Giornalismo, informazione e televisione in Italia – Intervista a Pierluigi Allotti

Giornalismo, informazione e televisione in Italia – Intervista a Pierluigi Allotti

Giornalista per l’agenzia Askanews, professore di Storia del giornalismo presso l’università “La Sapienza” di Roma e autore di numerosi testi, tra cui Andare per stadi (il Mulino) e Quarto potere (Carocci), Pierluigi Allotti ci ha raccontato la sua visione del giornalismo.


Iniziamo con una domanda personale, la più semplice: come si è avvicinato al giornalismo?

Un po’ per caso. Finiti gli studi, avevo vinto un concorso di dottorato, senza borsa, a Roma Tre; e quindi, ritrovandomi senza borsa di studio, e senza stipendio, cominciai a mandare in giro un po’ di curriculum: uno a BlockBuster, uno a McDonald’s e l’altro all’agenzia di stampa in cui lavoro tuttora. Era nata da poco. E all’epoca, nel 2002, era diretta da Lucia Annunziata e si chiamava ApBiscom. McDonald’s e BlockBuster non mi risposero, mi contattò invece l’agenzia di stampa…

E meno male!

Sì, per uno stage retribuito con un buono pasto al giorno. Poi ho proseguito con dei contratti di collaborazione, lavorando part-time, avendo nel frattempo vinto un altro concorso di dottorato, alla Sapienza, e questa volta con borsa. Non immaginavo allora che sarei diventato un giornalista, anche se era uno degli sbocchi che avevo ipotizzato durante gli studi. Da studente di scienze politiche la mia prima aspirazione in realtà era quella di fare il diplomatico, ma poi ho imboccato la prima strada che mi si è aperta davanti, e oggi non mi pento affatto di quella scelta.

Quindi l’università ha influito o non ha influito?

Il percorso universitario sì, perché il giornalismo è uno degli sbocchi naturali di Scienze politiche. È una facoltà che prepara a confrontarsi con la società contemporanea. Il giornalista, d’altronde, ha una funzione sociale, perché si occupa degli affari pubblici e racconta ciò che avviene quotidianamente nel mondo. Penso che la preparazione di Scienze politiche sia una di quelle più congeniali per svolgere questa professione, che richiede una buona conoscenza della storia, del diritto, dell’economia, della sociologia: tutte materie che si studiano appunto in questa facoltà.

Il giornalismo oggi è cambiato. La carta stampata forse non è più neanche l’ombra di quello che era vent’anni fa. I mezzi di comunicazione si sono evoluti e si stanno sviluppando nuovi settori, per esempio quello del cosiddetto “brand journalism”. Lei come giudica questi cambiamenti? Ritiene sia un progresso o no?

La nostra è la “società dell’informazione”: siamo in ogni momento bombardati da informazioni. È un progresso? Certamente, a patto che si sappia nuotare in questo mare di notizie. Il rischio maggiore è quello di non saper riconoscere la notizia vera da quella falsa, di cadere vittime della disinformazione. I giornalisti oggi hanno strumenti a loro disposizione molto sofisticati (pensiamo ai sociali media) per raggiungere le fonti e per diffondere le notizie, che richiedono però – per un loro corretto impiego – una grande professionalità e una profonda conoscenza delle norme deontologiche. L’essenza del giornalismo non è comunque cambiata: è la stessa di inizio Novecento, quando in Italia si affermò il giornalismo moderno grazie a tre grandi direttori, Luigi Albertini del “Corriere della Sera”, Alfredo Frassati della “Stampa” di Torino, e Alberto Bergamini del “Giornale d’Italia”. Ovvero, dare tutte le notizie di pubblico interesse con completezza, onestà e tempestività.

Non ritiene, però, che nell’era della post-verità si stia assistendo a un processo di tabula rasa rispetto alla formazione giornalistica del passato?

Oggi il giornalismo è in crisi, le aziende editoriali sono in crisi e sono alla ricerca di un nuovo modello di business per la nuova era digitale. Personalmente ritengo che sia necessario lavorare sulla formazione dei giornalisti e sui prodotti giornalistici, per offrire ai lettori un’informazione di qualità, ma la qualità costa e va pagata bene. D’altronde non bisogna pensare che i lettori non siano esigenti. Quindi ben vengano le scuole e le facoltà per la formazione dei futuri giornalisti. Le prime scuole di giornalismo nacquero all’inizio del Novecento negli Stati Uniti, fondate da giornalisti di larghe vedute come Joseph Pulitzer. Pulitzer finanziò la scuola della Columbia University allo scopo proprio di formare giornalisti professionisti ed elevare lo standard qualitativo dell’informazione. Quando Walter Lippmann nel 1920, all’indomani della Grande Guerra, si poneva il problema della crisi del giornalismo (di come l’opinione pubblica fosse facilmente manipolabile e di come l’informazione fosse inquinata dalla propaganda), intravedeva la soluzione nella formazione dei giornalisti. Servono giornalisti con una solida preparazione culturale e professionale.

