Il rafforzamento delle Destre e la prevedibile alterazione degli equilibri istituzionali ebbero un peso determinante nel convincere il nuovo segretario del PCI Enrico Berlinguer, succeduto nel Marzo del 1972 a Luigi Longo, ad accelerare il processo di distacco dall’ortodossia sovietica nell’ambito del cosiddetto eurocomunismo. La realizzazione di un polo comprendente tutti i partiti comunisti dell’area occidentale e alternativo alla socialdemocrazia sarebbe stata infatti compatibile con le istituzioni democratiche del vecchio Mondo, assicurando in tal modo l’aggiramento della conventio ad excludendum per mezzo di una legittimazione proveniente dalla stessa Democrazia Cristiana. Le radici di questo compromesso storico possono essere rinvenute in quella serie di articoli pubblicati nell’autunno del 1974 sulla rivista Rinascita a commento del colpo di Stato cileno del 1973, ordito da alcuni reparti delle forze armate posti sotto la guida del generale Augusto Pinochet e sostenuti dalla CIA: tale avvenimento aveva palesato l’impossibilità per i movimenti di sinistra di esercitare un ruolo autonomo nell’esecutivo anche dietro investitura popolare, conseguenza inevitabile in uno scenario internazionale dominato dalla paura del contagio rivoluzionario e dalla Guerra Fredda.
I mesi seguenti sarebbero stati dominati dalla crisi energetica dovuta al brusco aumento del prezzo del greggio (risultato dell’embargo imposto dai Paesi arabi durante la guerra dello Yom Kippur) e dal confronto serrato sull’abrogazione del tanto discusso istituto del divorzio. Quest’ultima venne portata avanti da un Fanfani convinto di poter ricompattare l’opinione pubblica nazionale sotto l’egida del cattolicesimo, errore di valutazione clamoroso come dimostrarono il 59,3% dei votanti che si espressero a favore del no e cruciale nell’offuscare l’immagine del Segretario con il suo partito.
La prova referendaria aveva infatti dimostrato per la prima volta come la D.C., travolta in quegli anni dai primi scandali di natura finanziaria, potesse essere messa in minoranza sullo scacchiere delle riforme strutturali al punto da far balenare il prospetto di un’alternanza ai vertici dell’esecutivo. Se nel 1974 quest’eventualità restava confinata nell’ambito della mera teoria, l’exploit di cui si resero protagonisti i partiti socialista e comunista durante le elezioni regionali dell’anno successivo sembrò conferire un alone di credibilità a tale progetto. Nondimeno sarebbe stato lo stesso Berlinguer ad opporvisi in nome di un compromesso ora più che mai attuabile grazie all’indebolimento della Democrazia Cristiana, in grave affanno dopo i recenti smacchi elettorali e le accuse di corruzione rivolte contro numerosi suoi esponenti: tra gli episodi più emblematici occorre ricordare il caso dei petroli del 1974, quando la magistratura scoprì un giro di tangenti versate dall’ENEL in cambio di una legislazione sfavorevole all’energia atomica, lo scandalo Lockheed del 1978, principale indiziato delle dimissioni del Presidente della Repubblica Giovanni Leone, nonché le polemiche scatenate dal finanziamento pubblico ai partiti. Inoltre l’intreccio fra il mondo della criminalità e quello della politica sarebbe venuto alla luce proprio in questi anni grazie alle inchieste condotte sul crack del Banco Ambrosiano, costate la vita al giudice pescarese Emilio Alessandrini il 29 Gennaio 1979, e sulle attività della Banda della Magliana di Enrico de Pedis.
La decisione dei socialisti di ritirare il loro appoggio al V governo Moro segnò la conclusione anticipata della VI legislatura e, di fatto, l’epilogo dell’esperienza del centrosinistra. Le elezioni politiche del 1976 si sarebbero pertanto svolte all’insegna del paventato sorpasso della D.C. ad opera del Partito Comunista, forte di un’immagine d’incorruttibilità che gli era valsa l’appoggio di quei giovani che si stavano affacciando per la prima volta al voto. La risposta delle forze moderate si concretizzò nel rispolvero della pratica del voto utile come suggerito a malincuore dal giornalista Indro Montanelli, espediente che permise alla Democrazia Cristiana di risalire al 38,7% ma non per questo esente da contraccolpi: l’indebolimento dei partiti laici e il disimpegno del PSI resero infatti impossibile la formazione di un governo stabile senza l’appoggio dei comunisti, mentre l’ipotesi di una nuova chiamata alla urne venne scartata di fronte alla delicatissima situazione interna minata dalla questione del debito pubblico, dallo stragismo e dal peso degli scandali sulla corruzione. Al suo posto si preferì invece la creazione di un esecutivo monocolore legittimato dall’astensione di tutte le altre forze politiche, destinato a passare alla storia come governo della non sfiducia. Questo esperimento di solidarietà nazionale avrebbe dovuto rappresentare per Berlinguer il primo passo in direzione di un progressivo reinserimento del PCI alla guida del Paese (da qui la riconferma di Andreotti alla Presidenza del Consiglio grazie all’appoggio esterno dei comunisti stessi), salvo poi infrangersi di fronte alla prevedibile opposizione di quei democristiani che avevano visto nell’intesa un mero strumento per risolvere il rebus della governabilità.
