Cinema, lavoro e società: un trittico inscindibile
Quando nel 1895, al Salon Indien du Grand Cafè di Parigi, i fratelli Lumière accesero il proiettore dando vita al cinema moderno, la prima ripresa a cui gli spettatori assistettero ritraeva donne e uomini al termine di una giornata lavorativa presso la fabbrica Lumière di Montplaisir. Si tratta di L’uscita dalle officine Lumière[1], ed è stato il film che ha segnato l’inizio della storia del cinema. La genesi del film non fu dettata da desideri artistici: i Lumière possedevano una grande fabbrica di materiali fotografici ed erano stati commissionati di creare una versione più economica delle pellicole americane di Thomas Edison.[2] I fratelli inventarono il piccolo e maneggevole cinematografo, con cui decisero di filmare i loro stessi operai. Il cinema moderno nacque, quindi, per un’esigenza commerciale[3], con una ripresa di un ambiente lavorativo.[4]
Il cinema ha intessuto rapporti con il mondo del lavoro fin dai suoi primi respiri, e non c’è da stupirsi se questo ha continuato ad influenzare continuamente il modo di fare cinema di innumerevoli registi, sceneggiatori e produttori. Ma, come è sempre per ogni forma d’arte che punta a comunicare qualcosa, ci deve essere non solo un mittente ed un messaggio, ma anche un interlocutore. È necessario capire quali fossero i lavoratori agli albori del secolo XX, le stesse persone che spendevano fra i 5 e i 25 centesimi per assistere agli spettacoli. I decenni a cavallo fra ‘800 e ‘900 furono infatti caratterizzati dai grandi cambiamenti dell’industria, che finalmente conobbe bene la meccanizzazione e che puntava a soddisfare una richiesta che non era più locale, bensì di massa[5] – questo specialmente dopo la Grande guerra. La priorità dell’industria divenne la produttività, portando ad una organizzazione del lavoro secondo i concetti di meccanizzazione e razionalizzazione[6] già enunciati da Frederick Taylor nel suo Princìpi di organizzazione scientifica del lavoro[7] del 1911. “Le tecniche del taylorismo assicurarono notevoli progressi in termini di produttività e permisero alle imprese che le adottarono di innalzare il livello delle retribuzioni.”[8] La prima concretizzazione del taylorismo fu rappresentata dalla catena di montaggio delle industrie Ford (da qui il termine parallelo fordismo), un sistema lavorativo che “frammentava il processo produttivo in una serie di piccole operazioni, ciascuna affidata a un singolo operaio”[9], rendendo il lavoro “ripetitivo e spersonalizzato”[10]. “Questo qui è un mestiere che può fare anche la scimmia”, disse il Lulù di Gian Maria Volontè in La classe operaia va in Paradiso.[11]
La catena di montaggio cambiò la stratificazione sociale, creando una distinzione fra manodopera generica e lavoratori qualificati[12], e fra questi colletti blu e gli impiegati del crescente settore dei servizi, i colletti bianchi.[13] Quest’ultimi, sebbene lontani dall’alta borghesia in termini di salario, si contrapponevano ideologicamente al proletariato e al loro spirito di classe, elevando invece rispettabilità e individualismo.[14] Così il colletto blu divenne una parte irriconoscibile di un insieme, un lavoratore senza competenze ed un cittadino senza identità, ingranaggio parte di un marchingegno più grande di lui e che sognava solo un angolo di felicità. Il primo a intercettare questo sentimento fu Charlie Chaplin, uno dei nomi principali di Hollywood nella prima metà del ‘900 e uno dei più grandi artisti della storia del cinema in generale.
