La marginalizzazione degli afroamericani nel tessuto sociale degli Stati Uniti

La marginalizzazione degli afroamericani nel tessuto sociale degli Stati Uniti

Questo articolo è estratto dalla rivista Policlic n. 2 pubblicata il 27 giugno. 

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L’epopea degli Stati Uniti d’America ha avuto inizio con una data ben precisa. L’11 novembre 1620 i 102 Padri Pellegrini salpati dalle coste inglesi approdarono a Cape Code, nell’attuale Massachusetts, e posero le basi per la nascita della più grande democrazia della storia. Una data presente in tutti i libri scolastici e divenuta, nel tempo, sinonimo di libertà, eguaglianza ed emancipazione. Solamente un anno prima, nell’agosto del 1619, una nave inglese, la White Lion, approdò sulle coste della Virginia con una trentina di prigionieri africani catturati nell’attuale Angola. Al momento della partenza, gli schiavi sul galeone ammontavano a 350. Molti morirono durante la traversata; altri vennero venduti ai commercianti di schiavi. Non appena giunto in America, il capitano della White Lion barattò i prigionieri con del cibo e quelli sbarcati a Point Comfort divennero i primi schiavi africani delle colonie britanniche americane.
Sebbene lo sbarco della White Lion abbia preceduto di un anno quello della Mayflower, l’episodio ha finito per assumere ben poca rilevanza, nella cultura statunitense, rispetto all’epica dei Padri Pellegrini. D’altronde, la scelta dei miti fondativi è solita avvenire con il preciso intento di assegnare un senso ai valori di una società e di una nazione. La creazione dell’Impero Romano trova origine nell’arrivo di Enea nel Lazio e nel successo di Romolo su Remo, non certo nella sistematica sottomissione dei popoli italici da parte del futuro Impero Romano.

Tuttavia, a 400 anni di distanza dall’approdo della White Lion e della Mayflower, diventa sempre più difficile trattare le due traversate oceaniche come avvenimenti distinti e separati. Da questo punto di vista, le rivolte che stanno infiammando gli Stati Uniti dimostrano quanto la questione razziale sia ancora di grande attualità. L’omicidio di George Floyd è solo l’ultimo capitolo di una secolare storia di intolleranza nei confronti della popolazione afroamericana ed è lì a dimostrare che il faro illuminante della democrazia liberale non ha ancora fatto i conti con secoli di schiavitù, segregazione e odio.

La rimozione dello sbarco della White Lion dall’immaginario collettivo americano assume una valenza simbolica: sebbene la registrazione dei prigionieri angolani nel registro degli schiavi sia legata a doppio filo all’arrivo dei Padri Pellegrini nel New England, l’establishment americano sembrerebbe aver fatto di tutto per rimuovere ogni nesso tra i due avvenimenti, poiché incompatibile con il Manifest Destiny di una popolazione chiamata a universalizzare le libertà politiche, religiose e culturali. È proprio questa la grande contraddizione americana: il Paese che ha partorito una Dichiarazione di indipendenza che eleva il principio di uguaglianza a legge naturale e divina, è lo stesso che ha impedito agli afroamericani di sedere sulle stesse panchine dei bianchi fino alla metà anni degli anni Sessanta del secolo scorso.

Malgrado la schiavitù e la segregazione siano state abolite ormai da tempo, in questi giorni basterebbe sintonizzarsi su un qualsiasi telegiornale per comprendere quanto, negli Stati Uniti, il processo di integrazione razziale sia stato implementato solo a livello formale. Al di là dei vergognosi e inaccettabili atti di violenza ai danni della comunità afroamericana a opera di civili o forze dell’ordine, a gettare un’ombra preoccupante sulla reale attuazione dell’eguaglianza razziale negli Stati Uniti sono le condizioni socioeconomiche in cui tuttora versa la comunità nera. Un fenomeno molto meno eclatante rispetto agli orribili fatti di cronaca che hanno visto per protagonisti i vari George Floyd, Michael Brown ed Eric Garner, ma sintomi di un asfissiante sistema di esclusione sociale che vede gli afroamericani relegati alla base della piramide sociale statunitense.

