si susseguono, scompaiono, ma quelli precedenti qualificano i suoni che ascolto ora, dunque non scompaiono. Suoni che potrebbero essere diversi da come sono, perché nella serie immutabile del tempo, nella struttura dell’opera vedo anche quel passaggio cieco che mi esclude. Eppure continuo a ripartire affettivamente gli istanti, nella separazione da ciò che è stato e nello slancio che anticipa ciò che sarà; che non posso tuttavia prevedere […]”[6]
La ripartizione degli istanti evidenziata e su cui si basa tutta l’esperienza musicale, richiama gli elementi della memoria e dell’attesa attraverso cui l’io percepisce ed organizza l’estensione del tempo; in questo senso, il tempo dell’ascolto musicale sembra stabilire una analogia con la comprensione temporale offerta dall’analisi santagostiniana:
l’animo attende, presta attenzione, ricorda: in modo che quello che attende, attraverso il suo sviluppo nel presente, passi poi nel ricordo. chi potrebbe negare che il futuro non esiste ancora? Ma nell’animo vive l’attesa del futuro. Chi potrebbe negare che il passato non esiste più? Ma nell’animo vive la memoria del passato. E chi negherà che il tempo presente manca di estensione perché non è che un punto transeunte? Ma dura l’attenzione attraverso la quale il futuro tende al passato. Non si può avere dunque un futuro lungo – non esiste ancora- ma il lungo futuro è la lunga attesa del futuro; non si può avere un passato lungo – non esiste più – ma il lungo passato è il lungo ricordo del passato[7]
Nel corso dello svolgersi dell’opera musicale, l’ascoltatore è trasportato in una dimensione temporale onnicomprensiva, dove gli anzidetti elementi temporali, assimilabili musicalmente a ciò che abbiamo ascoltato e quello che ascolteremo, si contraggono nell’Ora[8] generando una situazione di suspens temporale.
Andrè Gide, analizzando gli Impromptu di Fryderyk Chopin, coglie in essi questa situazione di apprensione che si disvela lungo tutto il percorso musicale, paragonabile ad un cammino avventuroso che intraprende l’animo umano verso una infinita ricerca di se stesso; egli osserva come le composizioni chopiniane siano,
una passeggiata densa di scoperte, dove l’esecutore non deve affatto dar a vedere che quel che dirà è a sua conoscenza e si trova già sulla carta: mi piace che la frase musicale, formatesi via via sotto le sue dita, sembri uscir da lui, lasciandolo stupito e invitandoci suademente a partecipare al suo rapimento […] In Chopin, ogni modulazione, mai banale e ovvia, deve conservare, preservare questa freschezza questa emozione quasi timorosa del brusco apparire di qualcosa di nuovo, questa segreta meraviglia alla quale l’anima avventurosa si espone, su vie non ancora tracciate, e dove il paesaggio non si scopre che poco per volta[9].
Hegel, sentimento e tempo in musica
Per l’illuminista Kant la musica, in quanto arte asemantica, non possiede alcun contenuto intellettuale da sottoporre alla ragione. Con una rigida impostazione razionalistica egli osserva come,
sebbene quest’arte ci parli per mera sensazione, senza concetti, e quindi non lasci qualcosa alla riflessione, come la poesia, essa commuove lo spirito più variamente, e più intimamente, sebbene solo con effetto passeggero; ma essa è piuttosto godimento che cultura […] e giudicata dalla ragione ha minor valore di qualunque altra delle belle arti[10].
In epoca successiva, questo presupposto viene colto attraverso nuove prospettive: proprio perché la musica è una forma d’arte asemantica può raggiungere le profondità della coscienza e per questo vedere come suo elemento essenziale il tempo. Una prima e importante analisi su questo tema è fornita da Hegel il quale pone i presupposti per i futuri sviluppi della disciplina estetica e filosofica della musica.
