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Introduzione
Gli anni Settanta furono un periodo fondamentale per l’Italia: da un lato, nel loro risvolto tragico, furono gli anni centrali della “strategia della tensione”, del terrorismo sia rosso che nero[1]; dall’altro, fu un decennio di forte trasformazione della società italiana.
Il cambiamento era cominciato a metà degli anni Sessanta, grazie al boom economico[2], ma di fattori ce ne furono anche altri: le grandi migrazioni interne, la maggiore istruzione, la crescita dei consumi privati[3]. Inoltre, presero forza vari movimenti all’interno della società italiana: quello femminista[4], quello per i diritti degli omosessuali[5] e infine il movimento studentesco del Sessantotto[6]. Le trasformazioni sociali furono assolutamente profonde, tant’è che Crainz ha potuto parlare di “grande trasformazione”, Vidotto di “nuova società”[7]. La classe politica, però, non fu pronta a intercettare le esigenze della rinnovata società italiana e rimase sostanzialmente indietro, incapace di adattarsi[8].
Nonostante ciò, in questo periodo furono varate importanti riforme: il decennio si aprì con l’approvazione della legge sul divorzio; nel 1975 fu riformato il diritto di famiglia; nel 1978 fu disciplinata l’interruzione volontaria di gravidanza[9]. Inoltre, già nel 1970 fu data piena attuazione alla Costituzione: furono istituite le Regioni[10] e venne emanata la legge che avrebbe consentito lo svolgimento dei referendum abrogativi. Questo è l’aspetto che ci interessa più da vicino.
Il referendum abrogativo in Italia
L’istituto del referendum abrogativo fu inserito sin dall’inizio in Costituzione, all’articolo 75[11], ma era necessaria una legge di attuazione ordinaria che ne regolasse in modo preciso il funzionamento[12]. Questa legge mancò per ben 22 anni, fino alla sua approvazione nel 1970[13]. Il ritardo è imputabile in particolar modo alla Democrazia Cristiana che, essendo il partito di maggioranza in Parlamento, era restia a mettere a disposizione delle opposizioni uno strumento che potesse in qualche modo disturbare gli equilibri politici scaturiti dalle elezioni. È bene evidenziare infatti che, specialmente nei casi in cui il governo è sostenuto da una coalizione di più partiti (come praticamente sempre è stato nella Prima Repubblica), “gli interventi diretti del corpo elettorale rischiano di turbare gli equilibri intrinsecamente precari perché fondati da accordi tra diverse forze politiche”[14].
E non si pensi che le opposizioni non fossero consapevoli di questi aspetti. Emerge anzi chiaramente, nelle dichiarazioni e nella stessa proposta di legge attuativa presentata nel 1948 dal socialista De Martino, che socialisti e comunisti avrebbero voluto usare l’arma del referendum per provare a mitigare in qualche modo il dominio della DC dopo il successo elettorale del 18 aprile 1948, cercando di raggiungere con il referendum risultati irraggiungibili in Parlamento[15].
Seguire tutta la vicenda relativa alla legge attuativa dell’articolo 75 ci porterebbe lontano dagli obiettivi dell’articolo stesso[16], ma è utile cercare di capire perché proprio nel 1970 si decise di rendere operativo l’istituto del referendum. Decisiva fu proprio l’approssimarsi dell’approvazione della legge sul divorzio. Dapprima la Chiesa con la CEI sin dal 1967, e poi sempre più anche la DC, resisi conto che sarebbe stato molto complicato evitare che la legge venisse approvata in Parlamento, cominciarono a vedere nel referendum abrogativo l’unica possibilità per salvare l’indissolubilità del matrimonio[17]. D’altra parte, la DC non era disposta a rischiare la tenuta del governo e dell’alleanza con i partiti laici, quindi si giunse a una sorta di compromesso: i democristiani, in Parlamento, non si sarebbero opposti in modo vigoroso al divorzio, ottenendo in cambio la legge attuativa sul referendum abrogativo, proprio per tentare di rispristinare l’indissolubilità del matrimonio[18].
