La nazionalizzazione dell’industria elettrica in Italia ha rappresentato un campo di battaglia ideale per due visioni politiche storiche dello Stato e dell’economia, quella riformista e quella liberista. Due modi di concepire il ruolo della politica e delle istituzioni: da un lato i favorevoli a un intervento massiccio dello Stato nell’economia, dall’altro chi riteneva e ritiene che la libera iniziativa dei privati non debba essere sottoposta a vincoli. Ma la nazionalizzazione è stata anche un luogo di discussione sul concetto di monopolio e su quello di sviluppo economico, legato a doppio filo alla produzione energetica.
Policlic ha dunque voluto proporre ai propri lettori questo approfondimento “a puntate”, incentrato su quella che è stata una riforma così importante e dirimente per lo scenario politico degli anni Sessanta e per tutta la successiva parabola della Prima Repubblica. In questi appuntamenti si cercherà di analizzare gli eventi storicamente più rilevanti che hanno portato all’approvazione della riforma nel 1962, attraverso le idee politiche tanto dei favorevoli quanto dei contrari alla nazionalizzazione.
I fondamenti teorici della nazionalizzazione: il riformismo rivoluzionario di Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti
Una società socialista è quella nella quale a ciascun individuo sia data la massima possibilità di influire sulla propria esistenza e sulla costruzione della propria vita[1].
Riccardo Lombardi chiudeva così, nel maggio 1984, la sua ultima intervista, rilasciata a Simona Colarizi per la rivista “Socialismo Oggi”. Una frase emblematica del pensiero di uno dei più instancabili sostenitori della nazionalizzazione dell’industria elettrica.
Nato a Regalbuto nel 1901, Lombardi venne arrestato in quanto antifascista nel 1930. Dodici anni dopo fu tra i fondatori del Partito d’Azione e nel 1945 venne nominato ministro dei trasporti nel primo governo De Gasperi. Nel 1947 entrò nel Partito Socialista Italiano, ricoprendo in due occasioni la carica di direttore dell’organo di stampa socialista “Avanti!”[2]. Nello stesso anno propose con successo la creazione dell’Ente Siciliano di Elettricità, che ebbe la funzione di dare impulso alla industrializzazione dell’isola mediante investimenti pubblici destinati al potenziamento delle infrastrutture. L’ente, presieduto proprio da Lombardi, costruì le centrali idroelettriche di Pelino, Troina e Carboi e i grandi impianti termici di Termini Imerese e di Augusta[3].
Dopo la Costituente, Lombardi entrò alla Camera dei Deputati e vi rimase dal 1948 al 1983. In questa sede intraprese la lotta per le riforme, in particolare per quella del settore elettrico.
È nella seconda metà degli anni Cinquanta che il pensiero di Lombardi acquisì un peso determinante all’interno della più vasta strategia del PSI. Il deputato siciliano parlava in quegli anni di “riforme rivoluzionarie”, idonee a destabilizzare il sistema capitalistico dall’interno per rendere sostanzialmente irrinunciabile un’azione di riforma continua, finalizzata all’eliminazione delle contraddizioni strutturali del Paese. Così facendo, sulla strada di riforme dalla carica rivoluzionaria, Lombardi poté far “digerire” il boccone del riformismo a quella parte del PSI più spostata su posizioni vetero-massimaliste, contrarie alla visione di Turati nei primi anni del Novecento o a quella contemporanea del socialdemocratico Saragat[4].
A precisare i lineamenti di una così articolata visione politico-ideologica fu lo stesso Lombardi, durante un seminario di storia contemporanea tenuto nel 1974. In quell’occasione, il deputato socialista usò parole significative:
Il riformismo rivoluzionario appunto (adottiamo pure ormai il nome, che è diventato non più materia di scherno o di scherzo, ma segno di un elemento culturale e politico importante) si è presentato come una formula che perseguiva una politica di riforme, di direzione politica dello sviluppo, ma la perseguiva in legame diretto e non in contrasto con una vasta azione di massa. Nel legame fra azione di massa al livello strutturale e azione di direzione politica al livello strutturale e istituzionale venivano così sanati quello iato, quella frattura e anche quel tanto di illuministico che, come io stesso ho riconosciuto in un’ampia autocritica fatta a suo tempo, aveva presieduto e minacciato i primi tentativi di portare a una direzione politica dello sviluppo tendente a invertire i rapporti di classe. Che cosa significava questo intervento in definitiva? Rendere accessibile, attraverso il movimento di massa, le possibilità alternative non obbligate nelle decisioni a livello strutturale e sovrastrutturale, persuadere attraverso l’azione politica e l’azione di massa che non c’è nulla di obbligato e nulla di tecnicamente vincolante, che non c’è soluzione unica imposta dalle scelte del capitalismo, che anzi a ogni scelta il movimento operaio può opporne una diversa e contraria. E proprio attraverso queste scelte, se imposte sia attraverso il movimento politico sia attraverso gli appoggi di massa, possono crearsi dei poteri parziali nella società, da utilizzare per creare nuovi problemi che esigono nuove riforme e nuovi passi in avanti, e così iniziare un’opera si può dire di autoalimentazione, di cui, guarda caso, c’è un antecedente teorico – la visione cioè della potenzialità di questa serie ininterrotta di riforme, l’una richiamantesi all’altra e occasionante quella successiva attraverso il sistema dei poteri successivamente strappati alla classe dirigente – un richiamo e una anticipazione, un’intuizione in uno scritto postumo di Rodolfo Morandi[5].