Il filosofo tedesco, nel testo Lezioni di estetica, inizia la sua disamina sulla musica prendendo in considerazione l’”elemento sensibile” attraverso cui essa si manifesta esteriormente:
l’elemento sensibile è l’apparenza che si invola, la soggettività astratta, che rimane soggettiva nella sua estrinsecazione; non permane quietamente qualcosa di esteriore ma, come esteriore, sparisce immediatamente. Questa guisa dell’estrinsecazione è il suono, e la natura del suono è quella di negare la propria esteriorità. È una estrinsecazione che è immediatamente soggettiva e cioè l’estrinsecazione astratta, suono come suono.[11]
Hegel prosegue cercando di stabilire quale interiorità sia in relazione con la “soggettività astratta”; questa è l’io che, non differenziandosi spazialmente dal suono, non stabilisce alcun legame con l’esteriorità, vale a dire, non è in rapporto con un oggetto a lui esterno; in questo senso l’io è definito come “interiorità astratta”:
si tratta dell’interiorità più astratta, dell’oggettività del tutto priva di oggetto, […]. Questa è il nostro io del tutto vuoto, l’ipsietà priva di ogni ulteriore contenuto[12].
Ne consegue che, nell’ambito dell’arte musicale, l’alterità tra soggetto ed oggetto tende a dissolversi nel flusso della coscienza in virtù del peculiare rapporto che si instaura tra suono e io:
in questa prospettiva, con riguardo al suo effetto, la musica è distinta dalle altre arti, nelle quali noi abbiamo davanti a noi qualcosa di oggettivo, di contro al quale l’io ancora si distingue, oppure, profondandosi in esso, si trova tuttavia a essere riempito di un contenuto a lui stesso esteriore. Quel che mi riempie è pur sempre ancora distinto da me stesso, è per sua natura esteriore, spaziale, e quindi ancor sempre distinto dall’interiorità dell’io. Nella musica invece questa distinzione viene a cadere. L’io non è più distinto dal sensibile stesso, i suoni scorrono nel mio interno più profondo. A essere coinvolta e a essere posta in movimento è la più intima soggettività stessa. Ed è questo a costituire il potere dei suoni in genere. È il soggetto come tale a essere presente in questa sua estrinsecazione, e non si mantiene di contro ad essa.[13]
Questo intimo coinvolgimento con la musica, l’io lo stabilisce in prima istanza attraverso il sentimento:
tale astratta interiorità dell’io chiuso in se possiede come prima particolarità il sentimento; è questa l’interiorità più prossima con la quale sta in connessione la musica. Quel che la musica tocca è il sentimento, la prima espansione della soggettività, l’io, che in questa astrazione ottiene determinatezze. Se per esempio parliamo di tristezza, paura, serenità, questi sono sentimenti. E’ presente un contenuto.[14]
Tuttavia, l’io non “sente” uno specifico “affetto” in stretta relazione con la propria vita emotiva, ma ne riconosce la sua forma generale; detto in termini hegeliani, il sentimento è la forma che l’io dà al contenuto in relazione alla sua soggettività:
quando io possiedo questo contenuto in relazione alla mia soggettività, io sento questo contenuto […] Il sentimento è dunque sempre solo quello che riveste il contenuto, quando viene posto in relazione alla mia soggettività.[15]
In tal senso, Roberta Guccinelli osserva come, durante l’ascolto musicale
sentiamo quei sentimenti come se fossero i nostri, li proviamo senza provarli: sono sentimenti fittizi, non sono superficiali, semplicemente non sono i nostri, ma li riconosciamo e accogliamo, accogliendo nella musica un’altra vita, trasformata, arricchita, approfondita.[16]
Attraverso questa astrazione degli “affetti”, riusciamo ad approfondire il tempo della nostra esistenza sul piano di un “sentire” universale scevro da ogni forma di “contagio affettivo”. È proprio in questo che consiste l’effetto catartico della musica: durante l’ascolto, il soggetto tende a dissociarsi dal tempo pratico che detta la vita quotidiana, tanto più a distaccarsi dalla fitta rete di relazioni cosali e interpersonali in cui è immerso, ritornando in sé, ritrovandosi in uno stato puramente introspettivo.
