Policlic 13
“Il Sessantotto è l’origine del terrorismo: nei sassi di Valle Giulia c’erano già, ineluttabili come il destino, le pallottole che dieci anni dopo avrebbero sterminato la scorta di Aldo Moro, ucciso il presidente della DC, ucciso e ferito a lungo”. Macché: “Il Sessantotto, movimento progressista e democratico, con le gesta folli di una sparuta minoranza impazzita non c’entra niente. Solo affermarlo è una tendenziosa offesa”. Questo dibattito, sempre uguale e sempre sterile, non in sé ma per come puntualmente lo si imposta, è riemerso qualche settimana fa, in occasione degli arresti a Parigi di una decina di ormai attempati e del tutto inoffensivi ex brigatisti rossi. Non era la prima volta, non sarà l’ultima.
La prima affermazione è di solito un cavallo di battaglia degli opinionisti di destra. La seconda ha più larga diffusione: la ha fatta propria di recente lo stesso capo dello Stato. Fonte autorevolissima, ma la lettura storica resta discutibile, come del resto anche quella opposta. Il che non significa affatto che la verità stia nel mezzo, posizione quasi sempre insulsa, ma solo che il percorso che portò una parte non maggioritaria ma neppure insignificante del movimento dei primi anni Settanta a scegliere la violenza, in varie forme e non solo in quella delle organizzazioni armate clandestine, andrebbe analizzato sul serio e con strumenti adeguati. D’abitudine viene invece impugnato superficialmente, cercando di usare il passato come strumento contundente per la contesa politica del presente.
Negare alcuni rapporti diretti, sia pur non rigidamente consequenziali, tra “l’anno degli studenti” e gli anni di piombo è nella migliore delle ipotesi una forzatura. Il Sessantotto, formula con la quale si indica quanto meno una fase prolungatasi sino alla primavera del 1970, passando per la rivolta operaia del 1969, non era solo un movimento che riconosceva la possibilità di adoperare la violenza, caratteristica propria di tutti i movimenti rivoluzionari. La violenza era però considerata imprescindibile e, almeno a parole, esaltata all’unanimità. Non era una possibilità tra le tante ma uno sbocco considerato necessario e auspicato: una discriminante.
Almeno fino al 1973, dunque nell’intera fase montante di un movimento senza precedenti né pari nell’Occidente postbellico, la vera linea di divaricazione tra le organizzazioni extraparlamentari e il movimento operaio tradizionale, il PCI e il sindacato, passava proprio per il ruolo opposto che veniva assegnato all’uso della violenza. I “revisionisti“ erano tali proprio perché avevano rinunciato all’uso della violenza, se non, in casi estremi, con funzione difensiva; gli “estremisti“ erano tali perché non capivano che la strada giusta e democratica, oltre che la meno pericolosa perché meno esposta a contraccolpi reazionari, era quella pacifica e non violenta delle “riforme di struttura”.
Ciò non implica affatto che tutti quelli che ogni giorno esaltavano la violenza intendessero davvero passare dalle parole ai fatti. Per moltissimi “l’ora del fucile” doveva sì inevitabilmente scoccare, ma in un futuro indistinto e comunque non all’ordine del giorno. Tuttavia, confutare una certa continuità tra quelle teorizzazioni e la pratica seguente risulta poco proponibile. Tanto più che non si trattava affatto solo di parole. Tutte le organizzazioni della sinistra extraparlamentare disponevano di servizi d’ordine militarizzati, che alla violenza, sia pur non armata e in gradi diversi a seconda della radicalità dei singoli gruppi, ricorrevano continuamente. Alcune delle organizzazioni principali, come Potere Operaio o Lotta Continua, avevano organizzato già nei primissimi anni Settanta strutture clandestine armate che finanziavano i rispettivi gruppi con le rapine.
Ciò non significa affatto che la storia fosse già scritta e la deriva armata già predeterminata. In una temperie politico-culturale come quella era effettivamente inevitabile che qualcuno optasse comunque per la clandestinità e la lotta armata, come i GAP di Feltrinelli, la genovese Banda XXII ottobre o le Brigate Rosse, che si formano già nel 1971. Ma erano fenomeni marginali, limitati, almeno sino al 1973-75, a poche decine di persone. Bisognerebbe dunque chiedersi cosa intervenne per spingere invece migliaia di persone verso una scelta radicale.
Di certo il 1973 è un anno che funziona da spartiacque. È l’anno che chiude, con l’occupazione di Mirafiori a fine marzo, la fase offensiva della rivolta operaia, alla quale seguirà, l’anno dopo, l’avvio di un gigantesco processo di ristrutturazione nelle fabbriche che si poneva apertamente l’obiettivo di domare l’insubordinazione operaia. Con la crisi innescata in autunno dall’embargo sul greggio deciso dai Paesi produttori di petrolio termina, dopo un ventennio, la golden age, espansiva e affluente. L’austerity inaugura invece una fase difficile e di crisi endemica che mette in pericolo le conquiste dei movimenti degli anni precedenti. Se si andasse a scavare con qualche attenzione, si scoprirebbe che tutte le componenti del movimento si pongono tra il 1973 e il 1975 il problema di come fronteggiare una situazione radicalmente diversa da quella del quinquennio precedente e ciascuna dà una risposta diversa, comunque trasformandosi radicalmente. Alcuni imboccano una via istituzionale e moderata, tentano il passaggio al parlamentarismo, comunque riscoprono il dialogo con la sinistra tradizionale. Altre aree scelgono invece la via opposta, quella della radicalizzazione e della lotta armata come reazione a un quadro che vede i movimenti ancora molto forti nel Paese e tuttavia, in prospettiva, già condannati alla sconfitta.
Nel 1973 cambia radicalmente anche il rapporto tra PCI e sinistra extraparlamentare. Fino ai famosi articoli di Enrico Berlinguer su “Rinascita” che, in settembre, lanciano la proposta del compromesso storico, la divaricazione, almeno ufficialmente, riguardava solo i mezzi: l’uso della violenza, la radicalità dei conflitti, gli obiettivi delle vertenze sindacali. La conflittualità era alta e crescente ma non degenerava ancora nello scontro frontale, in una sorta di vera e propria “guerra civile” a sinistra, come succederà invece a partire proprio dalla sterzata del compromesso storico e poi sempre di più con la nascita, nel 1976, dei governi di unità nazionale. Quanto la svolta del PCI abbia pesato nella radicalizzazione di aree non marginali del movimento è un altro elemento che andrebbe indagato e verificato. Come succederebbe se ci si decidesse a consegnare alla storia fatti di quattro o cinque decenni fa invece di continuare a fingere che siano un eterno presente.