Tra i numerosi ospiti d’eccezione presenti al convegno organizzato lo scorso 2 aprile dalla UILCA e intitolato “Pensando al futuro. I nostri valori, la nostra storia, le nostre idee, il nostro futuro”, una delegazione di Policlic ha avuto modo di intervistare l’ex ministro del lavoro e della previdenza sociale Cesare Damiano. Sindacalista di lungo corso, come testimoniato dall’ascesa attraverso i ranghi della CGIL, l’Onorevole ha risposto ai nostri interrogativi su temi di grande attualità, come la crisi identitaria della Sinistra, Quota 100 e il ruolo spettante al sindacato nella società post-industriale.
Onorevole Damiano, nel corso della sua lunga carriera come sindacalista e uomo politico ha ingaggiato numerose battaglie come la riforma del TFR e il superamento della legge Fornero. Qual è invece il Suo giudizio sulla disposizione cardine dell’attuale legge di bilancio, la cosiddetta Quota 100?
Io non sono contrario alla Quota 100, l’ho detto in tante occasioni. Anche perché le quote le abbiamo inventate noi: quando io e Prodi eravamo al governo, nel 2007, nel protocollo siglato all’epoca con CGIL, CISL, UIL, Confindustria e altre associazioni fu introdotta la quota che all’epoca si chiamava 95. 60 anni di età e 35 di contributi, o 58 di età e 37 di contributi. Quella era una vera quota, perché sia i contributi che l’età oscillavano in alto o in basso. L’attuale Quota 100 non lo è, perché i 38 anni di contributi sono fissi. Il difetto consiste nel fatto che non tutti hanno la fortuna di poter avere alle spalle 38 anni di contributi. Quota 100 è una misura di flessibilità che però avvantaggia quelli che hanno già più vantaggi: un lavoro continuativo nella pubblica amministrazione piuttosto che nelle grandi imprese – soprattutto i lavoratori maschi. Svantaggia le donne che hanno carriere discontinue o chi fa lavori usuranti o attività che non portano a una continuità di contributi, come nel caso dell’edilizia. Da sola non basta. Bisogna che il Governo renda strutturale l’APE sociale, perché essa interviene per quelli più deboli. Faccio un esempio: se una persona è disoccupata con 30 anni di contributi, può andare in pensione a 63 anni, un anno dopo i 62 previsti da Quota 100 ma con ben 8 anni di contributi in meno. Quindi questa misura definita dai precedenti governi di centrosinistra con i sindacati andrebbe resa strutturale, se vogliamo che Quota 100 funzioni davvero. Evitiamo di piantare delle bandierine.
Alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 ha presentato la propria candidatura con il PD, mentre tra l’ottobre e il dicembre successivo ha concorso per la stessa segreteria del Partito. Quali saranno le sue prossime iniziative nell’agone politico?
Le mie iniziative politiche sono quelle di continuare ad approfondire e a studiare i temi che riguardano lo Stato sociale, la previdenza, la povertà, la Cassa integrazione, il lavoro e la stabilità dello stesso, la lotta alla precarietà e al lavoro nero. Io mi ritengo anche uno studioso di questi argomenti, oltre che un politico e un ex sindacalista. Continuerò ad approfondire queste tematiche con la mia associazione Lavoro Welfare, che ha il suo centro studi. Abbiamo fatto uno studio sui temi del Decretone a proposito di Quota 100, del reddito di cittadinanza e sul salario minimo di legge, tema anche questo che va attentamente monitorato perché c’è il rischio di minare le fondamenta della contrattazione.
In quanto militante di lungo corso tra le file dei DS e del Partito Democratico, lei ritiene che i cambiamenti accorsi negli ultimi anni abbiano allontanato la Sinistra dalla sua tradizionale base di consenso?