L’arrivo dei “Tempi moderni”[15]
Chaplin approdò al cinema nel 1914 grazie alla Keystone di Mack Sennett, un produttore-attore-regista americano-canadese che lanciò le carriere di numerosissimi talenti del cinema muto e post-muto. Chaplin rimase con la Keystone per un anno e partecipò a trentacinque prodotti fra corti e lungometraggi, dando vita al suo personaggio più memorabile, Charlot[16]; il vagabondo rappresentava l’uomo comune che, nonostante la bontà d’animo e la buona volontà, rimaneva vittima di eventi più grandi di lui. Nel 1927 Hollywood visse una rivoluzione tecnica che fu inarrestabile e che danneggiò gli interessi del povero Charlot, ovvero la rivoluzione sonora. È nel ‘27 che arrivò Il cantante di jazz[17] di Alan Crosland, primo film sonoro di Hollywood e maggiore incasso dell’anno. Chaplin pensava che non esistesse una voce adatta a Charlot ed implementò il sonoro solo negli effetti, rimanendo legato alle didascalie; in un certo senso, anche il sonoro cinematografico è stato un sintomo dei “tempi moderni”. La scommessa di Chaplin si rivelò vincente ed egli uscì nel 1928 con Il circo[18], nel 1931 con il meraviglioso Luci della città[19] e poi nel 1936 con l’ultima apparizione di Charlot, Tempi moderni.[20] Il film fu ispirato dalle ripercussioni della Grande Depressione e da una conversazione avuta con Mahatma Gandhi, “il quale biasimò la tendenza all’industrializzazione sconsiderata con in mente solo il profitto”.[21] Tempi moderni vedeva Charlot alla ricerca costante di un lavoro che potesse garantirgli una forma di stabilità e, quindi, di felicità. Questa ricerca si intrecciava con la storia della Monella, interpretata da Paulette Goddard, un’orfana che sfugge alla custodia del governo e che vive alla giornata fra piccoli furti di banane o pane. Nel loro girovagare, i due esplorarono a fondo i tempi moderni del titolo, i quali sono i veri protagonisti onnipresenti della pellicola.
Il film si apre con un orologio meccanico sul quale vengono presentati i titoli di testa e la didascalia iniziale: “Tempi moderni”. Una storia di industria, di impresa personale – la crociata umana alla ricerca della felicità”. I “tempi” sono ormai dettati dalla meccanica, l’orologio, e la “ricerca della felicità” deve declinarsi obbligatoriamente attraverso l’industria e l’impresa. A seguire si vede una contrapposizione di immagini pregevole: Chaplin passa da un gregge di pecore ad un gruppo di operai che esce dalla metropolitana, creando non solo un parallelismo di significati fra pecore e lavoratori, ma anche una linea cronologica.
Chaplin ci dice che il mondo si è evoluto ed ha cambiato focus dall’agricoltura e pastorizia al settore dell’industria. È proprio in una fabbrica che incontriamo Charlot, dove ha un impiego con il compito di avvitare bulloni che scorrono davanti a lui su di un nastro trasportatore. Le scene della fabbrica sono di certo le più famose di Tempi moderni; ciò è dovuto al loro significato, alle situazioni comiche create dal goffo vagabondo e al semplice gesto di avvitatura ripetuto centinaia di volte. È un esempio perfetto di catena di montaggio, in cui il lavoro complessivo è scomposto in decine di gesti affidati ad operai che non sanno neanche cosa costruiscono. Difatti, Tempi moderni non ci mostra nient’altro che i bulloni di Charlot. Il fantasma della produttività è onnipresente: Charlot è continuamente disturbato dai cronometristi che lo incitano a lavorare più rapidamente, dal “mega-direttore” (per citare un altro ritratto sociale di un certo spessore) che gli interrompe la pausa bagno da uno schermo, dagli ingegneri che lo usano come test per una macchina che consentirebbe agli operai di lavorare durante la pausa pranzo ed aumentare il profitto della fabbrica. L’alienazione di Charlot è così forte che egli non riesce più a smettere di avvitare qualsiasi cosa veda, che siano bottoni, nasi o teste. All’apice del suo esaurimento nervoso, Charlot si tuffa giù nel nastro che trasporta i bulloni e diventa così uno degli ingranaggi di un marchingegno più grande, importante per il suo funzionamento ma senza valore personale, irriconoscibile dall’insieme e sostituibile con un altro ingranaggio in qualsiasi momento. Questi sono solo i primi 19 minuti del film.
Charlot esplora tutti i campi della modernità: egli lavora in un cantiere navale, in un negozio di vestiti e torna infine in fabbrica, provocando danni irreparabili in ogni luogo visitato. Il vagabondo incontra un corteo di comunisti e viene arrestato in quanto scambiato per loro leader, anticipando così il maccartismo[22] che avrebbe colpito anche Chaplin stesso. Nonostante le sue numerose smentite nel corso degli anni, l’attore e regista fu accusato di filo-comunismo e attività antiamericane, ed il suo visto di rientro fu fatto cancellare dall’FBI nel 1952, mentre il nostro si trovava in vacanza in Europa.[23] Chaplin abitò in Svizzera e tornò negli Stati Uniti solo venti anni dopo, nel 1972, anno in cui fu insignito del secondo Oscar onorario alla carriera.
