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Mafia e politica: le origini di un legame disastroso
Le vicende che interessano i fenomeni storici e culturali influenzano necessariamente quelli giuridici. Ciò in quanto il diritto, in special modo quello penale, non può mai prescindere da un costante riferimento al dato fattuale nella definizione dell’assetto normativo. In questi termini, il rapporto tra mafia e politica che ha ispirato importanti approcci riformatori nel corso degli ultimi decenni ha alla base il fondamentale mutamento delle vesti assunte dalle consorterie mafiose.
La nostra epoca, a partire dagli anni Settanta, ci restituisce un’immagine del modello mafioso ben distante da quello di matrice “rurale”, ancorato a un primordiale schema parassitario volto a esercitare forme estorsive di racket nei confronti della popolazione di una determinata zona.
È infatti a partire da questo periodo che la mafia si fa impresa e comincia a infiltrarsi nell’imprenditoria e nelle dinamiche economiche, iniziando a comprendere di doversi collocare nei contesti veicolanti forme importanti di ricchezza per raggiungere i propri scopi. Da qui, appunto, si è assistito all’infiltrazione delle associazioni mafiose nelle gare d’appalto, nelle dinamiche edilizie e nei vari settori dell’economia, che ha consacrato il legame della mafia con i poteri locali e, quindi, con il territorio. Tutto ciò a testimonianza di quanto il fenomeno mafioso, quale unicum italiano nel panorama mondiale, sia stato in grado di plasmarsi e adattarsi ai mutamenti al fine di restituire un’immagine di sé più forte e resistente.
È proprio questa la base da cui trae origine la geniale intuizione dei magistrati del maxiprocesso inaugurato nel 1985, primi tra tutti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Questi ultimi hanno compreso che per perseguire le dinamiche mafiose e, prima ancora, individuarne i meccanismi di funzionamento e i settori d’intervento, sarebbe stato necessario seguire i flussi economici intervenendo anche mediante misure di matrice patrimoniale (prima tra tutte la confisca, in particolare quella di prevenzione, tanto preziosa e oggetto di dibattiti sul piano della compatibilità con i principi costituzionali)[1]. Ebbene, è evidente come il passaggio dall’inserimento nelle dinamiche di mercato al subentro in quelle politiche il passo è breve[2]. I vertici delle consorterie mafiose, in particolare a partire dagli anni Settanta-Ottanta, comprendono come il legame con il territorio non possa prescindere da una collaborazione con le controparti civili, con le rappresentanze di interessi e con chi si fa portavoce delle esigenze collettive.
La contiguità politico-mafiosa con l’economia e la politica ha, quindi, influenzato a livello di politica criminale gli approcci volti a contrastare tali fenomeni. In via puramente descrittiva può dirsi che queste esigenze hanno dato una spinta importante, da una parte, alla costruzione, tutta giurisprudenziale, del fenomeno del “concorso esterno in associazione mafiosa” al fine di contrastare le collusioni dei mafiosi con l’imprenditoria, dall’altra, alla creazione della fattispecie del “patto elettorale politico-mafioso” per rispondere in maniera significativa al legame delle consorterie con i rappresentanti locali e centrali. Ed è su questi aspetti, dunque, che risulta necessario soffermarsi per comprendere appieno le dinamiche e le risposte che l’ordinamento ha cercato di fornire nel faticoso contrasto alla mafia.[3]
Un istituto tutto giurisprudenziale: il concorso esterno in associazione mafiosa
Per porre uno strumento di lotta effettiva contro fenomeni associativi di tipo mafioso, il nostro ordinamento, nel 1982, ha introdotto il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso.
Come generalmente avviene quando si vuole incriminare l’intrinseca pericolosità della delinquenza aggregata e organizzata, soprattutto quando la stessa si propone di porre in essere delitti lesivi di diritti fondamentali per la persona e per la stabilità dell’ordinamento giuridico, la fattispecie di cui all’articolo 416-bis c.p. si configura come un reato di pericolo astratto. Ciò implica, in sostanza, che il disvalore della condotta degli agenti si sostanzia nella semplice conclusione di un patto, posto in essere con il fine specifico di organizzarsi per commettere una serie di reati funzionali a perseguire lo scopo per cui la stessa associazione è nata. La particolarità della fattispecie in esame, rispetto al reato di cui all’articolo 416 c.p., si rinviene nell’elemento specializzante dell’utilizzo del metodo mafioso, che colora la fattispecie di un maggior disvalore derivante dall’effetto d’intimidazione e di omertà che ne scaturisce.
Ben evidente è come
mentre l’art. 416bis verrebbe a coprire un’area che – anche se non coincidente con i modelli di mafia e camorra perché dilatabile attraverso il suo ultimo comma – sarebbe contrassegnata da organizzazioni omogenee nello sfruttamento del metodo mafioso descritto dal terzo comma, l’art. 416, in quanto norma non univocamente riferibile alla criminalità organizzata, ma “polarizzabile in quella direzione”, sarebbe deputato a reprimere quei sodalizi criminali che sfuggono agli elementi definitori dell’art. 416bis[4].
A ben vedere, tuttavia, l’infiltrazione delle cosche mafiose nelle dinamiche politiche ed economiche ha dato vita a una parziale distorsione dei requisiti propri della fattispecie di cui all’articolo 416-bis. In pratica, il grado di pervasività raggiunto dai sodalizi mafiosi in variegate realtà territoriali, la loro ramificazione nei contesti politici ed economici e, di conseguenza, il loro grado di compenetrazione nella società, ha determinato un affievolimento del “metodo mafioso” quale modus operandi tipico di tali associazioni criminose così come previsto nella norma. E ciò in quanto, a prescindere dall’uso della violenza e dell’intimidazione, la gestione di capitali praticamente inesauribili e il loro impiego in attività lecite o illecite ha reso agevoli i rapporti con la pubblica amministrazione e con i centri di potere in genere, al punto che l’effetto intimidatorio è diventato quasi in re ipsa al cospetto dell’agire dei soggetti appartenenti a tali realtà associative. In questi casi, quindi, non è più necessaria l’esplicazione di forme di minaccia, violenza o intimidazione in senso “classico” proprie del “metodo mafioso” per raggiungere gli scopi della cosca.