Accesso all’istruzione ridotto, difficoltà nel ricevere prestiti dalle banche e sotto-rappresentazione politico-istituzionale sono solo alcuni dei fenomeni con cui la comunità afroamericana è costretta a scontrarsi da generazioni – nonostante i traguardi compiuti nel campo dei diritti civili – e che contribuiscono a generare un senso di esclusione destinato a trasformarsi in rabbia feroce in occasione delle reiterate violenze della polizia ai danni di sospettati afroamericani.

Nel 2014, Danièle Watts, attrice del film Django Unchained di Quentin Tarantino, venne arrestata dalla polizia di Los Angeles dopo essere stata vista baciare suo marito di origine caucasica. Le autorità erano convinte che la Watts fosse una prostituta in compagnia di un cliente bianco. La notizia fece il giro del mondo ponendo ancora una volta l’accento sulla gravità delle discriminazioni razziali, così radicate nel tessuto culturale statunitense da arrivare addirittura a coinvolgere un’attrice hollywoodiana.

La vera “colpa” di Danièle Watts e di suo marito è stata quella di aver sfatato il tabù del matrimonio interraziale, ancora difficile da digerire in determinati ambienti della società americana. L’attrice del western di Tarantino se l’è cavata con un arresto e una lieve ferita al polso. Ciononostante, il sospetto che la situazione sarebbe potuta degenerare se non si fosse trattato di una personalità di spicco trova conferma negli insegnamenti che il sindaco di New York Bill De Blasio – sposato con una donna afroamericana – ha confessato di aver impartito al suo secondogenito relativamente ai giusti comportamenti da adottare in occasione di un fermo della polizia, onde evitare degenerazioni di qualsiasi tipo. Se ciò è vero per il figlio del sindaco della più importante città americana, inutile dire quanto possa esserlo per un qualsiasi figlio del sottoproletariato afroamericano.

Casi come quelli che hanno visto protagonista Danièle Watts sono all’ordine nel giorno negli Stati Uniti. Oltretutto, se hanno avuto per teatro una metropoli come Los Angeles – dove i prodotti cinematografici divinizzano il sogno liberale americano da oltre cento anni – è bene immaginare quanto possano essere ricorrenti nelle città della provincia più profonda. In ogni caso, per afferrare la reale portata dell’emarginazione socioeconomica in cui versano gli afroamericani negli Stati Uniti, è utile fare riferimento a una serie di dati che fotografano la realtà delle diseguaglianze tra bianchi e neri a 400 anni dalla prima tratta degli schiavi in territorio nordamericano.


La disparità reddituale

Complice la pandemia di COVID-19, nel primo trimestre del 2020 il tasso di disoccupazione tra gli afroamericani è raddoppiato rispetto a quello degli americani di origine caucasica. Fra i neri americani è disoccupato il 22% dei giovani tra i 16 e i 29 anni, il 14% di quelli tra i 20 e i 24 anni, l’8% dei trentenni e il 5% trai i 35 e i 54 anni. Tra i bianchi di origine caucasica di 20-24 anni il tasso di disoccupazione si attesta attorno al 7%, mentre quello tra gli uomini di 45-54 anni è di circa il 3%. Queste percentuali dimostrano quanto una contrazione dell’economia possa influire sul benessere della comunità afroamericana e, di conseguenza, metterne in luce le fragilità strutturali. A preoccupare è soprattutto il tasso di disoccupazione tra gli under 35. Trattandosi di un gruppo sociale piuttosto vulnerabile dal punto di vista economico, le possibilità che i giovani possano subire contraccolpi psicologici in seguito a un licenziamento sono piuttosto concrete e rischiano di minare alle fondamenta le opportunità di questa categoria; un fatto che condannerebbe la popolazione afroamericana a un ulteriore indebolimento.

A confermare la subordinazione di questo gruppo sociale rispetto alla popolazione di origine europea sono i dati relativi al reddito annuo delle famiglie americane. Nel 2018 il 60% della popolazione afroamericana ha guadagnato meno di 50.000 dollari. Tra gli americani di origine caucasica, invece, la percentuale si attesta attorno al 40%. Il trend generale mette in luce un rapporto inversamente proporzionale: alla diminuzione del reddito corrisponde un aumento delle percentuali relative alla popolazione afroamericana. Il 31,8% delle famiglie composte da neri americani vive con meno di 25.000 dollari all’anno, mentre il 19,2% con meno di 15.000 dollari. Per i bianchi di origine caucasica le percentuali sono rispettivamente del 16% e dell’8,1%.