Contemporaneamente, la storia della Monella, con cui Charlot stringe un rapporto affettuoso, esplora la povertà e la disoccupazione dilagante. La vediamo per la prima volta intenta a rubare delle banane su un molo per le affamate sorelline – ed altri ragazzini della zona – in quanto loro padre è disoccupato. Questo morirà poco dopo a causa di un proiettile vagante sparato durante una protesta, lasciando le figlie da sole. Mentre le due piccole vengono portate via dai funzionari governativi, la Monella fugge e continua a vivere tramite piccoli furti. Chaplin esprime vicinanza e comprensione verso quel substrato sociale, costretto a rubare per vivere, non solo attraverso la Monella, ma anche nell’episodio del negozio di vestiti, quando un gruppo di tre ladri sorpresi da Charlot dicono: “Non siamo ladri – siamo affamati”. Tra di loro, il collega di Charlot ai tempi della fabbrica.
Tempi moderni è un film ottimista, ma che, per questo, non si tira indietro nel denunciare un quadro sociale allarmante che fa della disumanizzazione la sua arma principale. Neanche l’ultima sistemazione in un ristorante funzionerà per la coppia, che, nonostante il successo dell’esibizione canora di Charlot nel pezzo Ja cherche après Titine (unico episodio di interpretazione sonora del personaggio) in un grammelot[24] esilarante, sarà costretta a scappare dai funzionari dell’assistenza orfani che vogliono rinchiudere la Monella in un istituto. La scena finale è emozionante e commovente, con un raggiante Charlot che dice alla Monella di sorridere e non arrendersi mai, mettendosi in cammino insieme a lei verso il futuro. Con questa nota di speranza di fronte alle più grandi avversità, Charlie Chaplin cala il sipario su Tempi moderni – e su Charlot -, un capolavoro assoluto e non soltanto, come si è cercato di analizzare, dal punto di vista dei significati e dei messaggi, ma con delle interpretazioni favolose, una regia e un montaggio meravigliosi e scene comiche che funzionano perfettamente, anche a distanza di quasi un secolo.
“Viaggio a Tokyo”: una città con luci e ombre[25]
Dopo Tempi moderni, Charlie Chaplin sentiva che i tempi erano cambiati ed egli non poté più rimandare l’incontro con il dialogo sonoro. “Il primo film parlato di Chaplin, Il grande dittatore[26], era un’imprevedibile commedia sulla Germania nazista”[27], in cui egli interpretava il doppio ruolo di un barbiere ebreo e di Adenoid Hynkel, dittatore della Tomania.[28] Nel suo attacco totale al nazismo, Chaplin anticipò il dramma della Seconda Guerra Mondiale, evento spartiacque nella storia dell’umanità sotto tanti punti di vista. Il conflitto ebbe tante conseguenze, ed una di queste fu la formazione di due blocchi politici, ideologici e militari contrapposti, incarnati da Stati Uniti e Unione Sovietica. Gli USA trovarono il loro baluardo di liberal-democrazia nell’Oriente con il Giappone, in cui si affermò un modello di organizzazione politica e sociale di tipo occidentale.[29] Il Giappone subì una trasformazione politica ed economica totale,[30] concentrando la propria crescita su ideali di sviluppo pacifisti, puntando sui settori in crescita come la siderurgia, la cantieristica, l’automobile e l’elettronica[31], e diventando, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, uno dei Paesi con la più forte crescita economica[32] ed un esponente del modello capitalista della società dei consumi.[33] Il crescente benessere, causato da una combinazione di medicina, igiene e opportunità di lavoro e istruzione, provocò una crescita demografica impressionante, con conseguenti flussi migratori interni dalle zone rurali alle grandi città; questi movimenti furono così intensi in quel periodo che, durante gli anni ’80, il governo giapponese sostenne lo sviluppo delle zone rurali per renderle più attraenti per i giovani.[34] Il piano funzionò, allontanando mezzo milione di abitanti da Tokyo fino al 1988.[35]
