Le origini del pensiero eurasista: Nicolaj Trubeckoj
Il coro delle voci contrarie al dogmatismo sovietico non rimase circoscritto ai soli adepti del VSKhSON, della Molodaya Gvardiya o agli “ultrà” di Šimanov, articolandosi in una moltitudine di correnti improntate al superamento dell’ortodossia comunista. L’esempio più emblematico fu quello rappresentato dal neo-eurasismo di Lev Gumilëv (1912-1992), a sua volta reinterpretazione dell’omonima dottrina sviluppatasi nel primo dopoguerra tra le fila della cosiddetta “emigrazione bianca”[1]. Quest’ultima avrebbe infatti rilanciato l’interminabile diatriba sull’identità storica della Russia, offrendo al tempo stesso un punto di vista originale rispetto alle teorie elaborate in precedenza dagli occidentalisti e dagli slavofili.
Tra i nomi più importanti legati al movimento eurasista figura il principe Nicolaj Sergeevič Trubeckoj (1890-1938), intellettuale molto apprezzato in Occidente per il contributo offerto alla neonata scienza linguistica e convinto, alla luce degli insuccessi collezionati dalle rivoluzioni del 1905 e del 1917, dell’impossibilità di replicare il percorso intrapreso sul finire dell’Ottocento dalle democrazie europee. A fronte di una considerazione così amara, il nobile moscovita non si limitava a raccomandare la teorizzazione di un modello alternativo a quelli imperanti nel Vecchio Mondo, ma si spingeva ben oltre auspicando il riconoscimento della natura ibrida della Russia, sintesi fra l’eredità bizantina e la signoria mongola. La prima si era infatti materializzata nelle forme dell’autocrazia e del cristianesimo ortodosso, elementi propedeutici a investire lo zar del ruolo di guida indiscussa; la seconda preservava al contrario l’idea del fiero conquistatore di popoli, al cospetto del quale nessun suddito avrebbe potuto avanzare pretese o rivendicazioni.
Lo spettro di Gengis Khan e dell’Orda d’Oro
Un altro elemento in grado di influenzare i caratteri della dottrina fu la rapida evoluzione della congiuntura internazionale. Il trauma inferto dalle condizioni predatorie imposte con la firma del Trattato di Brest Litovsk (3 marzo 1918), gli orrori consumatisi durante la stagione delle guerre civili (1918-1922) e il conseguente esilio per sottrarsi alle epurazioni del regime, avevano instillato negli esponenti più giovani una convinzione incrollabile: quella di essere spettatori di un cambiamento decisivo grazie al quale la Russia, finalmente libera dalle catene apposte quasi un secolo prima dagli occidentalisti, avrebbe raccolto il testimone lasciato dal temibile condottiero Gengis Khan, procedendo così alla riunificazione del continente eurasiatico.
È sotto questa luce che occorre interpretare l’ipotesi di una riappacificazione con l’establishment, ormai saldamente al potere e intenzionato a diffondere le conquiste dell’Ottobre ben oltre i confini prebellici, nonché la pubblicazione di una raccolta di saggi intitolata Esodo verso Oriente (1921)[2]. Nondimeno, una simile iniziativa avrebbe aperto una frattura insanabile tra le numerose anime del movimento, coagulatesi intorno a chi come Trubeckoj, Igor Savickij (1915-1984) e Nicolaj Alekseev (1879-1964) respingeva a priori l’ipotesi di una collaborazione col Cremlino, e coloro che invece guardavano a Mosca con malcelata simpatia[3]. Piuttosto emblematico risulta essere il passaggio tratto dall’opera Russian Eurasianism – An ideology of empire della professoressa Marlène Laruelle, all’interno della quale è possibile leggere quanto segue:
Un tragico destino attendeva gli eurasisti che scelsero di far ritorno in Unione Sovietica, come A. Durnyi e Sviatopolk-Mirsky: al loro arrivo vennero accolti e assegnati a posizioni di prestigio nella gerarchia letteraria […] ma alla fine degli anni ’30, dopo che la morte di Maksim Gor’kij[4] li aveva privati del loro mecenate, furono spediti nei campi di concentramento o davanti ai plotoni d’esecuzione[5].