Questi dati fotografano un Paese in cui la minoranza afroamericana sembrerebbe essere quella più vulnerabile dal punto di vista economico e quella meno coinvolta nelle attività professionali più redditizie. Tutto ciò si traduce in una maggiore debolezza strutturale per l’intera comunità e sottintende una certa ritrosia, da parte dell’establishment americano, nell’agevolare l’ascesa, da un punto di vista socioeconomico, della minoranza afroamericana.

Il divario di reddito tra bianchi e neri si inserisce nel più ampio dibattito relativo all’aumento delle diseguaglianze negli Stati Uniti. Un’analisi del Pew Research Center riporta come, a prescindere dall’etnia, negli ultimi decenni il gap di ricchezza tra le famiglie meno abbienti e quelle più facoltose sia quasi raddoppiato. Se nel 1970 la differenza di reddito medio tra le famiglie caucasiche e afroamericane si aggirava intorno ai 23.700 dollari, nel 2018 tale valore si è attestato attorno ai 33.000 dollari.

Le famiglie più abbienti sembrerebbero essere le uniche ad aver goduto di un aumento del proprio reddito negli anni successivi alla Grande recessione. Il 20% delle famiglie più ricche d’America ha riscontrato un aumento dei profitti del 13%, mentre il reddito delle famiglie più povere è diminuito del 20%. Considerando che, secondo il U.S. Bureau of Labor Statistics, il 31,8% delle famiglie afroamericane vive con circa 2.000 dollari al mese, è ragionevole supporre che in quel 20% di famiglie più povere siano presenti molti nuclei familiari costituiti da neri americani.

Sebbene questi valori abbiano un rilievo puramente indicativo, sono di certo molto utili per comprendere come la mobilità sociale verso l’alto tenda a essere per lo più appannaggio della popolazione di origine europea. La disparità di reddito tra bianchi e neri, e il fatto che le famiglie statunitensi più povere siano costituite per quasi un 20% da afroamericani, determinano una situazione in cui l’essere di origine caucasica è un privilegio che va ben oltre l’estraneità agli atti di violenza e intolleranza nei confronti dei neri americani, poiché sottende una lunga serie di privilegi innati dei quali i bianchi sono spesso inconsapevoli. In una società fortemente liberale come quella americana, il semplice fatto di disporre di un reddito più elevato è una prerogativa che comporta una lunga serie di benefici: accesso alle migliori università, acquisizione di assicurazioni sanitarie e richiesta di prestiti bancari, solo per citarne alcuni.


Il divario etnico nel sistema universitario americano

L’accesso all’educazione terziaria gioca un ruolo fondamentale per le prospettive di sviluppo socioeconomico della popolazione afroamericana. La laurea rappresenta la porta d’accesso a professioni altamente qualificanti e, di conseguenza, a tassi di reddito più elevati. Malgrado negli ultimi venti anni si sia riscontrato, tra i giovani afroamericani, un aumento del numero di iscritti alle università, studi più recenti hanno dimostrato come all’interno del sistema universitario statunitense permanga un importante divario etnico.

Uno studio di Education Trust ha rilevato che nel 2018 la percentuale di afroamericani in possesso di una laurea triennale si aggirava attorno al 16%, per i latini al 13% e per i bianchi caucasici al 24%. Per di più, all’aumentare del livello di istruzione, si nota un corrispettivo incremento del divario etnico. Negli Stati Uniti, infatti, è in possesso della laurea magistrale il 10,7% dei bianchi e il 7% degli afroamericani, mentre ad aver ottenuto un dottorato nel 2018 sono stati 3.218 americani di origine europea e solamente 300 cittadini di origine africana. Se è vero che questi numeri potrebbero essere influenzati da fattori strettamente numerici – stando agli ultimi censimenti ufficiali, la minoranza nera e afroamericana rappresenterebbe il 13,4% della popolazione americana – a determinare il gap etnico nel sistema educativo statunitense concorrerebbero anche fattori di natura socioeconomica.