L’approvazione della legge del 25 maggio 1970, n. 352, che pure aveva varie restrizioni (a puro titolo di esempio l’articolo 34 prevedeva che, nel caso in cui il Parlamento venisse sciolto, il referendum sarebbe stato sospeso e rimandato ad almeno un anno dopo le elezioni), fu un fattore per velocizzare il processo legislativo su temi sospesi da anni[19]. La forza del referendum fu compresa soprattutto, e prima di tutti, dal Partito Radicale, che in pochissimo tempo lo trasformò da arma nata per proteggere il sistema ad arma per attaccare il sistema stesso, sia la maggioranza democristiana, sia l’opposizione, non in grado, secondo i radicali, di cambiare o abolire leggi risalenti al periodo fascista, nonostante fossero passati quasi trent’anni dalla fine del regime[20].
Il referendum sul divorzio
Se immaginassimo di trovarci in edicola il 14 maggio 1974 vedremmo le prime pagine dei giornali tutte concentrate su ciò che era successo nei due giorni precedenti. Il “Corriere della sera” titolava sobriamente “I «no» hanno vinto col 59,1%. La legge sul divorzio non sarà abolita”. Anche “Il Popolo”, quotidiano della Democrazia Cristiana, presentava un titolo sobrio: “Il Paese si è pronunciato: 40,9% «sì» e 59,1% «no»”. Più trionfalistici, invece, i titoli dell’”Unità” e de “La Stampa”, rispettivamente “Grande vittoria della libertà” e “L’Italia è un paese moderno. Vince il NO, il divorzio resta”. Insomma, gli italiani furono chiamati a esprimersi per la prima volta tramite referendum il 12 e il 13 maggio 1974, per decidere se abrogare o meno la legge sul divorzio.
Di divorzio in Italia si parlava da tempi lunghissimi, basti considerare che la prima proposta per introdurre lo scioglimento del matrimonio è del 1878, e ce ne furono 11 tra quell’anno e il 1965, nessuna delle quali mai giunta a compimento[21]. Anzi, durante i dibattiti all’Assemblea Costituente il divorzio rischiò di essere dichiarato incostituzionale tramite la previsione dell’indissolubilità del matrimonio in Costituzione, cosa che non passò, ma soltanto dopo un vivace dibattito e solamente per un voto[22].
La questione fu sostanzialmente accantonata per quasi venti anni sia dalla maggioranza democristiana, sia dal Partito Comunista, con Togliatti che aveva una chiara visione della famiglia come base della società italiana, pur non considerando il matrimonio indissolubile[23].
Soltanto negli anni Sessanta qualcosa cominciò a muoversi, anche per i cambiamenti sociali che nel frattempo stavano avvenendo in Italia. Nel 1965, infatti, il deputato socialista Loris Fortuna presentò una proposta di legge che consentiva e regolamentava il divorzio, ricevendo un’accoglienza tiepida da parte dei comunisti e ostile da parte cattolica e democristiana[24]. Non c’è lo spazio in questa sede per trattare il complicato iter legislativo che ebbe la legge Fortuna, la quale dal 1968 divenne Fortuna-Baslini[25] (dal nome del liberale Baslini, che presentò anch’egli una proposta sul divorzio, presto accorpata a quella di Fortuna), ma occorre rilevare che sin dal 1967 la gerarchia ecclesiastica (in particolar modo la Conferenza Episcopale Italiana), gli intellettuali cattolici e dal 1969 anche la Dc, cominciarono a pensare all’idea di proporre, nel caso la legge venisse approvata, un referendum abrogativo sulla stessa[26].