Una delle famiglie che visse questo fenomeno fu quella di Yasujirō Ozu, nato nel 1903 in un sobborgo di Tokyo ma che si spostò poi a Matsusaka, nella prefettura di Mie, dove lavorava come insegnante in un paesino fra i monti. Eterno amante delle pellicole, “egli fu profondamente influenzato dal cinema di Hollywood, in particolare dalle commedie sociali di Chaplin”.[36] Ozu tornò nella capitale a vent’anni e cominciò a lavorare nel cinema come operatore, passando poi alla regia quattro anni più tardi, nel 1927. Si può trovare dell’ironia nella data, in quanto coincide con la distribuzione del già citato primo film sonoro di Hollywood, mentre Ozu fu uno degli ultimi registi giapponesi ad effettuare la conversione al suono[37] (così come Chaplin). Dopo gli esordi, Yasujirō iniziò a manifestare la sua inclinazione agli shomin-geki, ovvero “dramma della gente comune”, nei quali inseriva storie realiste velate di un commentario sociale mai oppressivo ma mai assente. Dopo l’esperienza della seconda guerra sino-giapponese che lo vide coinvolto in Cina per due anni, Ozu tornò in Giappone e si dedicò a film familiari che esploravano i rapporti fra genitori e figli: questi rapporti incarnavano il contrasto fra tradizione e modernità, passato e futuro, cosa valeva la pena di ricordare e cosa, invece, andava abbandonato. Già fra i Quaranta e Cinquanta, Ozu aveva perfettamente compreso la società giapponese e come si sarebbe evoluta.[38]
Viaggio a Tokyo[39] non è un film sul lavoro. Il tema dell’opera di Ozu è la famiglia ed il suo disfacimento di fronte ad una modernizzazione inarrestabile. Ma Viaggio a Tokyo, nonostante la storia semplice, è un’opera totale, in quanto si apre a mille spunti diversi a seconda del punto di vista dello spettatore: questi può essere un neo-genitore, un figlio impegnato, un nonno trascurato e così via. Ogni volta il film ci permette di identificarci con il personaggio con cui in quel momento sentiamo maggiore vicinanza, in quanto sono tutti umani allo stesso modo e non c’è traccia di antagonisti.
La storia è quella di Shūkichi e Tomi, due signori sulla soglia di settant’anni che partono dal loro paesino di Onomichi per andare a trovare i figli a Tokyo. Sarà un viaggio amaro, accompagnato dalla triste presa di consapevolezza che i loro figli, ora adulti, hanno una vita propria e che loro non ne fanno parte.
L’immagine di apertura del film (a seguito dei titoli di testa) è la veduta di Onomichi, cittadina di modeste dimensioni situata nella prefettura di Hiroshima. La tranquillità – e l’inquadratura – del paesaggio è stroncata dall’arrivo di un treno, nero e rumoroso, simbolo del viaggio imminente; Ozu, infatti, taglia su Shūkichi e Tomi, intenti a preparare le loro cose per il viaggio. Il ritmo è splendidamente lento, perfetto per il contesto rurale e tradizionale che il regista vuole trasmettere, fra riprese di piccoli vicoli e vicini di casa che si affacciano alla finestra per scambiare due chiacchiere. Da queste immagini ci spostiamo poi a Tokyo, a casa di Shige, una dei figli della coppia, intenta a pulire e fare spazio per l’imminente arrivo dei genitori. Da quel momento in poi Shūkichi e Tomi saranno una presenza ingombrante per tutta la loro prole, sia per quanto riguarda gli impegni lavorativi (visite impreviste, incontri con colleghi, viaggi fuori città) sia per la semplice convivenza domestica. Il contrasto fra vecchi e giovani è reso ancora più crudo dai due nipotini che, furiosi che per fare spazio ai nonni sia stato spostato un tavolo, li evitano in continuazione e senza preoccuparsi di non sembrare maleducati. Questo esplode nella scena in cui Tomi porta il nipote più piccolo a fare una passeggiata e, presa dalla preoccupazione che lei potrebbe non esserci nel suo futuro, riceve in risposta solo un silenzio disinteressato.