Un dato piuttosto interessante contenuto nello studio di Education Trust riguarda le percentuali di afroamericani che hanno completato l’istruzione universitaria all’interno dei singoli Stati. Nella metà di questi, la percentuale di neri americani laureati è al di sotto della media nazionale (30%) e non sorprende che il Sud sia la regione con i peggiori tassi di istruzione terziaria tra gli individui di origine africana. Nella Bible Belt – il cuore pulsante degli ex Stati Confederati che va dalle coste della Carolina del Nord fino ai deserti del Texas – nel biennio 2014-2015, Stati come la Louisiana, l’Arkansas e il Mississippi hanno registrato percentuali di laureati afroamericani al di sotto del 24,3%.

Tra i 10 Stati con il più basso numero di laureati afroamericani ne compaiono 7 in cui gli adulti di origini africana rappresentano il gruppo sociale più numeroso. In Louisiana e in Mississippi, per esempio, più del 30% della popolazione adulta è composta da neri americani. Questo dato, più di ogni altro, conferma come, negli Stati Uniti, l’esclusione sociale della minoranza afroamericana sia un fattore endogeno. Se in uno stato come la Louisiana il maggior numero di laureati si registra all’interno della minoranza bianca caucasica, significa che le possibilità di accesso all’istruzione terziaria sono determinate non tanto da fattori numerici, quanto da discriminanti socioeconomiche e pregiudiziali.

Ad ogni modo, non è possibile affermare perentoriamente che le condizioni sociali in cui versano gli afroamericani siano un freno al raggiungimento di un elevato livello di istruzione. È difficile stabilire se il mancato accesso all’università da parte di molti neri americani sia dovuto a questioni di natura economica o se l’arretratezza reddituale di questa minoranza etnica sia da far risalire agli inferiori livelli di istruzione; così come è difficile constatare se il ridotto accesso all’istruzione di terzo livello da parte degli afroamericani sia frutto dei preconcetti etnici che proliferano in determinati ambienti della società americana. Di certo, le modeste percentuali di laureati afroamericani all’interno di Stati a maggioranza nera sembrerebbero supportare l’idea che alla base dell’esclusione dei cittadini neri vi siano pregiudizi etnici radicati nella storia culturale americana. Qualunque sia la spiegazione, è inopinabile che il mancato raggiungimento di un’istruzione di terzo livello esponga la popolazione afroamericana a una vulnerabilità molto maggiore rispetto alla controparte caucasica, con notevoli conseguenze da punto di vista politico, economico, sociale e culturale.

Se il conseguimento di una laurea magistrale determina maggiori possibilità in termini professionali, l’accesso a un’istruzione di terzo livello finisce per configurarsi come un passaggio obbligato per la strutturazione della futura classe dirigente. In questo senso, un minor numero di laureati afroamericani rischia di determinare un problema di sotto-rappresentanza politico-istituzionale.

Difatti, osservando la composizione del Congresso degli Stati Uniti – l’organo legislativo del governo federale – il sospetto che la popolazione di origine africana sconti un problema di rappresentanza diventa piuttosto legittimo. Su un totale di 435 membri, sono solo 54 gli afroamericani eletti alla Camera dei rappresentanti, mentre al Senato, su un totale di 100 senatori, se ne contano solo tre. La questione si fa ancora più spinosa prendendo in considerazione i governatori degli Stati federati. A conferma di quanto scritto nelle righe precedenti, nessuno dei cinquanta governatori degli stati americani appartiene alla minoranza afroamericana. Un trend decisamente negativo che neanche gli otto anni di Barack Obama alla Casa Bianca sono stati in grado di invertire.


La minoranza afroamericana alla prova del virus

Prendendo in considerazione la sanità – altro pilastro dello stato sociale delle moderne società occidentali – è possibile notare come, in occasione della pandemia di COVID-19, in America si sia verificato un netto peggioramento delle condizioni sanitarie in cui versa la minoranza afroamericana. Nonostante fosse stato celebrato come un avvenimento destinato a dare un impulso decisivo al processo di livellamento sociale, stando agli ultimi dati ufficiali, l’emergenza coronavirus sembrerebbe aver colpito in maniera molto più drammatica la popolazione afroamericana.