E infatti, non appena la legge venne approvata in via definitiva alla Camera il 1° dicembre 1970 al termine di una seduta parlamentare tra le più lunghe della storia repubblicana[27], venticinque personalità della scienza e della cultura cattoliche espressero la volontà di raccogliere le firme per tentare di abrogare la legge tramite un referendum, nella convinzione che l’introduzione del divorzio non corrispondesse alla volontà della maggioranza dei cittadini italiani[28]. Promotore di questa iniziativa, che di lì a poco si costituirà nel Comitato Nazionale per il Referendum sul Divorzio (CNRD), era Gabrio Lombardi, uno studioso di diritto, cattolico, convinto sostenitore dell’indissolubilità del matrimonio non per il suo carattere sacramentale, ma per la valenza sociale e giuridica che esso aveva, tant’è che si opponeva al divorzio anche in tema di matrimonio civile[29].
Come fu per la legge, anche il referendum (per il quale già nel giugno 1971 erano depositate più di un milione e trecentomila firme[30]) ebbe un iter travagliato. Esso fu subito dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale[31] ma nessuna delle forze in campo voleva che avesse luogo: non i democristiani, alcuni dei quali consideravano la consultazione referendaria un suicidio elettorale; non i partiti laici, né i comunisti, timorosi invece di una vittoria del sì; e nemmeno la Chiesa, che stava tenendo un atteggiamento cauto e timoroso[32]. Proprio per questo, partirono immediatamente contatti e trattative tra i partiti (in special modo tra DC e PCI) e tra i partiti e la Chiesa con l’obiettivo di mettere mano alla legge e far cadere il referendum, o, con lo stesso fine, di inserire il divorzio nelle trattative per la revisione del Concordato[33]. Alla fine, nel febbraio del 1972, per la prima volta in Italia si sciolsero anzitempo le Camere e si fissarono per il maggio successivo le elezioni. Il referendum, che doveva tenersi in giugno dovette, con il dispiacere di pochi, essere rinviato[34].
Per tutto il 1973 continuarono timidi tentativi di evitare il referendum. Solo a inizio 1974 la DC si convinse dell’inevitabilità del voto[35], anzi, il suo segretario Fanfani ne divenne acceso sostenitore. Egli pensava che questa fosse l’occasione per la DC di sconfiggere i partiti di sinistra e tornare a essere la dominatrice della scena politica italiana, convinto di una vittoria raggiungibile grazie al conservatorismo della società italiana, all’influenza della Chiesa e al voto delle donne[36]. Era favorevole all’abrogazione della legge anche il Movimento Sociale Italiano, mentre erano contrari i radicali, i socialisti, i repubblicani e i socialdemocratici. I comunisti, che non avevano mai voluto il referendum, divenuto inevitabile si impegnarono per il no, mentre i liberali lasciarono libertà di coscienza ai loro elettori[37]. La Chiesa, invece, rimase fino alla fine titubante e divisa: la presa di posizione del Vaticano per il no fu abbastanza tardiva, e non furono rarissime le defezioni nella gerarchia ecclesiastica rispetto alla linea dettata da Roma[38].
La campagna referendaria fu caratterizzata da toni molto accesi: Fanfani mise in guardia i mariti che le loro mogli sarebbero potute scappare con la domestica[39], mentre i gesuiti vedevano nel divorzio l’anticamera a un crollo morale della società caratterizzato da droghe, pornografia e omosessualità[40]; Almirante affermò che votare no significava votare con le Brigate Rosse, la cui attività in quel periodo aveva preso particolare vigore[41]; dall’altra parte, i comunisti esortavano a non votare come i fascisti dell’MSI[42]. Non vennero, però, usati argomenti religiosi: i sostenitori del sì impostarono piuttosto una campagna volta a evidenziare quelli che per loro erano i rischi sociali, civili e addirittura igenico-sanitari del divorzio[43]. Grande attenzione fu inoltre data all’elettorato femminile, sul quale i sostenitori del sì puntavano molto per la vittoria finale, ma che invece si comportò in modo pressoché analogo a quello maschile[44].