Tokyo sta ad Onomichi come i figli stanno a Shūkichi e Tomi. La metropoli è un immenso trambusto, con i grossi palazzi moderni e le ciminiere delle fabbriche sempre inquadrate minacciosamente dal basso. Il già citato treno è l’incarnazione di questa modernità ed è estremamente ricorrente, specialmente nella prima parte, come elemento nello sfondo delle inquadrature. Che si tratti di una stradina secondaria di Tokyo o del prato accanto a casa di Shige, lo sfondo è marchiato dalla presenza della locomotiva. Al contrario, quando si parla di Onomichi e di come la cittadina sia sicuramente cambiata in tutti quegli anni di assenza, Shūkichi risponde che non è cambiata affatto.
Il personaggio chiave della famiglia Hirayama è la nuora Noriko, sposata con il secondogenito Shōji, morto in guerra otto anni prima. Noriko è l’unica fra i figli, nonostante non abbia legami di sangue, che fa di tutto per i vecchietti. Rimane a lavorare fino a tardi per avere la giornata libera per loro, e li ospita a casa sua nonostante questa sia solo una piccola stanza con il corridoio in comune con altri abitanti. Noriko rappresenta il ponte fra tradizione e modernità: vive e lavora a Tokyo ma ha a cuore le persone e le tradizioni, è giovane e vedova ma vuole rimanere legata ai due suoceri e al ricordo di suo marito piuttosto che risposarsi. È Noriko che li accompagna a visitare la città, e con lei si consumano le conversazioni più significative di Viaggio a Tokyo.
Anzi, sembra quasi che fra genitori e figli non riesca a stabilirsi un vero dialogo, un dialogo sincero e aperto, cosa che invece accade con la nuora. Noriko dimostra di comprendere che la crescita porta cambiamento e indipendenza, cose che lei presenta appunto come conseguenze inevitabili al fine di giustificare i tanto impegnati cognati, quelli che mandano i genitori da soli alle terme di Anami per “farli rilassare” (esperimento fallito in quanto, come dice Tomi, “questo posto è fatto per persone più giovani”), o che li presentano agli altri come “degli amici da fuori città”. E la cosa più triste è che, nonostante Shūkichi e Tomi abbiano già perso un figlio, quella perdita non è il loro dolore più grande (come dice un vecchio amico di Shūkichi, “Perdere i propri figli è triste. Ma è anche triste quando quelli che ci sono ti trascurano”).
La risoluzione finale è una coronazione della disgregazione. Durante il viaggio di ritorno Tomi sta male e muore pochi giorni dopo essere tornata a casa. I figli la vanno a trovare e la compiangono, ma subito dopo la sua dipartita tornano a Tokyo per il lavoro – non prima di aver chiesto come ricordo alcuni vestiti dell’ormai defunta. Soltanto Noriko si fermerà qualche giorno in più per fare compagnia a Shūkichi, ricevendo la sua benedizione per rifarsi una vita fin quando è ancora giovane. Il film si chiude ancora con quel treno nero e rumoroso che lascia Onomichi e con le parole malinconiche di Shūkichi: “Ora che sono solo, le giornate sembrano più lunghe…”
Viaggio a Tokyo è la storia di una famiglia come altre mille del Giappone di quegli anni, infrante a causa di un cambiamento repentino, dell’abbandono delle tradizioni (il passato) per abbracciare una modernità capitalista e dal ritmo imperdonabile (il futuro).
Le interpretazioni sono perfette, in particolare quella di Chishū Ryū, che da quarantanovenne veste i panni del settantenne Shūkichi e mostra a tutto corpo il suo talento. Tokyo, simbolo di tutto il Giappone occidentalizzato, diventa una grande macchina produttrice, una città apparentemente perfetta ma fatta in realtà tanto di luci quanto di ombre. Tomi muore per il carico di stanchezza del viaggio, ma metaforicamente è proprio l’abbandono sofferto a ucciderla.