A uno sguardo più critico, appare evidente che lo scisma tra le due fazioni trascendesse il mero aspetto ideologico: il gruppo degli “idealisti”, infatti, aveva mostrato un certo interesse per le questioni relative alla sfera religiosa e alla filosofia; al contrario, i sedicenti “realisti” si sarebbero elevati a portavoce di un modello che risolvesse i problemi legati alla contemporaneità e all’ordine sociale.
Il neo-eurasismo di Lev Gumilëv
Nello scenario fin qui descritto per introdurre il lettore a una tematica così complessa, il personaggio di Gumilëv costituisce il tramite fra l’eurasismo delle origini e quello contemporaneo. Tra i suoi meriti indiscussi figura il superamento dell’approccio escatologico[6] tanto caro alla scuola argentea[7], rimpiazzato da una concezione deterministica[8] dove l’agire umano incontrava nelle scienze naturali un limite invalicabile. Inoltre, muovendo dalla convinzione per cui gli individui non avessero alcuna possibilità di intervenire sul destino del mondo, l’etnologo leningradese ribadiva la necessità di decifrare la logica dietro questi schemi immutabili (zakonomernost), espediente propedeutico a cogliere il significato più intimo dell’esistenza terrena.
Un’altra peculiarità del pensiero gumilëviano è la reinterpretazione dei concetti pregressi tramite l’impiego di nuove categorie dottrinarie, nello specifico l’ethnos. A differenza del termine lichnost (persona), coniato a cavallo tra gli anni ’20 e ’30 dall’accademico Trubeckoj, tale formula stava a indicare:
[…] un collettivo che si distingue dagli altri per un proprio stereotipo comportamentale e contrappone se stesso a tutti gli altri collettivi[9].
Parimenti, essa prefigurava l’esistenza di una “personalità multinazionale” chiamata super-ethnos.
È nello spazio di queste poche righe che si riescono a cogliere le differenze con gli eurasisti delle origini, convinti di come la reciproca empatia fra i popoli della steppa non si esaurisse nel semplice profilo biologico, ma trovasse la propria ragion d’essere nella condivisione di taluni principi. Non meno singolare risultava essere la disamina del rapporto vigente fra le comunità e il loro territorio di appartenenza, sensibilmente ridimensionato in favore della genetica e dei legami chimici. Riferisce in proposito Laruelle:
[…] l’Eurasia non è una totalità che trae il proprio significato dalla geografia, ma una cornice per ciò in cui egli [Gumilëv, nda] è in realtà interessato: l’etnogenesi[10].
Una rimarchevole analogia con le altre frange del movimento è invece rappresentata dall’ambiguità fra i termini russkii, rossiiiskii e evraziiskii, impiegati per indicare rispettivamente ciò che è russo sotto il profilo etnico, statale ed eurasiatico.
I caratteri generali del pensiero gumilëviano
Il motore primo della “storia socio-naturale” veniva quindi identificato nella categoria della passionarietà, ossia nella predisposizione di un organismo ad assorbire importanti livelli di energia, salvo poi rilasciarli sotto forma di impulsi necessari all’espletamento delle attività più importanti. In altre parole, si tratterebbe di un fenomeno circoscritto alla sfera fisiologica, un surplus di derivazione cosmico-terrena la cui soglia varia da persona a persona, permettendo così la classificazione delle etnie in base alla loro età biologica. Fu proprio il desiderio di salvaguardare la vitalità dei popoli virtuosi che spinse l’autore a perorare la causa dell’endogamia[11], prassi che aveva resistito all’azione di un tempo scandito dal continuo succedersi degli ethnoi.