I risultati sorpresero molti, nonostante i sondaggi avessero fotografato abbastanza bene la situazione[45]. Il no si impose con il 59,1% dei voti, mentre il sì si fermò al 40,9%[46]. In totale, rispetto alle politiche del 1972, i partiti del sì persero il 6,6% dei voti, mentre il fronte del no guadagnò 8 punti percentuali[47]. Mentre, come detto, donne e uomini si comportarono sostanzialmente in modo analogo, possono essere fatte altre considerazioni: i giovani erano mediamente più favorevoli al divorzio degli adulti e degli anziani[48], così come i sostenitori del no aumentavano all’aumentare del livello di istruzione[49]; il divorzio, inoltre, incontrava maggior favore nei grandi centri abitati rispetto alla campagna e ai piccoli centri[50]; sul fronte dei partiti la base più divorzista sembra essere stata quella comunista, anche più di quella dei partiti laici; nettamente antidivorzista era invece la base democristiana[51]. Geograficamente, fu nel nord che il no dominò incontrastato, mentre al sud i risultati furono meno netti e in alcune regioni prevalse addirittura il sì, seppur di poco[52].
Il referendum ebbe delle conseguenze politiche. Anzitutto Fanfani pagò l’errore di calcolo con le dimissioni da segretario della DC[53]; inoltre, sembrava che l’asse della politica italiana potesse spostarsi decisamente a sinistra, come fecero pensare le elezioni amministrative del 1975 e, in parte, quelle politiche del 1976[54]. La spiegazione politica, però, non è sufficiente per capire i risultati del referendum. La realtà è che la società italiana non era più quella degli anni Cinquanta e quei risultati, che sorpresero molti, sancirono una situazione già esistente: dimostrarono che la società italiana aveva preso la via dell’integrazione con i valori della società europea[55]; inoltre, fu proprio quel referendum ad affermare in modo netto il principio della laicità dello Stato[56] e a sancire una sconfitta per la Chiesa, tanto che papa Paolo VI poté parlare di una “nuova Porta Pia”.
I referendum sull’aborto
A differenza del divorzio, del quale, come visto, già si parlava nel periodo liberale, la discussione sull’aborto in Italia è molto più recente. Solo negli anni Sessanta del Novecento, infatti, l’aborto cominciò a divenire un tema all’ordine del giorno nel dibattito pubblico italiano, con almeno un decennio di ritardo rispetto alla maggior parte dei Paesi europei del blocco occidentale[57].
In Italia l’interruzione volontaria di gravidanza era considerata dalla legge un reato penale: il codice Rocco del 1931, ancora in vigore per alcune parti, collocava l’aborto tra i delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe[58] ed era punibile con il carcere[59]. Questo, però, non riusciva a evitare il ricorso all’aborto clandestino, molto rischioso per la vita stessa della donna che vi ricorreva[60]. Sul punto fece particolare scalpore il numero di “Noi donne” (rivista dell’UDI[61]) del febbraio 1961, nel quale era pubblicata una coraggiosa inchiesta secondo la quale ogni cento gravidanze regolari, ce ne erano cinquanta che venivano interrotte con pratiche non raramente mortali. Sicuramente non aiutava il fatto che la contraccezione nell’Italia degli anni Sessanta era ancora illegale: sarà solo nel 1971 che una sentenza della Corte Costituzionale (una volta di più in anticipo sul Parlamento) legalizzò la pillola anticoncezionale[62].
Se la situazione era questa, si dovette aspettare l’inizio degli anni Settanta perché qualcosa si mosse, in particolar modo grazie al crescente movimento femminista e all’attività del Partito Radicale. In quel periodo nacque infatti il Movimento di liberazione della donna (Mld, presto federatosi al Partito Radicale), e cominciarono a esserci anche le prime manifestazioni di piazza a favore dell’aborto[63] al grido dello slogan (efficace e destinato a durare) il corpo è mio e lo gestisco io.