Uno studio effettuato da APM Research Lab ha messo in evidenza il tasso di mortalità causato dalla COVID-19 tra i principali gruppi etnici della nazione, portando alla luce dati sconcertanti. Durante la pandemia, 1 afroamericano ogni 1.850 è morto per aver contratto il coronavirus; per latinoamericani e bianchi, invece, si è rispettivamente verificato 1 decesso ogni 4.000 e 4.400 individui. Il tasso di mortalità tra gli afroamericani è stato perciò 2,4 volte più alto rispetto ai bianchi e 2,2 volte più alto rispetto ai latinos. La giustificazione fornita dai membri dell’amministrazione Trump non fa che sottolineare quanto discriminazione, marginalizzazione e povertà possano aggravare la ferocia di un’epidemia virale. Secondo gli esperti della task force del tycoon, l’alto tasso di mortalità registrato tra gli afroamericani è da ricondurre alla presenza di patologie croniche come diabete, ipertensione e obesità; problematiche che spesso trovano origine in regimi alimentari di scarsa qualità, nella sedentarietà, nella depressione e nel consumo di tabacco, alcol e stupefacenti. Non a caso, uno studio del National Center for Biological Information ha riportato che gli afroamericani avrebbero il 51% di possibilità in più di diventare obesi rispetto agli americani di origine europea.

Fatalmente, il quarto stato più colpito dall’epidemia di COVID-19 è stata la Louisiana. New Orleans, città che ha registrato il più alto numero di contagi a livello statale, ha una popolazione composta al 60% da afroamericani, tra i quali si è registrata la percentuale di decessi più alta (70%) rispetto a tutti gli altri gruppi etnici. A Detroit, in cui l’80% della popolazione è composta da neri americani, sono stati registrati tassi di mortalità altissimi tra gli afroamericani, con il 40% dei decessi avvenuti in Michigan verificatisi proprio tra la popolazione nera di Detroit.

Ad aggravare le condizioni sanitarie delle minoranze statunitensi sono state, oltretutto, le difficoltà nel ricorrere al telelavoro. L’Economic Policy Institute ha calcolato che meno del 30% dei cittadini americani appartenenti alle minoranze nera e latinoamericana ha avuto la possibilità di lavorare da casa durante il lockdown. Ciò vuol dire che, nelle fasi più acute della pandemia, 4 afroamericani su 5 e 5 latinos su 6 hanno dovuto continuare a recarsi sul luogo di lavoro. È un dato, questo, che certifica in maniera incontrovertibile come negli Stati Uniti le minoranze etniche siano molto più esposte all’assenza di tutele rispetto alla popolazione di origine europea.

Tutti questi elementi concorrono a fornire l’immagine di un’America in cui a patire gli effetti della pandemia sono state le fasce della popolazione più disagiate. Di conseguenza, l’omicidio di George Floyd e le rivolte del movimento Black Lives Matter sono due episodi che non possono essere disgiunti dai decessi causati dalla COVID-19 tra gli afroamericani. Quanto sta accadendo tra le strade delle grandi metropoli americane è il risultato di un secolare processo di esclusione sociale divenuto sempre più intollerabile per una nazione chiamata a farsi portavoce globale degli ideali liberal-democratici. Da questo punto di vista, il coronavirus sembrerebbe aver determinato l’accelerazione dei conflitti che da 400 anni giacciono al cuore della società americana.


La marginalizzazione degli afroamericani è una questione culturale

Stando così le cose, non è possibile colpevolizzare una specifica fazione politica. L’esclusione sociale degli afroamericani è un problema di lungo corso che ha coinvolto, in modo più o meno omogeneo, tanto i repubblicani quanto i democratici, e che ha finito per definirsi sempre più come un problema di natura culturale piuttosto che politica. Ne è un esempio quanto avvenuto tra nordisti e sudisti in occasione della Guerra di secessione – conflitto scaturito, nel 1861, dalla dichiarazione di indipendenza degli Stati del Sud, decisi ad affrancarsi da un Nord sempre meno tollerante nei confronti della schiavitù.

Benché la vittoria dei nordisti venga spesso glorificata come uno dei momenti cardine nella lotta al razzismo, non è corretto affermare che la sconfitta dei Confederati abbia frenato lo sfruttamento degli afroamericani. L’abolizione della schiavitù ebbe come conseguenza l’istituzione di un regime di segregazione negli Stati del Sud e una progressiva migrazione verso nord da parte dei neri americani esclusi dal tessuto economico della Bible Belt. Quel che spesso viene taciuto, quando si affronta il discorso relativo all’abolizione della schiavitù, sono le conseguenze che essa ebbe negli Stati del Nord, dove la colossale espansione industriale condusse allo sfruttamento dei lavoratori afroamericani provenienti dagli stati meridionali: sottopagati, vincolati a coprifuoco e confinati all’interno di veri e propri ghetti – come quelli di Harlem e South Bronx a New York o Compton a Los Angeles.