Benché gran parte dell’Eurasia, con le sole eccezioni costituite dalla Mongolia e dal Tibet, fosse racchiusa all’interno dei confini dell’URSS, Gumilëv avrebbe riscontrato l’esistenza di almeno altri sei super-ethnos sparsi sul continente. Fra questi, gli unici a potersi ritenere i legittimi padroni dell’area erano gli abitanti delle steppe e i russi, artefici della grandezza del regime zarista. Allo stesso modo, la parabola imperiale doveva essere interpretata nell’ottica di una lenta convergenza fra due aggregazioni unite da un destino comune, vale a dire il conseguimento dell’egemonia politico-culturale. Citando le parole dell’eclettico pensatore:
la grande Steppa è una totalità geografica, abitata da popoli diversi con differenti strutture economiche, religioni, istituzioni sociali e usanze […] Eppure, tutti i suoi vicini l’hanno sempre percepita come una sorta di entità unificata, benché né gli etnografi, né gli storici, né tantomeno i sociologi, siano stati in grado di determinare l’essenza del principio dominante.[12]
Altra pietra angolare del neo-eurasismo gumilëviano era la credenza per cui l’evoluzione della Russia, contrariamente a quanto avvenuto per il resto del mondo, non avesse seguito alcun indirizzo lineare, bensì uno duale culminato nelle trasformazioni etnogenetiche del I e del XII secolo d.C[13]. La continuità nazionale andava pertanto ricercata nell’azione coesiva svolta dal cristianesimo ortodosso, trasmesso fra i vari super-ethnos grazie a un’unità territoriale raggiunta fin dai tempi dalla dominazione mongola. Nondimeno, se il periodo a cavallo fra il Quattrocento e il Cinquecento era stato animato da una fortissima ondata di passionarietà, viceversa la stagione compresa fra i secoli XVII e il XIX aveva fatto da cornice a un interregnum di inesorabile declino. Le ragioni dietro una simile involuzione affondavano nella scelta di guardare all’Occidente come esempio virtuoso, invero foriera di immani catastrofi quali il traviamento dei costumi e il venir meno dell’antico dinamismo.
Seppure allineato con i suoi predecessori nella convinzione per cui lo spettro dell’Orda d’Oro, uno dei regni nei quali era stato suddiviso l’impero alla morte di Gengis Khan, non fosse altro che la macchinazione di un’Europa intenzionata a distogliere il Paese dal suo vero nemico, Gumilëv se ne sarebbe discostato palesando un odio irriducibile nei confronti dell’Islam. Quest’ultimo era stato infatti responsabile della conversione del potente khanato, preludio dell’insanabile scisma fra il mondo russo e quello mongolo. Commenta a riguardo la storica Laruelle:
Adottando l’Islam come religione di Stato del khanato […] Mamaj[14]legò i Tatari al super-ethnos musulmano, anche se per origine etnica appartenevano al super-ethnos eurasiatico delle steppe. Pertanto, dopo che l’Orda d’Oro ebbe adottato l’Islam, la Moscovia rimase il legittimo erede dell’impero delle steppe.[15]
L’ombra lunga degli eurasisti
Le critiche mosse al pensiero gumilëvano possono essere raccolte in tre differenti macro-categorie, ciascuna delle quali espressione di un approccio costruito a partire dagli ambiti ideologico, etnico e costruttivista. La prima, sviluppatasi durante gli anni ’60 grazie alle ricerche condotte dall’Istituto per l’Etnologia di Mosca, ne aveva condannato la natura “eversiva” in quanto non riconducibile agli insegnamenti dogmatici del marxismo-leninismo, né tantomeno alle politiche di sovietizzazione[16] patrocinate dal PCUS; la seconda, elaborata nel corso del decennio successivo dai circoli nazionalistici, avrebbe invece denunciato il carattere turcofilo dell’etnogenesi, pur apprezzandone quel russocentrismo che giustificava l’egemonia del Cremlino sull’area; l’ultima, la più recente in ordine cronologico, ha infine costituito uno spartiacque epocale perché si è proposta di smontare le argomentazioni su cui l’etnologo aveva costruito le proprie teorie.
È interessante notare come, nonostante la fama di implacabile accusatore della dittatura comunista e i dieci anni di prigionia trascorsi in Siberia, Gumilëv abbia giustificato le violenze perpetrate dal regime in quanto indispensabili alla preservazione dell’ethnos russo. Non meno positivo risultava essere il giudizio sul programma di liberalizzazione economica varato, nell’aprile del 1986, dall’allora Segretario Generale Michail Gorbačëv (1931-vivente), necessario alla salvaguardia dell’Unione in seguito al risveglio delle derive secessioniste. In uno dei passaggi più significativi sull’argomento, è possibile leggere le seguenti parole:
[…] la salvezza è giunta sotto forma della perestrojka…il risultato di lunghe e terribili preparazioni […] ella porterà a una ricombinazione degli elementi che hanno saturato il campo etnico, preparandolo a una transizione verso una fase più duratura di movimento stabile, di cultura favorevole.[17]
In conclusione, è lecito affermare che le teorie degli eurasisti abbiano cambiato per sempre le modalità di autorappresentazione della Russia: l’influenza dell’intellettuale dissidente può essere colta non soltanto nel programma stilato da Aleksandr Dugin, il discusso e discutibile fondatore dell’organizzazione non governativa MED (Meždunarodnae Evrazijskoj Dviženie[18]), ma anche nelle linee guida della politica estera putiniana. Pietra angolare di quest’ultima è infatti l’Unione Economica Eurasiatica (EAEU), un’entità sovranazionale con cui Mosca vorrebbe estendere il proprio controllo sul continente. La crisi che si è abbattuta sul Paese in seguito all’annessione della Crimea, tuttavia, solleva non pochi dubbi sulla sostenibilità di un progetto forse troppo ambizioso per le finanze del Cremlino.