Finalmente cominciò a muoversi anche il Parlamento. Dopo i primi tentativi del 1971[64], nel 1973 sarà ancora una volta il socialista Loris Fortuna a proporre una legge che regolamentasse l’aborto, secondo la quale era possibile interrompere la gravidanza a insindacabile giudizio del medico, qualora ci fossero stati rischi per la salute fisica o psichica della madre, o rischi di malformazioni fisiche o mentali per il nascituro; era inoltre prevista l’obiezione di coscienza[65]. La proposta, però, non aveva la maggioranza in Parlamento, anzi, solo il Partito Repubblicano si accodò ai socialisti[66], mentre mantennero un atteggiamento estremamente cauto i comunisti (che non volevano compromettere l’avvicinamento alla Democrazia Cristiana) e la stessa DC[67]. Per quanto riguarda la Chiesa, la sua posizione era già stata espressa nel 1968 con l’enciclica Humanae vitae, con la quale Paolo VI aveva condannato non solo l’aborto, ma anche i metodi contraccettivi[68].
Tra il 1973 e il 1978 mentre in Parlamento avanzava faticosamente la legge sull’aborto[69], la società civile non si era fermata: già nel 1973 a Milano era nato il Cisa[70], fondato dalle radicali Adele Faccio ed Emma Bonino[71]; nel 1975 “l’Espresso”, la “Lega 13 maggio” e l’Mld lanciarono la raccolta firme per un referendum che abrogasse le leggi penali sull’aborto[72]; in quello stesso anno, a seguito di una denuncia del deputato missino Pisanò, i leader radicali Pannella, Bonino, Faccio e Spadaccia furono arrestati con le accuse di associazione a delinquere e procurato aborto[73].
Dopo un intricato percorso parlamentare, e sotto la scure di un referendum radicale previsto per il giugno successivo, nel maggio 1978 fu approvata la legge 194, disciplinante l’aborto.
Come accaduto per il divorzio, immediatamente dopo l’approvazione della legge ci si mosse per proporre referendum abrogativi. In questo caso c’era una novità: le proposte di referendum erano tre. Da un lato c’era quella del Partito Radicale, che mirava ad abolire una serie di articoli della legge 194, con l’obiettivo di liberalizzare completamente l’aborto. Nell’altro campo, invece, c’erano le due proposte del Movimento per la vita: una “massimale”, volta ad abolire tout court la legge 194; l’altra “minimale”, che invece mirava a limitare il ricorso all’aborto ma non a impedirlo completamente. In seguito alla bocciatura della proposta “massimale” da parte della Cassazione, il mondo cattolico si presentò alla prova referendaria sostenendo la proposta “minimale”[74].
Le posizioni in campo ricalcarono in massima parte quelle già viste in occasione del referendum sul divorzio, con minime differenze: il fronte laico, in particolare, registrò la defezione dei radicali che sostenevano il no al referendum del Movimento per la vita, ma il sì al referendum da loro proposto; repubblicani, liberali e socialdemocratici si schierarono per un duplice no, ma lasciarono libertà di coscienza ai loro iscritti; la Democrazia Cristiana appoggiò il referendum del Movimento per la vita, ma chiarì sin da subito che non era disposta ad assumersi l’onere della campagna referendaria[75]. Come visto, invece, il Partito Comunista ebbe per lungo tempo un atteggiamento molto cauto e prudente, ma alla resa dei conti si schierò per un duplice no[76].
Il voto si tenne il 17 e il 18 maggio 1981, e vide la bocciatura di entrambe le proposte: sia quella del Partito Radicale con l’88,5% di no, sia quella del Movimento per la vita, con il 67,9% di no[77], con percentuali tutto sommato omogenee su tutto il territorio nazionale.
A differenza del divorzio, che non fu mai più messo in discussione[78], il diritto all’aborto è ancora oggi un diritto che di tanto in tanto deve difendersi da offensive reazionarie e proibizioniste. Si può ricordare, come uno degli ultimi eventi in questo senso, il Congresso delle Famiglie tenutosi a Verona nel 2019 – al quale parteciparono anche alcuni ministri leghisti del primo governo Conte – dove ci si scagliò ripetutamente contro l’aborto, e durante il quale venne distribuito un raccapricciante e macabro gadget rappresentante un feto di plastica. Non è solo in Italia a essere così così delicata la situazione. È infatti notizia di questi giorni della morte della giudice liberal della Corte Suprema statunitense Ruth Bader Ginsburg. Una delle preoccupazioni maggiori dei movimenti per il diritto all’aborto statunitensi è che, se Donald Trump dovesse riuscire a nominare un giudice conservatore prima delle elezioni (o anche dopo in caso di vittoria) la possibilità di ricorrere all’aborto potrebbe essere messa seriamente a rischio.