Non a caso, Hegel passa a considerare l’aspetto della temporalità. In questa parte, sembra stabilirsi una profonda relazione tra il tempo dell’ascolto musicale e il tempo percepito dalla coscienza. Quest’ultimo, è un succedersi di momenti raccolti in unità; l’istante, nel momento stesso del suo porsi, è superato in quanto già proteso verso il successivo. Il tempo “quando è già non è più”e in questo andamento è percepito dall’io convergere costantemente nel presente. Nel suo testo, La fenomenologia dello spirito, Hegel descrive chiaramente questa dinamica temporale:
L’Ora, mentre lo si mostra ha già cessato di essere. L’Ora che è, è diverso da quello mostrato, e ci rendiamo conto che l’Ora è propriamente questo: quando è, già non è più. L’Ora che ci viene mostrato è un Ora che è stato e questa è la sua verità; esso non ha la verità dell’essere. La sua verità consiste in ciò: l’ Ora è stato. Ciò che è stato, però, non è però di fatto nessuna essenza; esso non è, mentre invece dovevamo avere a che fare con l’essenza.[17]
Allo stesso modo, la musica si conserva in questo eterno “Ora” che unisce l’essere e il non essere del tempo: essa, pur dissolvendosi nel passato, agisce costantemente nel presente. Trascendendo il tempo stesso, la musica si mantiene “in questo sensibile negativo, che in quanto è, non è, e nel suo non essere produce nuovamente il suo essere e così è l’incessante superarsi e, nel proprio superare, è generazione di se”.[18]
Il flusso delle note, appare quindi regolato nel tempo allo stesso modo con cui l’io regola la propria temporalità:
l’io è nel tempo e il tempo è l’essere del soggetto. Ma posto che il tempo e non lo spazio è l’elemento essenziale in cui il suono acquista esistenza e valore musicale, e che il tempo del suono è anche il tempo del soggetto, il suono penetra nell’io, lo afferra nella sua esistenza semplice, lo mette in movimento e lo trascina nel suo ritmo cadenzato[19],
così l’io, raccoglie i momenti sparsi della sua esistenza ritornando costantemente “in sé”,
questo ritorno su se stesso, questo riconoscimento della propria identità più profonda, l’io può operarlo grazie alla temporalità della musica che esercita una funzione unificatrice, regolatrice, catartica rispetto al tumulto disordinato della nostra vita sentimentale. [20].
Hegel, benché all’inizio della sua analisi abbia considerato la musica mezzo privilegiato per l’espressione dei sentimenti, adesso perviene ad un assunto più profondo intendendola fondata sull’identità tra durata interiore della coscienza e tempo musicale.
Giselle Bretel, estende l’intuizione hegeliana ponendo in relazione il concetto di forma musicale con il tempo:
il tempo come forma della sonorità e della vita interiore ha un aspetto oggettivo ed uno soggettivo, che si implicano a vicenda per cui, come nell’opera musicale il tempo è vissuto soltanto attraverso la forma; la forma è reale soltanto quando corrisponde ad una esperienza temporale nel creatore.[21]
ne consegue che,
a livello della forma pura e del tempo puro, perde significato l’alternativa tra autonomia ed eteronomia della creazione: la forma sonora si costruisce come si costruisce la nostra vita interiore e ritroviamo in questa forma l’espressione delle categorie fondamentali per cui il tempo si costituisce.[22]
Intuendo questa dimensione finita nella corrispondenza tra forma e contenuto, l’Io “finisce” per sperimentare la propria finitudine. Tutto questo intimorisce in quanto sfugge all’ordinaria comprensione ma al tempo stesso stimola profonde riflessioni sul rapporto vita-destino, non solo personale ma riguardante l’umanità intera. Grazie alla musica, riusciamo a cogliere quella sensazione di vertigine verso l’ignoto, quasi sublime, che ci rende più forti della fine stessa restituendoci al tempo della nostra esistenza consapevoli di poter dominare il suo effimero fluire.
