Policlic 13
Una sottile linea rossa unisce le varie espressioni pratiche del concetto di terrorismo. Il compito degli storici è quello di rintracciarla, definirla, e Francesco Benigno, docente di Storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, lo ha fatto egregiamente nella sua opera Terrore e terrorismo. Ce ne parla, nell’intervista che segue, attraverso un excursus storico che dalla Rivoluzione francese giunge sino ai giorni nostri.
Professor Benigno, nel presente numero di Policlic si parla di estremismo, un concetto che richiama, quasi in modo immediato, quello di terrorismo. Ebbene, quale legame esiste, storicamente, tra l’adesione estrema a una causa (che sia politica, religiosa, sociale, culturale) e la prassi terroristica? Quali sono le peculiarità che accomunano i vari fenomeni terroristici che hanno trovato realizzazione dalla nascita dello “Stato moderno”?
Il terrorismo non è un fatto obiettivo, una cosa, ma l’azione da condannare di un soggetto discreditato, che si vuole colpire, e che chiamiamo terrorista. Con questo termine, terrorista, indichiamo perciò il nemico per eccellenza, una incarnazione del male sociale. L’idea generalmente invalsa è che i fenomeni terroristici siano accomunati dal fatto che colpiscono gli innocenti, ma essa è semplicemente falsa. Lo Stato moderno ha praticato comunemente un modo di fare la guerra che “colpisce gli innocenti”, ma non vi è stata mai una Norimberga per le pratiche dei bombardamenti a tappeto, per Dresda o Hiroshima. Il detto americano “Colui che per qualcuno è un terrorista per qualcun altro è un combattente per la libertà” è vero: Menachem Begin, Yasser Arafat e Nelson Mandela sono stati prima indicati da governi in carica come terroristi e poi insigniti del premio Nobel per la pace.
Ciò detto, si può rintracciare una tradizione intellettuale, che possiamo chiamare “terrorismo rivoluzionario”, la quale deriva dall’idea della rigenerazione sociale/nazionale attraverso la violenza, che dalla Rivoluzione francese in poi ha informato la politica europea e poi mondiale. Assieme ad essa esiste però un’altra tradizione “terroristica”, quella dell’uso della violenza per scopi politici di vario tipo, ivi incluse le mire degli Stati e la volontà di combattere il terrorismo rivoluzionario. Anche per le pratiche di questa seconda tradizione usiamo il termine terrorismo, che è perciò un termine ambiguo, una sorta di Giano a due facce.
Nella sua opera Terrore e terrorismo. Saggio storico sulla violenza politica, lei “apre le danze” soffermandosi sul periodo del Terrore giacobino in Francia, in cui protagonista fu Maximilien de Robespierre. Possiamo dire che quella sia stata la prima rappresentazione dell’utilizzo del terrore di massa in campo politico?
Il termine terrorisme e terroriste nascono durante la Rivoluzione francese; dopo Termidoro, vennero usati per indicare e condannare la classe dirigente del periodo 1793-94, quello detto del Terrore. Il terroriste per eccellenza era così Robespierre, leader di quella fase, e che può essere perciò legittimamente considerato il primo “terrorista” della storia. I suoi nostalgici, come Babeuf, avrebbero poi rivalutato quel termine assegnato per condanna.
Gli anarchici come Gaetano Bresci (autore del regicidio di Umberto I di Savoia il 29 luglio 1900) praticavano la “propaganda col fatto”. Può spiegare meglio questo concetto, magari con altri esempi di celebri attentati del periodo?
La “propaganda col fatto” è la conseguente elaborazione teorica della rigenerazione sociale/nazionale attraverso la violenza sviluppata nell’ambito del movimento anarchico. Le masse sono considerate un soggetto passivo: esse dormono, intorpidite dal potere, e per fare la rivoluzione occorre svegliarle. Un singolo atto violento può produrre tale risveglio meglio di cento libri. Insegnando, attraverso una dimostrazione lampante, che non si è sconfitti per sempre, che il debole può vincere sul forte, che c’è speranza, che il nemico oppressore può essere colpito e abbattuto.
Che tipo di rapporto intercorre tra la manipolazione della folla e il terrorismo?
Come ho mostrato ampiamente nel mio lavoro, la manipolazione della folla è un fenomeno ben precedente il Primo dopoguerra. Se proprio non si vuole ricorrere alle pratiche di infiltrazione poliziesca iniziate durante la Restaurazione e se proprio non si vuole citare la famosa frase del citoyen Caussidière, prefetto di polizia a Parigi nel 1848 (“Occorre fare ordine attraverso il disordine”), va detto che tutta la lotta al movimento anarchico è stata condotta con pratiche di manipolazione diffuse tra i regimi dispotici, ma anche tra le monarchie costituzionali e nella III Repubblica francese. Esse furono naturalmente sviluppate in modo impressionante, nella seconda metà del XIX secolo, dall’Ochrana, la polizia segreta zarista che spinse la manipolazione sociale a livelli mai raggiunti prima, i quali vanno dalla elaborazione di falsi clamorosi, come I Protocolli dei Savi di Sion, all’infiltrazione sistematica dei gruppi eversivi (è noto il caso di un loro agente, il famoso Evno Azef, che divenne il capo della cellula di combattimento del Partito Socialista Rivoluzionario). Di queste pratiche fa parte anche l’intimorire l’opinione pubblica, favorendo, evitando di frenare o anche attivando atti terroristici, che creino un bisogno di sicurezza e un riflesso d’ordine.