Conclusioni
L’istituto del referendum abrogativo è stato utilizzato in Italia ben 67 volte, per la maggior parte delle quali, 39, fu raggiunto il quorum, cosa non avvenuta nelle altre 28. La tendenza però è quella di una diminuzione dell’importanza del referendum abrogativo, come testimonia il fatto che, se fino al 1995 in soli 3 casi non è stato raggiunto il quorum, dal 1997 a oggi sono state solo 4 le consultazioni referendarie alle quali ha partecipato più del 50% del corpo elettorale[79].
Emanuele Del Ferraro per www.policlic.it
Note e riferimenti bibliografici
[1] Per la “strategia della tensione” e il terrorismo in Italia si veda A. Ventrone, La strategia della paura. Eversione e stragismo nell’Italia del Novecento, Milano, Mondadori, 2019.
[2] F. Balestracci, Il PCI, il divorzio e il mutamento dei valori nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, in Studi storici, 2013, n. 4, Fondazione Istituto Gramsci, p. 990.
[3] Ivi, p. 991.
[4] Ibidem.
[5] G. Scirè, Il divorzio in Italia: Partiti, Chiesa e società civile dalla legge al referendum (1965-1974), Milano, Bruno Mondadori, 2007, p. 10.
[6] M. Gotor, L’Italia nel Novecento: dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon, Torino, Einaudi, 2019, pp. 228-238.
[7] F. Balestracci, op. cit., p. 990.
[8] N. Tranfaglia, Parlamento, partiti e società civile nella crisi repubblicana, in Studi storici, 2001, n. 4, Fondazione Istituto Gramsci, p. 834.
[9] G. Crainz, L’Italia repubblicana, in AA.VV. Storia contemporanea, Roma, Donzelli, 1997, p. 518.
[10] Per la nascita delle Regioni si veda G. Melis, Storia dell’amministrazione pubblica italiana (1861-1993), Bologna, Mulino, 1996, pp. 491-495.
[11]“E` indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.
Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.
Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati a eleggere la Camera dei deputati.
La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.
La legge determina le modalità di attuazione del referendum.”
[12] J. Ryngaert, Le référendum d’initiative populaire en Italie: une longue traversée du désert. In: Revue française de science politique, 32ᵉ année, n°6, 1982, p. 1026.
[13] V. testo completo della l. 25 maggio 1970, n. 352.
[14] A. Mattioni, Considerazioni sul referendum nella organizzazione costituzionale, in Il Politico, vol. 44, n. 3, 1979, Rubbettino, p. 498.
[15] P. Armaroli, (1974). Referendum abrogativo e classe politica, in Italian Political Science Review/Rivista Italiana Di Scienza Politica, vol. 4, n. 3, 1974, p. 563.
[16] Ivi pp. 561-587.
[17] G. Scirè, op. cit., pp. 33 e 36.
[18] P. G. Grasso, La questione del divorzio nell’evoluzione del diritto costituzionale, in Il Politico, vol. 45, n. 4, 1980, Rubbettino, p. 605.
[19] J. Ryngaert, op. cit., p. 1035.
[20] Ivi, p. 1034.
[21] F. Lussana, Famiglia e indissolubilità del matrimonio nel dibattito all’Assemblea costituente, in Studi storici, 2014, anno 55, n. 2, Fondazione Istituto Gramsci, p. 519.
[22] Per tutto il dibattito all’Assemblea costituente sull’indissolubilità del matrimonio, si veda Ivi, pp. 495-519.
[23] F. Balestracci, op. cit., p. 996.
[24] G. Scirè, op. cit., p. 27.
[25] Ivi, p. 37.
[26] Ivi, pp. 33, 53 e 55.