Nel musica, intravediamo dunque, una compresenza di vita nella morte e morte nella vita. Il direttore d’ orchestra, Daniel Barenboim in La musica sveglia il tempo osserva come questa coesistenza renda la musica uno specchio dell’esistenza umana. Attraverso la musica si potrebbe in un certo senso controllare il suddetto rapporto:
con la fine di ciascuna nota si sprigiona un sentimento di morte, e attraverso tale esperienza si vive una sorta di trascendenza delle emozioni che le note hanno prodotto nelle loro brevi vite; in un certo senso, suonando si è a contatto con l’atemporalità.[23]
Barenboim, fa riferimento all’esperienza trascendentale che vive l’esecutore musicale ma che, senza il rischio di incorrere in una forzatura, possiamo estendere anche al fruitore finale dell’opera.
Nota su Chopin – sonata in SI bemolle minore: il finale
Si prenda in considerazione il Finale della Sonata op. 35 di Chopin. Il movimento risulta essere una composizione estremamente enigmatica e irrazionale, una ironia come è stato definito da Robert Schumann. Nella linea melodica dal forte carattere cromatico, al di fuori da ogni relazione tonale, e nell’oscura e indefinita armonia su cui esso si fonda, individuiamo una profonda relazione con una possibile dimensione misteriosa, nascosta dietro il mondo fenomenico; è la raffigurazione musicale del concetto di volontà schopenhaueriano presentarsi nel suo stato embrionale, ovverosia, come “un’ impulso cieco, un agitarsi oscuro, cupo, lontano da ogni conoscibilità immediata.”[24]
Chopin nel Finale, vuole rendere musicalmente il nulla della morte e così chiudere in modo tragico la Sonata; ma poiché la morte è il perire dell’uomo solo come fenomeno in quanto come volontà egli è infinito, per analogia il movimento sembra andare oltre l’intento del musicista arricchendosi di un ulteriore significato spirituale che trascende la morte fenomenologica in una dimensione imperitura dell’essere.
Come osserva Nietzsche,
solo partendo dallo spirito della musica possiamo riuscire a comprendere la gioia per l’annientamento dell’individuo. Infatti nei singoli esempi di un tale annientamento ci viene chiaro solo l’eterno fenomeno dell’arte dionisiaca, che esprime la volontà nella sua onnipotenza per così dire dietro il principium individuationis, la vita eterna al di là di ogni apparenza e nonostante ogni annientamento.[25]
Nel movimento Finale, ritroviamo una reciproca presenza di vita e morte, l’eternità a cui aspirerebbe l’uomo,
la musica suonata ed ascoltata non potrà mai essere cancellata dal passato, qualunque cosa accada. Niente potrà cancellare questo fatto: la musica è stata suonata, voi l’avete ascoltata. Se un giorno la terra congelasse […] se gli uomini sparissero, anche allora il tempo della musica vissuta si conserverebbe nel passato. Se sparisse senza lasciare alcuna traccia, quel tempo continuerebbe misteriosamente, ad arricchire l’universo di umanità[26].
Quest’ultimo verso, ci porta nuovamente al pensiero di Schopenhauer e al già citato concetto di volontà, principio noumenico alla base di tutta la sua filosofia. La musica diviene “una lingua universalissima la cui chiarezza sorpassa finanche quella dello stesso mondo intuitivo”[27]; essa
non è immagine del fenomeno, o più esattamente dell’adeguata oggettiva della volontà, bensì direttamente immagine della volontà stessa, e quindi rispetto a ciò che nel mondo è fisico, rappresenta il metafisico, e rispetto ad ogni fenomeno la cosa in sé. Si potrebbe perciò dire il mondo altrettanto musica solidificata che volontà solidificata.[28]
Di conseguenza, se riuscissimo a dare una riproduzione esauriente in concetti di ciò che la musica esprime, questa sarebbe una riproduzione e spiegazione del mondo.