Quanto avvenuto al sistema carcerario statunitense a partire dal 1980 rende l’idea di quanto la discriminazione razziale non sia un fatto esclusivamente politico. In seguito alla decisione dell’amministrazione Reagan di instaurare pene molto severe per reati non violenti legati alla droga, il numero dei detenuti afroamericani nelle carceri ha iniziato ad aumentare vertiginosamente. Con l’avvento del leader del Partito democratico Bill Clinton e l’introduzione del Violent Crime Control and Law Enforcement Act, l’inasprimento delle pene previste per i reati non violenti fu sottoposto a un ulteriore giro di vite e, dai circa 660.000 detenuti del 1980, si è passati agli attuali oltre 2 milioni di reclusi negli istituti di pena statunitensi – si stima che nel 2013 un quarto della popolazione carceraria mondiale fosse negli Stati Uniti.

Malgrado ciò, le riforme di Reagan e Clinton sembrerebbero aver avuto le conseguenze più significative soprattutto per la minoranza afroamericana. Su 2 milioni di detenuti, la metà è costituita da afroamericani. I neri hanno un tasso di incarcerazione 6 volte superiore rispetto a quello dei bianchi e, insieme ai latinoamericani, costituiscono il 58% dei detenuti americani. Una realtà che ha portato la stessa Hillary Clinton a criticare l’attuale gestione del sistema carcerario, giustificandolo, tuttavia, sulla base degli alti tassi di criminalità degli anni Ottanta e Novanta.

I numeri relativi alla presenza degli afroamericani nelle carceri gettano un cono d’ombra sull’operato delle amministrazioni repubblicane e democratiche degli ultimi quarant’anni – la staffetta Reagan-Clinton è, in questo senso, emblematica – e sottolineano, ancora una volta, le criticità di un sistema capace di modificare negativamente le traiettorie sociali degli afroamericani. Naturalmente, laddove la povertà regna sovrana si registrano elevati livelli di criminalità. Secondo un’analisi di CBS News, nel 2019, la seconda città statunitense per numero di crimini commessi è stata Detroit, che, con una popolazione costituita all’80% da cittadini di origine afroamericana, è risultata, come anticipato nei paragrafi precedenti, la città del Michigan con il più alto numero di decessi da COVID-19.

In questo senso, gli omicidi di cittadini di origine africana da parte delle forze di polizia appaiono come il risultato di un sistema socioculturale in grado di autoalimentare odio e discriminazione. Le inadeguate condizioni socioeconomiche in cui versa buona parte della comunità afroamericana contribuiscono a frenare l’ascesa sociale di questa minoranza etnica e ad alimentare l’intolleranza di tutti quei cittadini meno inclini ad accettare le diversità etniche. In parole povere, un peggioramento delle condizioni socioeconomiche della minoranza afroamericana rischia di tradursi sempre più in un aumento dell’intolleranza nei confronti della stessa. Per tutte queste motivazioni, si rende necessaria la pianificazione di interventi socioeconomici che possano assicurare ai cittadini afroamericani le stesse possibilità riservate a buona parte della società americana.

La recente proposta di ridurre i fondi per i dipartimenti di polizia e reindirizzarli alle comunità afroamericane per il miglioramento dei servizi potrebbe segnare un punto di svolta nel dibattito relativo al processo di integrazione razziale. L’idea di ridurre i fondi per la repressione della criminalità, con l’intento di destinarli al miglioramento dei servizi e dell’economia delle minoranze etniche, determinerebbe un approccio molto più solidale nei confronti delle fasce della popolazione più indigenti. Basterebbe ripercorrere gli ultimi cinquant’anni di storia americana per capire come il problema del razzismo e delle discriminazioni potrebbe essere parzialmente risolto attraverso un diverso impiego delle risorse a disposizione[1] . L’idea di destinare una parte dei fondi riservati alle forze di polizia per il miglioramento dei quartieri neri sarebbe un primo passo in avanti per cambiare una cultura incentrata più sull’esclusione che sull’integrazione della minoranza nera. Un miglioramento delle condizioni socioeconomiche degli afroamericani avrebbe conseguenze culturali positive per tutto il sistema istituzionale statunitense e priverebbe di ogni alibi i sostenitori delle più miserabili teorie razziste.