Il momento determinante per la conclusione dell’esperienza solidale fu il rapimento e l’uccisione ad opera delle Brigate Rosse dell’onorevole Aldo Moro, figura chiave nel rilancio del dialogo con il PCI: quest’associazione terroristica si posizionava alle frange di un rinnovato estremismo di sinistra che aveva visto nel compromesso storico il tradimento della causa del proletariato, costretto suo malgrado a sostenere il peso di una politica di austerità senza alcuna prospettiva di ripresa nell’immediato futuro. Nel giorno fissato per la presentazione alle Camere del nuovo esecutivo monocolore della D.C., il 16 Marzo 1978, l’auto che trasportava l’Onorevole fu assaltata in via Mario Fani da un commando di brigatisti che neutralizzò i cinque uomini della scorta (i carabinieri Oreste Leonardi e Domenico Ricci e i tre agenti della Polizia Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Raffaele Iozzino). La celerità con cui l’operazione venne portata a termine, unita alla successiva sparizione di documenti della massima importanza in possesso del politico italiano, hanno contribuito nel corso degli anni ad alimentare le ipotesi più disparate circa il coinvolgimento di alcune frange deviate dei servizi segreti (oltre che di esponenti della loggia massonica P2) nella preparazione dei terroristi. Certo è che, a distanza di quarant’anni da tali avvenimenti, non cessa di sorprendere l’accortezza mostrata dai cospiratori nella pianificazione dei più piccoli dettagli quali la scelta di travestirsi da piloti dell’Alitalia per non destare sospetti assicurando al tempo stesso il reciproco riconoscimento, l’utilizzo di una vettura dotata di targa diplomatica per seguire indisturbati il percorso della colonna, nonché la precisione nell’utilizzo delle armi semi-automatiche e nella triangolazione del tiro al momento del conflitto a fuoco. Il covo scelto per la detenzione del prigioniero fu quello di Via Gradoli 96 in zona Cassia, non molto distante dalla famosissima Tomba di Nerone, e rappresenta ancora oggi uno degli aspetti più controversi di una vicenda sulla quale sono stati versati fiumi d’inchiostro. Già nel corso del 18 Marzo gli inquirenti avevano infatti ricevuto una segnalazione da parte di una donna che affermava di aver sentito, in diverse ore del giorno e della notte, rumori sospetti provenire dall’appartamento. Al momento del sopralluogo la pattuglia inviata dalla Polizia di Stato, di fronte all’apparente assenza degli inquilini, prese tuttavia l’inspiegabile decisione di non procedere con la perquisizione. Solo in seguito si sarebbe scoperto come nella palazzina vi fossero ventiquattro alloggi di società immobiliari intestate al SISDE, il Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica.
Ancora più incredibili furono gli eventi verificatisi il successivo 2 Aprile, quando i tre professori dell’Università degli Studi di Bologna Romano Prodi, Mario Baldassarri e Alberto Clò riferirono alle autorità competenti di aver scoperto il nome del luogo di prigionia dell’onorevole democristiano, Gradoli: secondo i diretti interessati l’informazione sarebbe trapelata al termine di una seduta spiritica tenutasi nella casa di campagna del già citato Clò, anche se informazioni più recenti parlano di una soffiata arrivata da ambienti collegati al mondo della criminalità mafiosa (ipotesi certamente più verosimile). Ma l’aspetto più oscuro dell’intera vicenda fu quello costituito dalla decisione dei vertici delle forze dell’ordine di concentrare i propri sforzi nella perlustrazione dell’omonimo paesino nel viterbese ignorando la segnalazione ricevuta appena due settimane prima. Perché il covo delle B.R. venisse finalmente violato fu necessario attendere la giornata del 18 Aprile quando i Vigili del Fuoco, intervenuti sul luogo a causa di una “fortuita” perdita d’acqua proveniente dall’appartamento di un certo “Ing. Mario Borghi” (in seguito rivelatosi essere la mente del sequestro di Via Fani, Mario Moretti), fecero la terribile scoperta senza per questo ritrovare l’ostaggio.