Secondo Schopenhauer, vita e musica convergono nel tempo assoluto, ovverosia, in un “unico pensiero dal principio alla fine”:
la melodia nella voce principale, alta, cantante, che guida l’ insieme e procede liberamente, a talento, con la connessione ininterrotta e significativa di un unico pensiero dal principio alla fine, che rappresenta un tutto unico, io riconosco il più alto grado di oggettivazione della volontà, il vivere e aspirare consapevole dell’uomo. Come egli solo, in quanto è dotato di ragione, guarda sempre avanti e indietro, sulla via della sua realtà e delle innumerevoli possibilità, così vivendo una vita consapevole e pertanto coerente come tutto: in corrispondenza dunque di ciò, solo la melodia ha nesso significativo e intenzionato dal principio alla fine. Essa narra dunque la storia della volontà illuminata dalla riflessione, la cui impronta nella realtà è la serie dei suoi atti.[29]
L’ascolto musicale si trasforma allora, in una attività complessa che trascende il semplice aspetto fenomenico dell’udire un successione di suoni organizzati nel tempo e che richiede al fruitore finale dell’opera una particolare consapevolezza diretta a recepire il fatto sonoro nella sua totalità noumenica:
andando oltre le idee, [la musica] è anche del tutto indipendente dal mondo fenomenico, semplicemente lo ignora e potrebbe in certo modo sussistere anche se il mondo non fosse affatto[30]
Henri Bergson e Alfred Schutz: il tempo quantitativo
Il rapporto tra ricordo e aspettazione che si configura durante l’esperienza dell’ascolto musicale, tratto in prima istanza dall’analisi agostiniana del tempo, è ripreso nella fenomenologia musicale di Alfred Schutz.
Egli, partendo dalla concezione bergsonìana del tempo inteso come durée, opera una riflessione sulla costituzione politetica della musica. Rispetto la ricognizione monotetica di un oggetto che finisce per restringere il campo di indagine esclusivamente nella sua dimensione spaziale, come avviene per tutte le forme artistiche che si sviluppano esteriormente, nella musica riconosciamo l’oggetto nella sua costituzione politetica, vale a dire, nel suo esclusivo sviluppo nella dimensione del tempo, (durée), attraverso un flusso coscienziale irreversibile[31].
L’analisi di Bergson verte costantemente sulla generica separazione tra spazio e tempo al fine di poter delineare la sua personale formulazione filosofica del concetto di “tempo qualitativo” definito eterogeneo a differenza del tempo omogeneo, quest’ultimo costituito da una serie di momenti giustapposti che richiamano inevitabilmente la nozione di spazio.
Egli, in un passo tratto dal suo celebre scritto intitolato Saggio sui dati immediati della coscienza, illustra bene questa differenziazione. Stabilendo una analogia tra il susseguirsi degli stati di coscienza e una serie successiva di oscillazioni di un pendolo, rileva l’idea erronea di durata dovuta all’invasione della dimensione spaziale in quella temporale:
siccome ognuna delle fasi successive della nostra vita cosciente, che tuttavia si compenetrano tra loro, corrisponde a una oscillazione del pendolo ad essa simultanea, e siccome d’altra parte queste oscillazioni sono nettamente distinte, poiché quando una si produce l’altra non c’è più, contraiamo l’abitudine di stabilire la stessa distinzione tra i momenti successivi della nostra vita cosciente: le oscillazioni del bilanciere la scompongono, per cosi dire, in parti esterne le une alle altre. Di qui l’idea erronea di una durata interna omogenea analoga allo spazio in cui momenti identici si susseguirebbero senza compenetrarsi[32]
Il filosofo francese, osserva come il concetto di tempo non si costituisca per mezzo di una concatenazione di istanti misurabili, bensì, da un insieme di stati di coscienza che si compenetrano vicendevolmente dando luogo ad “una sintesi per cosi dire qualitativa, un graduale organizzarsi tra loro delle nostre sensazioni successive, un’unità analoga a quella di una frase musicale.”[33]
Il capitolo centrale del saggio citato dedicato alla temporalità, illustra diverse analogie tra il tempo qualitativo e il tempo musicale atte a chiarire il concetto di dureé. Questo, in estrema sintesi è costituito da,
un incastrarsi dei fatti di coscienza gli uni negli altri con l’arricchimento graduale dell’io […] dentro di me si svolge un processo di organizzazione o di mutua compenetrazione dei fatti di coscienza che costituisce la vera durata[34];
una forma di accrescimento analoga a quella riscontrabile nello sviluppo dell’opera musicale dove, la nota che “sentiamo” nell’istante presente acquisisce valore proprio perché comprovata dal suo incontro con le note passate e future. Cosi come visto per i “fatti della coscienza” riguardanti l’io, allo stesso modo il flusso di note si compenetra nell’Ora producendo un costante arricchimento della frase musicale; per di più, questo andamento sottintende un costante disvelamento di significati che la composizione stessa contiene, fino alla conclusione della sua esecuzione musicale che in realtà non rappresenta la sua “fine”, bensì il compendio contenutistico dell’opera stessa.