Niccolò Meta per Policlic.it
[1] Tale espressione è stata coniata in ambito storiografico per indicare l’esilio volontario, in seguito alla presa del potere da parte dei bolscevichi (1918-1923), di alcune figure legate all’intelligencija zarista.
[2] L’opera in questione si sviluppa attorno a un nuovo modo di rapportarsi all’identità nazionale, propedeutico a inquadrarla nel solco di un messianesimo scevro da condizionamenti ideologici o da velleità emulative.
[3] Si sta parlando del filosofo Lev Karsavin (1882-1952), del critico esteta Pëtr Suvchinsky (1882-1985) e del letterato Dmitry Sviatopolk-Mirsky (1890-1939).
[4] Maksim Gor’kij, pseudonimo di Aleksej Maksimovič Peškov, è stato uno scrittore e drammaturgo russo. Viene considerato il padre spirituale del realismo socialista.
[5] Laruelle. M., Russian Eurasianism – An ideology of empire, Johns Hopkins University Press, Baltimore, 2012, p.21. Traduzione dell’autore.
[6] Che riguarda i destini finali dell’uomo e dell’universo (Fonte: Treccani).
[7] Si rimanda il volenteroso lettore all’articolo “Il dissenso in Unione Sovietica: la nuova destra russa – Parte I”.
[8] Nel linguaggio filosofico e scientifico, concezione secondo la quale gli accadimenti della realtà metafisica, fisica o morale sono reciprocamente connessi in modo necessario e invariabile
[9] Gumilev, L.N., “Konec i vnov’ nakalo”, Moskva 2011, 1990, p. 81. Traduzione dell’autore.
[10] Laruelle. M., Russian Eurasianism – An ideology of empire, Johns Hopkins University Press, Baltimore, 2012, p.66. Traduzione dell’autore.
[11] In etnologia, l’endogamia (dal greco antico ἔνδον “all’interno” e γάμος “nozze”) è un ordinamento matrimoniale per cui gli sposi vengono obbligatoriamente selezionati in seno al medesimo gruppo, stirpe, clan, tribù.
[12] Gumilëv. L.N., Khunn: Stepnania trilogiiia, Mosca, Kompass, 1993, p.8. Traduzione dell’autore.
[13] Si sta parlando, rispettivamente, dei prodromi della creazione della Rus di Kiev e della fondazione della Moscovia.
[14] Mamaj, in tartaro Мамай, (… – 1380), è stato un condottiero mongolo, Khan dell’Orda d’Oro dal 1361 al 1380.
[15] Laruelle. M., Russian Eurasianism – An ideology of empire, Johns Hopkins University Press, Baltimore, 2012, p.72. Traduzione dell’autore.
[16] Con la formula sovietizzazione si è soliti indicare la conversione a un modello politico basato sulle assemblee degli operai e dei soldati (appunto Soviet) o, in tempi più recenti, l’emulazione dello stile di vita e della mentalità imperanti nell’Unione Sovietica. La sua ascesa a dottrina di Stato rispondeva alla chiara esigenza di neutralizzare le spinte secessioniste in seno alle Repubbliche costituenti, convincendone gli abitanti dell’appartenenza a un’unica realtà nazionale.
[17] Gumilëv. L.N., Etnos, istoriia, kul’tura, Dekorativnoe iskusstvo SSSR, n. 4., 1989, pp.32-34. Traduzione dell’autore.
[18] Movimento Internazionale Eurasista.