La classe operaia, il Paradiso e il muro[40]
La lotta fra USA e URSS, fra capitalismo e comunismo, si dispiegò su tutto il globo. A causa di essa si andarono a creare dei contesti geo-politici durati decenni, come il binomio Germania Ovest-Germania Est (e annesso muro di Berlino) o quello Corea del Sud-Corea del Nord, che perdura fino ad oggi. In Europa, come nel resto del mondo, i due blocchi cercarono di far valere il proprio dominio, dando vita ad un puzzle politico fatto di tanti Paesi con colori diversi. In Italia si affermò, fin dall’immediato Dopoguerra, la guida della Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi a scapito dei filo-sovietici[41], che, comunque, avevano contribuito a liberare la penisola da fascisti e nazisti. I militanti della sinistra, insieme a studenti, operai, sindacati e socialisti, diedero vita ad un clima socio-politico teso[42], conflittuale, in cui la forza veniva trovata nell’appartenenza a uno di questi gruppi e non tramite l’individualismo.
Tra le righe di questi scontri sociali si mosse Elio Petri, regista romano che vedeva nel rapporto col potere il dramma più grande dell’uomo comune. Questa sua ricerca, oltre che marchiare tutta la sua filmografia, si concentrò nella trilogia di film scritta insieme allo sceneggiatore Ugo Pirro e composta da Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto[43], La classe operaia va in Paradiso[44] e La proprietà non è più un furto.[45] Nelle storie presentate da Petri c’era una forte connotazione capitalista, dalla fabbrica in cui lavorava Lulù alla necessità di “essere e avere” di Total. Questi individui avevano rapporti con vari organi sociali – polizia, dirigenti, sindacati – ma erano giudicati non adatti da ognuno di loro, rimanendo schiacciati tra macchinazioni di potere ben più grandi di loro.
La classe operaia va in Paradiso è la storia di uno di questi individui, Ludovico Massa detto Lulù (interpretato dal mastodontico Gian Maria Volonté), che a 31 anni è già uno degli operai più esperti della sua fabbrica ed ha alle spalle un’ulcera e due intossicazioni da vernice.
La sua giornata – e il film – inizia con un suo ragionamento sul corpo-macchina dell’uomo, un insieme di marchingegni che produce solo merda. È solo il primo dei parallelismi fra corpo umano e corpo meccanico, questi che finiranno quasi per fondersi in una chimera irriconoscibile nel corso del film.
Accanto a Lulù c’è la sua compagna Lidia. Per mostrare l’assenza di legame fra i due, Petri ci mostra Lidia eccitata sessualmente ma che, nonostante l’eccitazione, ignora completamente Lulù. Come avremo modo di vedere, Lulù è così fortemente alienato da non riuscire ad avere rapporti con lei (sessuali e non), causando il deterioramento della loro relazione. L’ingresso alla fabbrica sembra l’entrata in un campo di concentramento: centinaia di operai in fila, testa bassa e mani in tasca, che entrano negli alti cancelli della B.A.N. tra le urla dei gruppi studenteschi che li aizzano alla ribellione. Dentro, sono accolti sempre dallo stesso monito, come un Credo:
Lavoratori, buongiorno. La direzione aziendale vi augura buon lavoro. Nel vostro interesse, trattate la macchina che vi è stata affidata con amore. Badate alla sua manutenzione. Le misure di sicurezza suggerite dall’azienda garantiscono la vostra incolumità. La vostra salute dipende dal vostro rapporto con la macchina. Rispettate le sue esigenze e non dimenticate che «macchina + attenzione = produzione». Buon lavoro.
Un operaio, di tutta risposta, sputa sulla sua macchina.
Lulù è un campione del cottimo. La sua tecnica, che consiste nell’alienarsi completamente e concentrarsi su un “ritmo”, gli consente di produrre molto di più dei suoi colleghi, tanto da essere usato dai cronometristi come punto di riferimento per i tempi di produzione da raggiungere (e attirandosi non poco risentimento dagli altri operai). Nel seguire il suo ritmo, Lulù si concentra sul fondoschiena di una inserviente della fabbrica, Adalgisa, e se lo immagina mentre si muove a ritmo di camminata: “Un culo, un pezzo. Un culo, un pezzo. Un culo, un pezzo”. Così facendo, il nostro finisce per mescolare ancor di più corpo e macchina, sesso e lavoro, cosicché quando Lidia cercherà di provocarlo lui risponderà: “Cosa credi che ho una macchina in mezzo alla gambe?”, e potrà effettivamente consumare solo con l’Adalgisa stessa dopo essersi nascosti proprio dentro una fabbrica abbandonata. Ci riesce perché è come se stesse ancora lavorando. La disumanizzazione degli operai è resa da Petri attraverso una regia e un montaggio fatti di dettagli, dove non vediamo mai Lulù per intero, ma spezzettato in tante piccole inquadrature che riprendono i suoi gesti ripetitivi, le manopole, le ruote e i pulsanti della macchina, fino alla drammatica scena del taglio del dito, in cui il corpo umano compenetra il meccanismo in una versione estrema e drammatica degli ingranaggi di Chaplin.