Un esempio molto interessante riguarda la presidenza Obama. Come recenti studi hanno rilevato, nei suoi otto anni alla Casa Bianca, Barack Obama si è impegnato a dare un importante impulso alla riduzione delle diseguaglianze. Con la sua riforma sanitaria – il tanto vituperato Obamacare – il 44° Presidente degli Stati Uniti d’America ha promosso un’estensione della copertura sanitaria per garantire l’aumento dei premi assicurativi, il mantenimento della protezione in seguito all’abbandono dei posti di lavoro, il divieto di negare le cure a chi ha contratto determinate malattie e l’ampliamento degli utenti del sistema sanitario pubblico – il Medicaid. Oltre a ciò, l’universalizzazione del servizio sanitario è stata accompagnata da altre misure per la riduzione delle disparità sociali, come l’introduzione di una certa progressività nel sistema di riscossione delle imposte e l’estensione delle indennità di disoccupazione.

Purtroppo, guardando all’America di oggi, viene spontaneo domandarsi se la presidenza Obama non sia stato solo il sogno di una notte durata otto anni. A Obama può essere contestato un atteggiamento troppo poco coraggioso nella lotta alle diseguaglianze, sebbene il peccato originale risieda nell’incapacità, da parte del Partito democratico, di rivolgersi a una platea di utenti molto più ampia rispetto a quella a cui si è rivolto l’ex presidente. Il passaggio di consegne tra Obama e Trump – un politico ciclicamente accusato di fomentare l’odio razziale e capace di affermare che la manovra di soffocamento della polizia sarebbe a volte inevitabile – è un avvenimento che l’establishment statunitense è chiamato a interpretare come un vero e proprio monito.

È difficile interpretare l’elezione del magnate di New York come un avvenimento avulso dagli otto anni di presidenza Obama. A quattro anni dall’elezione del tycoon, è possibile affermare che l’ascesa di Donald Trump trovi origine anche nel malcontento di un’America bianca, proletaria, esasperata dalla disoccupazione e spaventata dalla possibilità di veder crollare un modello secolare incentrato sulla subordinazione della minoranza afroamericana. Il terrore di perdere i privilegi acquisiti fin dalla nascita della nazione sembrerebbe intollerabile per una maggioranza abituata a considerare le differenze razziali alla stregua di un elemento naturale. Il che non fa che sottolineare quanto la marginalizzazione degli afroamericani sia un fatto di natura culturale eliminabile, per lo più, attraverso interventi di natura sociale che possano diminuire le disparità tra i vari gruppi etnici che compongono il popolo americano.

L’integrazione socioeconomica dei cittadini di origine africana potrebbe facilitare il progressivo abbandono di quel retaggio culturale ancora troppo influenzato dall’epoca schiavista e segregazionista, e tuttora sedimentato nella mentalità di fin troppi bianchi americani. In un Occidente sempre più minacciato da pulsioni antidemocratiche, e sempre più terra d’approdo per milioni di migranti africani e latinoamericani, gli Stati Uniti non possono concedersi il lusso di adottare un atteggiamento troppo morbido nei confronti del razzismo. L’assorbimento della cultura afroamericana non può più essere relegato ai soli mondi cinematografico e musicale, poiché casi di successo come quelli degli immigrati italiani, irlandesi, ebrei o giapponesi insegnano come l’accettazione di uno specifico gruppo etnico debba categoricamente passare attraverso un processo di integrazione socioeconomica.

Per fare ciò, l’establishment americano è chiamato ad ammettere che episodi come quello della White Lion sono elementi costitutivi della cultura statunitense. Fin quando l’America non sarà in grado di prendere atto che lo sbarco della Mayflower è intrinsecamente legato a quello del galeone partito un anno prima dalle coste dell’Angola, negli Stati Uniti continueranno a esserci decine e decine di George Floyd e l’eguaglianza sarà una questione strettamente legata al colore della pelle.

Alessandro Lugli per www.policlic.it


[1] D. Hawkins, K. Mettler e P. Stein, Il modo migliore per cambiare la polizia, in “Internazionale”, 1362 (2020), pp. 18-20.

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