Per alcuni il nome di Mariotto Segni potrebbe risultare poco conosciuto; per altri ancora (pochissimi, si spera) addirittura ignoto. Eppure, nel corso dei primi anni ’90, l’ex deputato della Democrazia Cristiana ha contribuito a rivoluzionare la fisionomia politico-istituzionale del nostro Paese, arrivando a essere insignito dell’appellativo di “uomo che aveva in mano l’Italia”. Quella che segue è l’intervista rilasciata dall’Onorevole per Policlic.it, incentrata sui temi della stagione referendaria del biennio ’91-’93, sul collasso della Prima Repubblica e sulla plausibilità di una riforma costituzionale in chiave presidenzialista.
Onorevole Segni, tra il 1991 e il 1993 il suo Movimento per la Riforma Elettorale ha permesso di sbloccare il cronico immobilismo delle istituzioni politiche repubblicane. A tal proposito, vorrei sapere qual è stato l’episodio determinante che l’ha spinta a dare il via a un simile processo di rinnovamento.
Sono sempre stato convinto che il problema centrale dello sviluppo politico e sociale italiano dipendesse dall’ammodernamento delle sue istituzioni. L’Italia era uscita dalla guerra con un sistema costituzionale e politico inevitabile, considerando il fascismo e tutto ciò che era successo. Con una serie di dati positivi, naturalmente, e con dei successi straordinari nei primi decenni del dopoguerra, ma anche con un sistema che era rimasto immobile ed era invecchiato, che dopo la rivoluzione industriale non era più adatto a governare il processo italiano. In questo mi confermò la vicenda francese del ’58, con l’avvento di de Gaulle e la sua riforma elettorale e costituzionale. Non è un caso che l’autore al quale mi sono personalmente ispirato sia stato Maurice Duverger, grande costituzionalista e politologo francese. L’evento che mi convinse che era arrivato il momento di passare dalla teorizzazione alla pratica fu però un’iniziativa di Marco Pannella, ossia la creazione della Lega per il collegio uninominale (nel 1986, se non ricordo male l’anno). Mi dissi che, se un politico dell’intuito e della statura di Pannella si era calato in un’azione pratica, forse era il momento di agire concretamente.
Si è soliti considerare il 1994 alla stregua di un “anno zero” per la vita politica del nostro Paese, il momento chiave per la transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica. Lei concorda con un simile giudizio?
Sarebbe più corretto parlare del periodo ‘93-‘94, perché il ’93 è stato l’anno in cui si è tenuto il referendum ed è stata varata la legge elettorale applicativa. La legge elettorale, come ha detto e scritto Capograssi [giurista e filosofo italiano, nda], è la norma che regola la vita dello Stato, quindi è la norma costituzionale più importante di tutte. Il ’93-‘94 rappresenta una cesura netta. Finisce un’epoca: l’epoca della legge elettorale proporzionale, con tutto quello che aveva comportato nell’organizzazione politica, nel tipo di governo e così via. Non è un caso che quasi tutti i vecchi partiti non siano sopravvissuti a questo biennio.
Tra il 1993 e il 2017 si sono succedute ben quattro leggi elettorali, ossia il Mattarellum, il Porcellum, l’Italicum e il Rosatellum bis. Quale bilancio è possibile trarre da un simile valzer scandito da proposte e controproposte legislative?
È un periodo che va tagliato in due, perché l’epoca del maggioritario è durata circa quindici anni, cioè poco. Il sistema creato dal referendum è stato distrutto dal Porcellum, la prima e più profonda riforma elettorale. Tutto il resto è una conseguenza, un tentativo di aggiustamento. Una vera e propria finzione dove fu rotta la logica del maggioritario. Il dato negativo è che se nel ’94 finì un’epoca e ne iniziò un’altra, nel 2006 non fu così. Siamo entrati in una nebulosa dalla quale non si sa quando e come usciremo. Abbiamo pezzi delle vecchie regole, come l’elezione diretta del sindaco e del governatore della regione con meccanismo presidenziale, e, contemporaneamente, un sistema proporzionale per il Parlamento nazionale. La conseguenza diretta è che nei comuni e nelle regioni vediamo una maggioranza, in Parlamento un’altra.
Nonostante il tentativo fatto con la legge Mattarella del 1993, il sistema maggioritario a turno unico ha sempre avuto difficoltà a impiantarsi nel nostro Paese. A cosa si deve questa tendenza?
Su questo ho un’opinione diversa. Il sistema si radicò velocemente, e credo con un consenso molto ampio. Sono cambiamenti che richiedono lunghi periodi di assuefazione: si passò da un meccanismo all’altro, da una selezione di un certo tipo della classe dirigente a un’altra, quindi il periodo fu relativamente breve. Il meccanismo del collegio uninominale non ebbe alcun tipo di ostacolo nell’opinione pubblica, nella società, nel Paese. Ricordo anzi tanti avversari che me ne riconobbero il merito, anche in politica. Il vero problema è che sul nuovo sistema non abbiamo mai raggiunto la maggioranza dei consensi nel mondo politico. Questo ha portato al ritorno indietro e alla sconfitta.
In un’intervista rilasciata per Libero nell’agosto del 2014, Lei ha affermato che la logica continuazione dei referenda del ‘91 e del ’93 sarebbe il presidenzialismo. Quanto ritiene fattibile un cambiamento così netto della forma di governo, nel medio-lungo termine?
Guardi, noi non arrivammo al presidenzialismo per un motivo molto semplice: vincemmo quelle battaglie perché avevamo uno strumento formidabile, il referendum elettorale, il quale però non è applicabile alla norma costituzionale. Se in quel momento avessimo potuto fare un referendum sul presidenzialismo, l’avremmo stravinto, non c’è il minimo dubbio. Ritengo che oggi non ci sia alcuna speranza di un cambiamento di questo genere, perché ci sono stati un arretramento e uno sbandamento dell’opinione pubblica. Gli anni referendari furono senza eguali perché riuscimmo a creare una dose altissima di attesa e di speranza. Per questo vincemmo. Oggi, in questo clima di pessimismo e di sfiducia, tale speranza si è però dissolta.
Niccolò Meta per www.policlic.it