La classe operaia prende da entrambi i film analizzati in precedenza. È chiaramente una evoluzione di Tempi moderni, così come le proteste operaie furono un’evoluzione del taylorismo-fordismo, ma entrano in gioco anche le ripercussioni del lavoro sulla vita personale viste in Viaggio a Tokyo. Infatti, il cottimo governa tutto, anche le parentele. Lulù ha un’ex moglie e un figlio da quest’ultima che deve mantenere, ma a seguito dell’infortunio al dito non è più in grado di sostenere l’onere e viene ignorato sia dalla prima e che dal secondo, che invece chiama papà il nuovo compagno della donna. “Per farsi chiamare padre bisogna pagare”, lo ammonisce l’ex suocera, e senza soldi Lulù non è più un padre: in questo senso il parallelismo fallico della perdita del dito e la perdita della virilità è fin troppo ovvio.
Senza lavoro, senza famiglia e senza ideali, il protagonista cerca l’aiuto degli ex colleghi, dei sindacati e degli studenti, ma viene messo da parte, in quanto tutti sono troppo impegnati nelle loro lotte di classe per preoccuparsi di un singolo individuo. A Lulù non rimane che prendersela col grande pupazzo gonfiabile di Paperon de’ Paperoni in una scena memorabile. L’unica persona a dialogare e comprendere i sentimenti di Lulù è Militina[46] (un grandissimo Salvo Randone), un ex operaio ora impazzito e chiuso in un manicomio, a cui Petri, però, mette in bocca i dialoghi più lucidi dell’opera. Il film si chiude con la riassunzione insperata di Lulù grazie al sindacato (evento che Petri non voleva inserire inizialmente), ed il suo racconto agli altri colleghi di un sogno in cui, dopo esser morto, l’operaio si ritrova di fronte a un muro insieme al Militina. I due buttano giù il muro per dirigersi in Paradiso ma, una volta aperta la strada, vedono solo nebbia, dalla quale, uno alla volta, escono fuori i colleghi. Solo che stavolta gli operai sono impiegati ad un nastro trasportatore rumorosissimo e il frastuono della catena di montaggio copre il racconto di Lulù, che viene storpiato dagli ascoltatori, finché il protagonista, seccato, chiude il discorso con un: “Come non detto!”.
L’opera di Petri è complicata, fatta di politica, società, famiglia. È un film che non prende parte politica ma si concentra sulla classe operaia e sulla figura dell’operaio alienato e senza voce, al quale il film cerca di darne una.[47] L’operaio era la vittima invisibile e inconsapevole delle grosse macchinazioni politiche, tenuta fuori dal Paradiso a causa del muro sognato da Lulù. Quando questi finalmente lo butta giù, è impossibilitato a scoprire cosa vi si cela oltre a causa della nebbia; inoltre il suo messaggio, disturbato dalla catena di montaggio, non arriva agli altri operai, così “il Paradiso operaio rimane sospeso, come non detto”.[48]
Conclusioni
Il legame fra cinema e lavoro è semplicemente indistruttibile. Basti pensare che la settima arte è una forma espressiva che più di qualsiasi altra si basa sulla vendita, sul profitto e sulla pianificazione precisa e scrupolosa del lavoro. Infatti, creare un film prevede una tale mole di persone, attrezzature, tempo e denaro che diventa impossibile pensare ad un cinema slegato dall’idea dell’economia e guidato solo dalla Musa. Per raccontare il mondo del lavoro dall’interno c’è bisogno, però, di garantire non solo la libertà, ma anche la possibilità di esprimersi all’artista-lavoratore. Il trio di film analizzati sono un esempio di organizzazione sociale-lavorativa che succhia via la linfa vitale dell’impiegato e lo rende alienato nei confronti del mondo attorno a sé, e quindi incapace, anche se volesse, di raccontarlo.