Partendo da tali assunti teorici, sviluppati nel corso di studi e analisi che hanno attraversato i primi decenni della Repubblica Italiana e, passando dalla teoria alla prassi, tradotti in proposte legislative presentate in Parlamento, Lombardi scenderà in campo apertamente in favore prima di un intervento nel settore, poi della nazionalizzazione dell’industria elettrica tout court. In particolare, portano la firma di Lombardi le proposte di legge del 1950, 1953 e 1958[6].
Un altro nome importante in quegli anni di “fermento riformista” nel Partito Socialista fu, senza dubbio, Antonio Giolitti. Nipote dello statista piemontese protagonista della politica italiana di inizio Novecento, fu parlamentare nel gruppo comunista fino al 1957, anno in cui rassegnò le dimissioni a causa della pubblicazione del “rapporto segreto” di Nikita Chruščëv del 1956[7].
Proprio nel 1957 venne pubblicato un suo scritto dal titolo “Riforme e Rivoluzione”, in cui Giolitti sviluppava, tra le varie considerazioni, la propria visione politico-economica relativa alla concentrazione capitalistica. Nel secondo capitolo del libro si sofferma inizialmente sulla distinzione tra il concetto di monopolio e quello di oligopolio (una delle accuse principali nei confronti delle imprese elettriche private era quella di aver creato un trust monopolistico). Nel primo caso abbiamo un’unica impresa che detiene la totalità della produzione di un’industria e non si muove in direzione dell’innovazione tecnica. Nel caso di oligopolio, invece, parliamo di un numero limitato di imprese che controllano la produzione di un settore industriale, una condizione che viene definita da Giolitti come “la forma di mercato dominante nel capitalismo monopolistico contemporaneo”.
Giolitti passa poi a individuare la grande contraddizione del capitalismo contemporaneo: essa risiede nel fatto che proprio il fenomeno della concentrazione monopolistica dà impulso allo sviluppo della grande azienda, ma non permette che lo sviluppo tecnico creato attraverso le innovazioni si traduca in sviluppo economico e quindi in benessere sociale[8].
Dopo tali considerazioni di ordine prettamente generale, Giolitti giunge a una conclusione che interessa più direttamente l’argomento del presente articolo:
La divergenza tra produttività e occupazione e tra produzione e consumo si fa sempre più marcata. L’evoluzione dell’impresa privata verso forme di oligopolio e la conseguente necessità di un intervento dello Stato, volto a stimolare artificialmente lo sviluppo del reddito e della occupazione che quelle forme tendono invece a comprimere, si traduce in un’acuita contraddizione tra interessi dei gruppi monopolistici privati e interesse pubblico. Da una parte, cioè, le imprese oligopolistiche private cercano di assicurarsi il massimo profitto e di mantenere e consolidare il loro dominio del mercato, e a questo scopo tendono ad aumentare la produttività, a ridurre l’occupazione e a riversare sui consumatori, imponendo alti prezzi, l’onere degli alti profitti ed eventualmente dei salari superiori alla media. Dall’altra, lo Stato è costretto ad intervenire per arginare le deleterie conseguenze sociali (disoccupazione, pauperismo) e i gravi squilibri (Nord e Sud, città e campagna) che derivano dall’anarchia capitalistica[9].
Il contributo politico-ideologico del riformismo rivoluzionario, unito a quello parlamentare di Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti in particolare, avrà un ruolo determinante durante tutto il dibattito precedente alla nazionalizzazione e in generale nella battaglia per le riforme che caratterizzerà tutta la stagione del “centro-sinistra”.
In un periodo come quello attuale, nel quale la riflessione sullo stato del riformismo italiano ed europeo diventa sempre più necessaria, lo studio in ottica comparativa e mai nostalgica delle idee e dell’impegno di Lombardi e Giolitti (ma non solo) può risultare di sicura utilità.
Federico Paolini per Policlic.it
Riferimenti bibliografici
[1] Ultima intervista di Riccardo Lombardi nel maggio 1984 per la rivista “Socialismo Oggi”, Socialismo Italiano 1892, 30 novembre 2017.
[2] G. Sircana, “Riccardo Lombardi” in Enciclopedia Treccani.
[3] S. Labbate, La politica energetica dell’Italia Repubblicana tra interesse nazionale e vincoli atlantici (1945-1975) [tesi di dottorato, Università degli studi di Roma “La Sapienza”, 2009], p. 21, nota 85.
[4] S. Colarizi, Storia politica della Repubblica 1943-2006, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 72-73.
[5] R. Lombardi, Cos’è il riformismo rivoluzionario, Blog della Fondazione Nenni, 26 marzo 2017.
[6] Cfr. “Riccardo Lombardi” sul portale storico della Camera dei Deputati.
[7] P. Craveri, “Antonio Giolitti” in Enciclopedia Treccani.
[8] A. Giolitti, Riforme e rivoluzione, Torino, Einaudi, 1957, pp. 15-16.
[9] Ivi, p. 21.
Autore immagine: Marisa Rastellini (Mondadori Publishers)