Io sono un uomo di Sinistra, un keynesiano, un antiliberista. Penso che negli ultimi 40 anni la Sinistra sia rimasta un po’ ipnotizzata e subordinata all’idea del capitalismo contemporaneo segnato dal liberismo economico, quello che io definisco un capitalismo malato e che andrebbe regolato, come dice Piketty nel suo libro. Così come penso che vada combattuta questa idea, anch’essa malata, di competitività, di concorrenza a tutti i costi, perché quest’ultima privilegia quello che compete al ribasso. E si sa che nel ribasso si saltano i costi della sicurezza sul lavoro e, soprattutto, la trasparenza delle retribuzioni, trovando rifugio nel lavoro nero per stare sul mercato.
Alla luce dei mutamenti intervenuti negli ultimi 40 anni, come il venir meno della centralità operaia e la rivoluzione tecnologica, Lei ritiene che il sindacato possa ancora presentarsi come un candidato credibile per operare da tramite fra i datori di lavoro e i lavoratori stessi, specie dopo la teorica sostituzione del proletariato a opera del precariato?
Ovviamente il sindacato deve seguire le proprie evoluzioni, i propri cambiamenti, così come questi cambiamenti li deve fare la politica. Nel gradimento dell’opinione pubblica, i partiti politici e la vecchia politica sono ai minimi storici. I sindacati non hanno molta popolarità, purtroppo. Quindi tutti devono farsi un esame di coscienza. Nuove trasformazioni sono in corso: abbiamo l’industria 4.0, la digitalizzazione dell’economia, la robotizzazione, l’intelligenza artificiale, la società liquida, il fatto che la discontinuità del lavoro segni intere generazioni. Oggi una persona che ha un lavoro non è detto che arrivi a fine mese; è quindi un working poor, un “lavoratore povero”. Una novità assoluta rispetto alla mia generazione, per la quale avere un lavoro voleva dire avere un’esistenza non dico da ricco, ma agiata, tranquilla, di tutela della propria famiglia e dei propri interessi. È una rivoluzione. Di rivoluzioni il sindacato ne ha fatte: da quando è stata fondata la CGIL unitaria, nel ’44; alla svolta impressa sulla contrattazione articolata; all’unità sindacale; alla divisione sindacale; al riavvicinamento del sindacato il 9 marzo scorso. La grandiosa manifestazione in Piazza San Giovanni è stata la testimonianza di un risveglio popolare molto importante, il quale ha segnalato al Governo il disagio di molte persone rimaste deluse da queste politiche e dai rischi che esse sottendono. Il sindacato deve fare i conti col fatto che non è più facile far aderire le persone, soprattutto i giovani, i quali si allontanano dalla politica e dal sindacato rifugiandosi nei falsi miti. Il lavoro liquido è difficile da rappresentare: un conto erano le grandi imprese nelle quali un tempo si incontravano migliaia di lavoratori, contesto in cui era più facile organizzarsi sindacalmente; un conto è lo smart working, il lavoro a domicilio o addirittura il lavoro nero, che non è afferrabile – e se viene afferrato non rischia di perdere quel poco che ha, quando invece se si è iscritti al sindacato si possono causare problemi al datore del lavoro. Per quanto il sindacato debba reinventare la sua prospettiva e il suo futuro, nulla ci può far pensare che esso sia sostituibile con qualcos’altro. Io credo che sia importante lavorare sulla ritessitura di una convergenza, di un’unità del sindacato – anche solo un’unità d’azione, perché ci sono delle nuove sfide: le sfide del Governo, della crescita, del blocco dei cantieri, il rischio che aumenti il lavoro nero, il salario minimo che mette in discussione la contrattazione e che confonde la paga tabellare con i diritti che derivano dal contratto nazionale. Come ci dicono i dati della Confederazione Europea dei Sindacati e del suo centro studi, nella crisi i salari hanno perso terreno: in Grecia del 23%, in Italia del 2%; in altri Paesi, invece, come in Germania e in Francia, hanno guadagnato terreno. Quindi anche noi dobbiamo guadagnare terreno. Come? Rilanciando gli investimenti, riprendendo la contrattazione, facendo i contratti nazionali che sono in scadenza.
Niccolò Meta per Policlic.it