Federico del Ferraro per www.policlic.it
Riferimenti bibliografici
[1] La Sortie de l’usine Lumière à Lyon, A. Lumière e L. Lumière, Francia 1895.
[2] K. Thompson e D. Bordwell, Storia del cinema. Un’introduzione, McGraw-Hill Education, Milano 2014, p. 4.
[3] Ibidem.
[4] E. Di Nicola, La dissolvenza del lavoro. Crisi e disoccupazione attraverso il cinema, Ediesse, Roma 2019, pp. 236-238.
[5] G. Sabatucci e V. Vidotto, Storia contemporanea. L’Ottocento, Laterza, Bari 2012, p. 323.
[6] Ibidem.
[7] F. Taylor, L’organizzazione scientifica del lavoro, Harber & Brothers Publishers, New York and London, 1919.
[8] G. Sabatucci e V. Vidotto, op.cit.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] La classe operaia va in Paradiso, E. Petri, Italia 1971.
[12] Ivi, p. 324.
[13] Ibidem.
[14] Ivi, pp. 324-325.
[15] La descrizione delle scene è presa da Tempi moderni (Modern times), C. Chaplin, Stati Uniti 1936.
[16] K. J. Hayes, Charlie Chaplin. Interviews., University Press of Mississippi, 2005, p. IX.
[17] The Jazz Singer, A. Crosland, Stati Uniti 1927.
[18] The Circus, C. Chaplin, Stati Uniti 1928.
[19] City Lights, C. Chaplin, Stati Uniti 1931.
[20] Tempi moderni, op. cit.
[21] E. L. Flom, Chaplin in the Sound Era: An Analysis of the Seven Talkies, McFarland, Jefferson 1997.
[22] Il maccartismo fu un atteggiamento politico criminale-amministrativo che riguardò la storia degli Stati Uniti d’America nei primi anni cinquanta del XX secolo, caratterizzato da un’esasperata contrapposizione nei confronti di persone, gruppi e comportamenti ritenuti filo-comunisti e quindi sovversivi.
[23] K. J. Hayes, Opinioni di un vagabondo. Mezzo secolo di interviste, Minimum Fax, 2017, p. 189.
[24] Il grammelot è uno strumento recitativo che assembla suoni, onomatopee, parole e foni privi di significato in un discorso.
[25] Le descrizioni delle scene sono prese da Viaggio a Tokyo, Y. Ozu, Giappone 1953.
[26] The Great Dictator, C. Chaplin, Stati Uniti 1940.
[27] K. Thompson e D. Bordwell, op. cit., p. 128.
[28] Ibidem.
[29] G. Sabatucci e V. Vidotto, Storia contemporanea. Il Novecento, Laterza, Bari 2008, p. 225.
[30] Ivi, p. 226.
[31] Ibidem.
[32] Ivi, p. 280.
[33] Ivi, p. 289.
[34] R. E. Dolan e R. L. Worden, Japan: A country study, Library of Congress, Washington 1992, p. 87.
[35] Ibidem.
[36] K. Thompson e D. Bordwell, op. cit., p. 252.
[37] Ivi, p. 253.
[38] Ivi, p. 254.
[39] Y. Ozu, Tōkyō monogatari, Giappone 1953.
[40] Le descrizioni delle scene sono prese da La classe operaia va in Paradiso, E. Petri, Italia 1971.
[41] G. Sabatucci e V. Vidotto, Storia contemporanea. Il Novecento, cit., p. 264.
[42] Ivi, p. 341.
[43] Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto, E. Petri, Italia 1970.
[44] La classe operaia va in Paradiso, cit.
[45] La proprietà non è più un furto, E. Petri, Italia-Francia 1973.
[46] E. Spagnoletti, Una nota su “La classe operaia va in Paradiso”, in D. Mondello (a cura di), L’ultima trovata. Trent’anni di cinema senza Elio Petri, , Pendragon, Bologna 2012, p. 1.
[47] A. Vignazia, La classe operaia è andata in Paradiso? Letteratura e industria oggi, in I. Fried (a cura di), Cultura e costruzione, Ponte Alapitvàny, Budapest 2014, p. 118.
[48] D. Messina, La retroguardia del Paradiso: Pasolini e la lingua del futuro, University of Edinburgh, p. 41.