Lei ha appena accennato alla crisi del giornalismo. Come giudica oggi il giornalismo in Italia? Perché una delle cose che si sente più dire è che non abbiamo più, non dico i vecchi giornalisti come Barzini, Ojetti o Albertini, ma quelli più vicini temporalmente a noi – i Montanelli, i Bocca, i Biagi. Lei cosa si sente di dire?

In effetti oggi mancano quei grandi nomi, quelle grandi firme che un tempo polarizzavano l’opinione pubblica. Oggi è difficile citare un nome che si imponga come si imponeva quello di Montanelli. Non è detto che sia un male. Era comunque un giornalismo diverso, svolto in un altro contesto, in un’altra epoca. Oggi il giornalismo è molto più veloce.

Forse oggi manca la capacità di andare oltre la formula preconfezionata o comunque di saper dimostrare una certa qualità analitica. Il giornalista non va controcorrente o comunque non segue pienamente il suo istinto.

Mi è sembrato che i giornalisti, negli ultimi vent’anni, siano diventati una sorta di braccio armato della politica. Vediamo che nei talk show, quando c’è la par condicio e i politici non possono andare in televisione, sono i giornalisti che fanno il lavoro sporco di attaccarsi l’uno con l’altro, con le proprie casacche di riferimento. Il giornalista deve dismettere la casacca e andare alla ricerca dei fatti. Deve assolvere la sua funzione primaria, ossia quella di rendere gli affari pubblici intellegibili ai cittadini.

Qui non c’entra anche un po’ la scelta dell’editore di dettare la linea? Oppure è una semplificazione che facciamo noi, guardando da fuori?

Il problema è che anche gli editori devono fare i conti con la crisi, con il calo di introiti della pubblicità. I numeri dei giornali cartacei sono impietosi. Il Corriere della Sera non arriva alle 300 mila copie al giorno. Bisogna capire come fronteggiare questa crisi, inventare un nuovo modello di business. Il “brand journalism”, ad esempio, è una strada che stanno percorrendo tutti i principali giornali del mondo, dal New York Times al Guardian, applicando appunto il giornalismo alla comunicazione d’impresa. Bisogna però capire bene quali sono i confini, perché giornalismo e comunicazione sono due cose distinte. Ma può essere un modo per diversificare l’attività e incamerare introiti da investire nel giornalismo di qualità.

Facendo riferimento al giornalista con una casacca nei talk show, a come la formula del talk show televisivo sia un mezzo negativo per la comunicazione nell’ambito giornalistico, ritiene si dovrebbe volgere lo sguardo a quello che erano le vecchie tribune elettorali? Hanno forse ancora un aspetto di attualità, di novità, che può essere recuperato?

Hanno avuto una loro evoluzione; nacquero all’inizio degli anni ’60 come conferenze stampa e hanno avuto un’evoluzione nel corso del tempo, per poi esaurirsi. È nata poi la formula del talk show che adesso, forse, è anch’essa in via di esaurimento. Tutto si può recuperare, rinnovare, riproporre sotto nuove vesti. Forse si può veramente recuperare il modello delle tribune politiche. Poi però servono anche giornalisti coraggiosi.

L’altro punto che volevamo trattare con Lei sono le storture della comunicazione digitale. Chiaramente il digitale offre una maggiore possibilità di accesso alle fonti di informazione, ma comporta anche tutti i problemi che conosciamo bene. Lei cosa pensa si possa fare per limitare il fenomeno delle fake news?

Va insegnato ai futuri cittadini, agli elettori di domani, sin dai banchi di scuola, come muoversi nel nuovo contesto digitale in cui le informazioni proliferano e possono essere facilmente manipolabili. Ci vuole una maggiore educazione: bisogna insegnare come nasce e come si legge una notizia, come risalire alle fonti.

Sappiamo che Facebook ha creato un algoritmo per catalogare anticipatamente quali sono le notizie attendibili e quali no. Chi è dunque che stabilisce quando una notizia è veritiera o meno? È l’uomo o è un algoritmo artificiale, un qualcosa che è distante dalla concezione umana?

Io penso che dovrebbe essere sempre l’uomo, non si può affidare un compito così delicato a un algoritmo. Anch’io utilizzo Facebook e leggo le notizie su Facebook, ma riesco a rendermi conto, in base alla mia esperienza, quand’è che la notizia è vera e verificata. So quali sono gli organi di informazione dei quali ci si può fidare. È sempre una questione di formazione, di educazione. Torniamo sempre lì: bisogna promuovere questa educazione al digitale e al giornalismo, la cui centralità, nel mondo di oggi, viene sottostimata probabilmente anche dagli stessi giornalisti. Il buon giornalismo va coltivato e praticato.

Qual è la differenza tra i giovani di oggi e la Sua generazione? Vede lo stesso entusiasmo oppure la società è cambiata?