È proprio in questa peculiare espansione qualitativa del tempo, finché dura, che musica e coscienza finiscono per stabilire un profondo legame, ritrovandosi l’una nell’altra andando a costituire un unicum non solo temporale ma anche sostanziale.
Fermo restando su questa straordinaria intuizione, Schutz[35] distingue un atteggiamento verso il passato e uno verso il futuro nel cui ambito agiscono meccanismi tra loro similari che si dispiegano attraverso quattro categorie permutate dalla fenomenologia hurselliana, similmente costitutive del flusso della coscienza che dell’esperienza musicale.
Esse sono: la ritenzione, l’atto della coscienza di mantenere un costante contatto tra istante presente con quello immediatamente passato; la riproduzione, che fa riferimento a eventi passati più remoti assimilabili al ricordo dell’evento musicale nella sua totalità, al di fuori dell’esperienza diretta dell’ascolto;
la protensione, attraverso la quale la coscienza vive l’esperienza presente influenzata dall‘immediato futuro, atteggiamento analogo alla situazione di attesa nel recepire l’evento sonoro nel suo imminente sviluppo; l’anticipazione, in riferimento all’attesa creatasi durante l’ascolto che implica un coinvolgimento più attivo consistente nel cercare di immaginare come il brano si svilupperà sulla scorta di quanto ascoltato in precedenza; in quest’ultimo caso,
al compositore è affidato il compito di decidere quando soddisfare o meno queste attese, di creare cioè un giusto equilibrio tra il piacere che proviamo nel vedere soddisfatta un’attesa e la sorpresa che proviamo quando quello che ci aspettavamo viene disatteso. Il piacere che proviamo nell’ascolto della musica, nasce dalla naturale predisposizione che abbiamo nel predire i suoni che verranno. Per questo, la principale differenza tra le arti visive e la musica, è che quest’ultima ha bisogno di tempo per manifestare pienamente il suo potenziale.[36]
In conclusione, possiamo dedurre come durante l’ascolto musicale non è il tempo ad essere “dato” alla coscienza come vuole la nozione scientifica spazio – temporale, ma al contrario, è la coscienza a dispiegare il proprio tempo interiore analogamente al tempo dello sviluppo musicale e viceversa. La musica, finisce cosi per articolarsi attraverso due dimensioni temporali altrimenti inconciliabili tra loro: quella del “tempo coniugato”, costituito dalle tre forme temporali del passato, presente e futuro, che in ultima analisi convergono con il divenire storico dell’uomo; quella del “tempo atensionale”, non oggettivamente collocato in quanto non implica necessariamente un prima o un dopo ma che riguarda un processo a sé stante, che trascende il tempo stesso inglobando l’opera musicale nella sua totalità.[37]
L’ascolto musicale offre una sintesi di questi aspetti: un presente che passa e non passa, come se l’attimo dell’ascolto si preservasse per sempre divenendo al contempo il segno sublime della nostra transitorietà e immortalità.
Massimiliano Palumbo per Policlic.it.