Il periodo compreso fra il 16 Marzo e il 9 Maggio 1978 fu dominato a livello politico dal dibattito fra i sostenitori della linea della fermezza, guidati dal triumvirato Andreotti-Berlinguer-La Malfa e contrari a qualunque riconoscimento politico dei brigatisti, e lo schieramento dei possibilisti, egemonizzato dal nuovo segretario del Partito Socialista Bettino Craxi. In quei 55 giorni segnati dalla trepida attesa e dallo scoramento collettivo di fronte all’immobilismo dimostrato delle istituzioni, Moro scrisse 86 lettere indirizzate ai principali esponenti del suo stesso partito (famosissima quella per Benigno Zaccagnini, accusato di essere il «più fragile Segretario che avesse mai avuto la D.C.»), alla famiglia, ai maggiori quotidiani e al pontefice Paolo VI per ottenere un maggior impegno dello Stato nella trattativa in corso, ma invano. Il ritrovamento del cadavere dello statista pugliese nella Renault 4 color amaranto lasciata in via Caetani, non molto distante dalla sede storica del Partito Comunista in via delle Botteghe Oscure, finì col risvegliare all’interno della D.C. l’insofferenza di un’ala destra favorevole ad interrompere la collaborazione con Berlinguer dopo il varo della legislazione antiterrorismo e la manovra economica, senza badare troppo ai segnali provenienti dai referenda sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e della legge Reale del 1975 sulla tutela dell’ordine pubblico (entrambi respinti con una percentuale netta).
Il ruolo giocato dallo Stato italiano nel rapimento e nell’uccisione di Aldo Moro costituisce ancora oggi uno dei più grandi interrogativi della nostra storia recente, un atto brutale le cui implicazioni stentano a trovare una spiegazione sensata se non alla luce della successiva evoluzione del percorso politico nostrano. Troppe sono infatti le anomalie nella conduzione delle indagini e delle trattative con i brigatisti, troppi i silenzi omertosi da parte dei membri dell’establishment e delle forze dell’ordine, troppe le “coincidenze” per alcuni avvenimenti “casuali” che avrebbero dell’incredibile anche nell’ambito di un romanzo giallo. Una sola certezza emerge tuttavia nel panorama appena descritto, ossia la volontà di numerosi attori nazionali e internazionali di scongiurare l’ingresso del PCI nell’area di Governo in quanto passibile di mettere a repentaglio la permanenza dell’Italia nell’Alleanza Atlantica: quest’ipotesi costituì l’argomento centrale dell’incontro tenutosi a Washington nel Settembre del 1974 fra l’Onorevole D.C., allora Ministro degli Esteri dell’esecutivo Rumor, ed Henry Kissinger, Segretario di Stato durante le amministrazioni Nixon e Ford, il quale rese nota per mezzo di sottili minacce l’opposizione degli Stati Uniti alla strategia compromissoria perseguita in quegli anni.
Fra le associazioni più svantaggiate dal duopolio instauratosi dopo le elezioni politiche del Giugno del 1976 figurava al primo posto il PSI, rinnovatosi negli anni precedenti grazie alla liquidazione dello storico direttorio composto da Nenni, de Martino, Mancini e Lombardi con l’accusa di aver disperso l’intero patrimonio del socialismo italiano. Diverso era invece il discorso per il Partito Radicale, nato nel 1955 da un piccolo gruppo d’intellettuali fuoriusciti dal PLI e trasformatosi in breve tempo in un vero e proprio movimento politico. Il terreno prescelto per portare la propria sfida alle altre associazioni di massa fu quello dei diritti civili e delle libertà individuali, trovando nello strumento referendario il meccanismo ideale con cui smantellare gran parte della legislazione risalente al periodo fascista. L’elezione del socialista Sandro Pertini alla Presidenza della Repubblica nel Luglio del 1978 segnò l’atto finale della strategia compromissoria lanciata cinque anni prima dai comunisti, i quali ritirarono il loro appoggio al Governo in risposta alla decisione di quest’ultimo di entrare nel Sistema Monetario Europeo.
Niccolò Meta per Policlic.it