I giovani sono sempre entusiasti perché a vent’anni c’è aspettativa, c’è voglia di fare cose nuove, di sperimentare nuove formule, di trovare nuovi strumenti. Mi è capitato di parlare con qualche studente spaesato, che magari non vede un futuro tanto roseo perché ci sono oggettive difficoltà, ma venti o trent’anni anni fa c’erano probabilmente meno possibilità per un giovane rispetto a oggi. Il mondo cambia velocemente, ogni generazione deve fare i conti con la propria realtà. Voi avete molte più possibilità di girare, di viaggiare, di usare questi nuovi strumenti digitali, di fare tante cose che prima non si potevano fare. Certo, c’è più difficoltà a trovare il lavoro dei propri sogni rispetto a prima, però non bisogna demordere. L’entusiasmo mi sembra comunque non manchi nei giovani e alla Sapienza, dove insegno, mi sembra di respirare un clima positivo. E poi bisogna anche incoraggiarli i giovani, indirizzarli, offrire loro spunti, consigli.

Tocchiamo adesso il tema della televisione. Un’idea abbastanza diffusa è che il web farà alla televisione quello che la televisione ha fatto già alla radio. Lei cosa ne pensa?

Sì, il web e la rivoluzione digitale hanno aperto una nuova epoca della televisione. Gli studiosi del settore riconoscono tre epoche: la prima, della paleotelevisione, è quella del servizio pubblico monopolista che va dal ‘54 al ‘75; poi dal ‘76 agli anni Novanta c’è la neotelevisione, ovvero l’esplosione della TV commerciale, con l’avvento del duopolio Mediaset-Rai; oggi, in piena era digitale, stiamo vivendo una nuova trasformazione. Dopo l’avvento delle pay tv via satellite assistiamo ora all’emergere di queste nuove piattaforme streaming, tipo Netflix e Amazon Prime. Utilizzando Internet, possono fare concorrenza ai colossi televisivi non avendo necessità di certe strutture tecniche. Quindi cambia il settore, cambia l’offerta, e soprattutto cambia la modalità di fruizione. Oggi il palinsesto se lo può creare l’utente con la TV on demand.

Parliamo ora del rapporto tra TV commerciale e TV pubblica. Il mutuo scambio probabilmente era inevitabile, ma forse ha anche condotto a un certo scadimento della televisione pubblica. Per esempio, basta vedere come i telegiornali Rai in confronto a Mediaset siano scaduti, dando spazio a notizie che un tempo non avrebbero considerato. Lei è di questo avviso oppure no?

Questo decadimento e questa perdita di identità del servizio pubblico risalgono all’inizio degli anni ’80, con la fine del monopolio pubblico e la nascita della competizione Rai-Fininvest (e poi Mediaset). Comunque, la TV pubblica fa tuttora degli ottimi ascolti, ad esempio con Sanremo e con alcune fiction. In ogni caso sì, il dibattito sul ruolo e sulla qualità del servizio pubblico è sempre aperto. Si tratta di un tema sempre attuale. D’altronde è la TV nostra, la TV pubblica finanziata dai cittadini con il canone.

Recentemente Milena Gabanelli ha scritto un articolo sul Corriere, in cui sottolineava che mentre le TV pubbliche in altri paesi hanno un solo telegiornale o due, noi ne abbiamo quattro o cinque, per via della lottizzazione fatta negli anni ’80.

Questo è un problema che si intreccia con quello del pluralismo. Garantire il pluralismo significa fornire tante versioni dei fatti quante sono le varie visioni del mondo, o c’è solo un modo per raccontare i fatti e poi si possono commentare secondo varie sensibilità? Forse basterebbe una redazione sola per raccontarli, non tante redazioni. Quello della lottizzazione (termine coniato da Alberto Ronchey, se non ricordo male) è un fenomeno che nasce alla fine degli anni ’60 e si è accentuato poi negli anni ’70-’80. Eppure vediamo che, ancora oggi, la TV pubblica fa gola, è un asset strategico perché durante le elezioni politiche la televisione è ancora un fattore determinante per la conquista del consenso. Bisognerebbe togliere i partiti dalla Rai, ma pare un’impresa titanica.

Cosa pensa del fatto che i due partiti che sono al governo hanno sostenuto, fino a prima delle elezioni, che era un abominio lottizzare e adesso invece faranno la stessa cosa? E cosa pensa della riforma di Renzi che ha ridato più voce in capitolo al governo sulla Rai?

La riforma Renzi fu criticata proprio per questo. Adesso il governo può nominare l’amministratore delegato, che avrà poteri ancora maggiori, e soprattutto parte del Consiglio d’amministrazione. Il Cda è composto da sette membri, di cui quattro di nomina parlamentare (due dei quali espressione della maggioranza). Il governo può nominare altri due membri e quindi ci saranno quattro componenti su sette che rappresentano la maggioranza. Ritorniamo alla gestione della Rai precedente alla riforma del ’75, quando c’era la Democrazia Cristiana che aveva un controllo effettivo sulla televisione, essendo il principale partito di governo.

Domande a cura di Luigi Fattorini e redazione

Trascrizione a cura di Francesco Finucci

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