Bibliografia consultata
- Hersch, Tempo e Musica, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano, (2009).
- Sant’Agostino, Le confessioni, Fabbri Editori, Milano, (2004).
- Gide, Note su Chopin, Passigli editore, Firenze, (1997).
- Prato, La fenomenologia della musica di Alfred Schutz, estratto dalla Rivista di Estetica n. 10 -1982, Rosenberg & Sellier Editori in Torino.
- Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, Raffaello Cortina Editore, Milano, (2002).
- Kant, Critica del giudizio, Laterza, Bari, (1997).
- Hegel, Lezioni di estetica, Bari, Editori Laterza (2000).
- Hegel, La fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano (2015).
- Fubini, L’estetica musicale dal settecento ad oggi, Einaudi, Torino, (2001).
- Barenboim, La musica sveglia il tempo, Feltrinelli Editore, Milano, (2019).
- Schopenhauer, Il Mondo come Volontà e Rappresentazione, Bur, Milano, (2009), Volume I.
- Nietzsche, La nascita della tragedia, Milano, Adelphi Edizioni, (2009).
[1] J. Hersch, Tempo e Musica, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2009, p. 111.
[2] Ivi, p. 112.
[3] Sant’Agostino, Le confessioni, Fabbri Editori, Milano 2004, p. 345.
[4] Ivi, p. 337.
[5] J. Hersch, op. cit., p. 71.
[6] Ivi, introduzione di Roberta Guccinelli, p. 41.
[7] Sant’Agostino, op. cit., p. 345.
[8] Per il concetto di “Ora” consulta il paragrafo successivo, Hegel, sentimento e tempo in musica.
[9] A. Gide, Note su Chopin, Passigli editore, Firenze 1997, pp. 32-33.
[10] E. Kant, Critica del giudizio, Laterza, Bari 1997, p. 191.
[11] F. Hegel, Lezioni di estetica, Bari, Editori Laterza 2000, p. 254.
[12] Ibidem.
[13] Ivi., pp. 254-255.
[14] Ivi., p. 256.
[15] Ivi., p. 257.
[16] J. Hersch, op. cit., introduzione di Roberta Guccinelli, p. 45.
[17] F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano 2015, p. 149.
[18] F. Hegel, Lezioni di estetica, cit., p. 43.
[19] E. Fubini, L’estetica musicale dal settecento ad oggi, Einaudi, Torino 2001, p. 128.
[20] Ibidem.
[21] G. Brelet, Esthétique et creation musicale, Puf, Paris, 1947 p. 71 – citato in Fubini, L’estetica musicale dal settecento ad oggi, Einaudi, Torino 2001, p. 225.
[22] Ibidem.
[23] D. Barenboim, La musica sveglia il tempo, Feltrinelli Editore, Milano 2019, p. 15.
[24] A. Schopenhauer, Il Mondo come Volontà e Rappresentazione, Bur, Milano 2009, Vol. I, p. 336.
[25] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Milano, Adelphi Edizioni 2009, pp. 110-111.
[26] J. Hersh, op.cit., pp. 73-74.
[27] A. Schopenhauer, op. cit., p. 486.
[28] Ivi., p. 496.
[29] Ivi., pp. 491-492.
[30] Ivi., p. 489.
[31] Cfr. P. Prato, La fenomenologia della musica di Alfred Schutz, estratto dalla Rivista di Estetica n. 10 -1982, Rosenberg & Sellier Editori in Torino, p. 93.
[32] H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002, pp.71-72.
[33] Ivi, p. 73.
[34] Ivi, p. 71.
[35] Tutta l’analisi che segue su Alfred Schutz è da confrontare con P. Prato, p. 94.
[36] https://www.osservatoreromano.va/it/news/2020-10/quo-249/il-tempo-tra-memoria-e-anticipazione.html -L’ossevatore Romano – cit. Cristian Carrara.
[37] Cfr. J. Hersch, op. cit., introduzione di Roberta Guccinelli, pp. 32-33.