A questo punto è obbligato il riferimento agli “anni di piombo”. Come si compie, in particolare nell’esperienza del gruppo terroristico più noto di quegli anni, le Brigate Rosse, il passaggio da una concezione radicale ed estremistica della politica a una conclamata “propaganda armata”? Cos’è che porta alcune componenti del movimento del Sessantotto in quella tragica direzione?
La svolta violenta delle formazioni rivoluzionarie italiane, tra cui le Brigate Rosse, non può essere letta nel quadro della storia nazionale ma si inscrive in un contesto più ampio, segnato non solo dalle pratiche insurrezionaliste europee di stampo nazionalista (dall’IRA all’ETA), ma soprattutto dalla assunzione del comunismo marxista come linguaggio della decolonizzazione attraverso la teoria della guerra rivoluzionaria. La diffusione, dopo la battaglia di Algeri, di pratiche di terrorismo di Stato ha poi aggravato la situazione, e la svolta a favore della lotta armata in Italia ha seguito quella di altre formazioni radicali della sinistra sudamericana, come i Montoneros, i Tupamaros, M-19, i sandinisti, Sendero luminoso, ecc. L’unica differenza è che le BR (come la RAF) operavano in un regime democratico, affrontandolo però con le stesse tecniche con cui i gruppi armati sudamericani combattevano le dittature.
I flagellanti nel Medioevo espiavano le proprie colpe attraverso il sacrificio della carne. In epoca contemporanea, il terrorismo islamico innalza il sacrificio supremo della vita a mezzo per la beatificazione. Come spiega il processo mediante il quale la religione porta a comportamenti estremistici e financo terroristici?
Ogni religione monoteistica comporta una visione esclusiva del mondo e da ciò derivano generalmente tentativi di condizionare l’insieme della vita sociale, talora in senso teocratico e volti in qualche caso a dominare la vita di popolazioni di altra religione; ma non ne discende affatto necessariamente una vocazione all’uso della violenza. Per quanto riguarda l’universo musulmano, il tema del martirio non si ritrova affatto nell’elaborazione della dottrina sunnita, mentre ha fondamento in quella sciita. È evidente che, poiché le pratiche che definiamo terroristiche sono presenti in ambo gli universi, esse non discendono da dettati religiosi, ma dalla capacità della religione di dare corpo a una visione del mondo che ingloba e spiega problemi esistenti. Finché il comunismo ha saputo esprimere la spinta decolonizzatrice, esso è stato un punto di riferimento anche per popolazioni che non corrispondevano affatto agli schemi evoluzionistici marxiani; in seguito, invece, l’islamismo ne ha ereditato la dimensione rigeneratrice e salvifica, e si è proposto come una nuova visione della liberazione sociale. Il primo attentato suicida in Medio Oriente è stato compiuto il 30 maggio del 1972 all’aeroporto di Lod (oggi Tel Aviv-Ben Gurion) non da terroristi islamisti ma da comunisti della Armata Rossa Giapponese per solidarietà con il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Una parte importante della classe dirigente palestinese che ha combattuto a lungo Israele non era affatto islamista: lo è diventata per una evoluzione successiva e anche perché la situazione sul campo è rimasta più o meno com’era. Come se ciò non bastasse, questa trasformazione dell’islamismo come linguaggio politico è stata incoraggiata dagli Stati Uniti, che hanno finanziato e incoraggiato, negli anni Ottanta del XX secolo (operazione Cyclone), l’islamismo in senso antisovietico. Reagan, ricevendo nello studio ovale della Casa Bianca i Mujaheddin del popolo afghani, non li chiamava però terroristi bensì “combattenti per la libertà”. I loro nipotini, i talebani, sono invece definiti tali.
Concludiamo focalizzandoci sul presente. Qualche deriva estremistica ha avuto modo di mostrarsi in tutta la sua veemenza negli ultimi anni, attraverso episodi forse isolati ma che hanno avuto una grande eco mediatica. A suo avviso, in Italia c’è il pericolo di una radicalizzazione violenta delle forme dell’agire politico?
Una radicalizzazione violenta delle forme dell’agire politico può avvenire a seguito di eventi attualmente imprevedibili, come una profonda depressione economica e un mutamento sensibile in senso peggiorativo delle condizioni della vita economica e sociale. Non è inscritta in un registro ideologico preconfezionato, ma certo le spinte populistiche esistenti potrebbero far degenerare la situazione in presenza di eventi traumatici e insopportabili per la gente.