[27] G. Scirè, op. cit., p. 79.
[28] R. Pertici, La ragione degli altri: Gabrio Lombardi e la questione del divorzio, in Ventunesimo secolo, 2010, vol. 9, n. 22, Rubbettino, p. 9.
[29] Per la figura di Lombardi e le sue idee in tema di divorzio, si veda Ivi, pp. 9-35.
[30] Ivi, p. 90.
[31] G. Scirè, op.cit., p. 85.
[32] Ivi, pp. 95-97.
[33] Ivi, p. 83.
[34] Ivi, p. 120.
[35] Ivi, p. 143.
[36] J. Ryngaert, op. cit., p. 1031.
[37] G. Scirè, op. cit., p. 153.
[38] Ivi, pp. 153-154.
[39] M. Gotor, op. cit., p. 281.
[40] G. Scirè, op. cit., p. 1.
[41] M. Gotor, op. cit., p. 281.
[42] G. Scirè, op.cit., p. 172.
[43] P. G. Grasso, op. cit., p. 608.
[44] Per l’attenzione data alle donne durante la campagna referendaria e il comportamento dell’elettorato femminile nel voto, si veda D. Memmi, Le divorce et l’italienne: Partis, opinion féminine et référendum du 12 mai 1974, in Revue d’histoire moderne et contemporaine, 1983, vol. 30, n. 3, Societe d’Histoire Moderne et Contemporaine, pp. 476-509.
[45] A. Marradi, Analisi del referendum sul divorzio, in Italian Political Science Review/Rivista Italiana Di Scienza Politica,1974, vol. 4, no. 3, p. 599.
[46] G. Scirè, op. cit., p. 175.
[47] Ibidem.
[48] A. Marradi, op. cit., pp. 605-606.
[49] Ivi, p. 606.
[50] Ivi, p. 607.
[51] Ivi, pp. 612-613.
[52]Per un’analisi provincia per provincia del voto, si veda anche A. Marradi, op. cit., pp. 626-636.
[53] N. Tranfaglia, op. cit., p. 832.
[54] Anche se, in questo caso, i partiti del sì riguadagnarono la metà dei voti persi nel 1974, v. D. Memmi, op. cit., p. 491.
[55] Ivi, p. 509.
[56] P. G. Grasso, op. cit., p. 615.
[57] G. Scirè, op. cit., p. 134-35.
[58] L’interruzione volontaria di gravidanza in Italia: Un quadro socio-demografico e sanitario dalla legge 194 ad oggi, ISTAT, 1997, Roma, p. 7.
[59] G. Scirè, op. cit., p. 137.
[60] Ivi, p. 138.
[61] Unione Donne Italiane.
[62] G. Scirè, op. cit., p. 137.
[63] A. Iacarella, Breve ricostruzione storica dell’approvazione della legge n. 194 del 1978. Dall’avvio del dibattito culturale ai referendum del 1981, pp. 2-3.
[64] Ivi, p. 3.
[65] Ibidem.
[66] Ibidem.
[67] G. Scirè, op.cit., p. 141.
[68] Ivi, p. 136.
[69] Per l’iter parlamentare si rimanda a A. Iacarella, op. cit.
[70] Centro di informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto.
[71] G. Scirè, op. cit., p. 140.
[72] A. Iacarella, op. cit., p. 4.
[73] Ibidem.
[74] G. Perico, I referendum sull’aborto, 1981, p. 572.
[75] Si veda A. Macchi, Le varie posizioni di fronte ai referendum sull’aborto, 1981.
[76] G. Scirè, op. cit., p. 141.
[77] A. Iacarella, op. cit., p. 11.
[78] E. Quadri, La riforma del divorzio, in Il Foro italiano, 1985 vol. 108, n. 6, Società Editrice Il Foro italiano, p. 142.
[79] Sono stati i 4 referendum del 2011 sul nucleare, il legittimo impedimento e il servizio idrico. I dati sono desunti da https://elezionistorico.interno.gov.it/index.php?tpel=F.