Quello che preme evidenziare in questo lavoro è, tuttavia, il ruolo assunto da tutta una serie di soggetti che gravitano attorno alle cosche mafiose pur non essendo a esse legati mediante la cosiddetta affectio societatis, ossia quel senso di appartenenza tale per cui si opera dall’interno dell’associazione facendone consapevolmente parte e condividendone gli ideali[5]. Si tratta, nello specifico, di tutti i soggetti di cui le stesse associazioni criminose di questo tipo da sempre si avvalgono al fine di penetrare all’interno della realtà economica, politica e sociale del paese perseguendo scopi propri. In particolare, il riferimento è agli operatori economici, ai pubblici ufficiali, agli amministratori pubblici, i quali, prestando le proprie energie a favore delle cosche mafiose, mediante favori, forme di supporto e sostentamento, non fanno che incrementarne il potere.[6]
Queste forme di collaborazione “esterna” determinano, talvolta, l’integrazione di autonome fattispecie di reato. Pensiamo, a tal fine, al pubblico ufficiale che spende la propria funzione per “fare un favore” al mafioso. In questo caso, tali condotte sono autonomamente perseguibili mediante specifiche fattispecie di reato, come quelle di natura corruttiva. Ciononostante, a partire dagli anni Ottanta, la giurisprudenza ha cominciato a comprendere come fosse necessario l’utilizzo di uno strumento “generale” che fosse in grado di punire adeguatamente le condotte di tali soggetti, assoggettandoli, in via generale, a quanto previsto dall’articolo 416-bis c.p., prescindendo dall’integrazione di altre fattispecie di reato “specifiche”.
Per fare ciò la giurisprudenza ha iniziato a riconoscere la configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa, mediante il quale è stata avallata la possibilità di applicare l’istituto del concorso di persone ai reati associativi[7].
Il grimaldello mediante il quale garantire la “copertura sanzionatoria” in esame non sarebbe potuto che essere, infatti, proprio la fattispecie di cui all’articolo 110 c.p., ossia la norma che disciplina, in termini generali, il concorso di persone nel reato.
Per lungo tempo, l’ammissibilità del concorso di persone nelle fattispecie associative in generale e, in particolare, nel reato di cui all’articolo 416-bis era stata esclusa; e ciò sulla base di un’asserita impossibilità di differenziare il contributo dell’intraneus rispetto a quello del concorrente esterno. Tale deficit di tassatività avrebbe comportato, inevitabilmente, degli esiti ingiustificati sul piano del principio di uguaglianza e prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie derivanti dalla propria condotta[8]. D’altro canto, secondo questa tesi la condotta dell’extraneus nel reato associativo sarebbe stata già pienamente perseguibile in maniera esaustiva dalle norme volte a sanzionare il profilo di illiceità specifico realizzato dal concorrente esterno (ad esempio mediante la fattispecie di favoreggiamento personale, di cui all’articolo 378 c.p.)[9].
Tuttavia, ad oggi, è ormai netta e prevalente la tesi volta a sostenere l’ammissibilità del concorso esterno e la possibilità di far rientrare il contributo agevolativo dell’estraneo nel reato associativo proprio mediante lo strumento del concorso di persone. Tale conclusione, peraltro, non deriverebbe dall’intervento creativo della giurisprudenza ma, semplicemente, dall’applicazione dei principi generali in materia di concorso di persone: in pratica, prevedendo l’articolo 110 c.p. una clausola generale, la stessa sarebbe applicabile anche al reato associativo del concorso esterno in associazione mafiosa. A questo approdo si è pervenuti sulla base di numerose pronunce della Corte di Cassazione a Sezioni Unite che hanno validato tale impostazione[10].
Nel valorizzare l’assunto dell’ammissibilità del concorso esterno, la Suprema Corte ha sostenuto che, sia l’elemento materiale del reato, sia quello soggettivo, propri della posizione del concorrente esterno, non possano essere in alcun modo accostati all’apporto fornito dal partecipe dell’associazione, e che quindi non vi sia sovrapponibilità tra i contributi e tra gli atteggiamenti psicologici.
Infatti, da un punto di vista oggettivo l’extraneus fornisce sì un sostegno in grado di recare delle utilità all’associazione, ma lo fa pur sempre dall’esterno, in assenza di quella compenetrazione nelle trame della cosca. Quest’ultimo, in particolare, lungi dall’entrare a far parte dell’associazione in maniera stabile, apporta delle utilità alla stessa, in maniera più o meno frequente, ma pur sempre mediante un’azione realizzata dall’esterno, non avvalendosi della forza derivante dal pactum sceleris[11].
Anche dal punto di vista dell’elemento soggettivo, l’approccio con cui il concorrente esterno pone in essere il reato non è accostabile a quello dell’appartenente alla cosca mafiosa. A partire dalla sentenza resa sul caso Carnevale[12], in particolare, la giurisprudenza ha ritenuto che l’elemento psicologico del concorrente esterno debba consistere nella consapevolezza di recare un contributo idoneo ad agevolare l’associazione e il perseguimento dei suoi scopi, ma in assenza, tuttavia, di quella affectio societatis propria degli intranei, ossia della consapevolezza di far parte dell’associazione e dell’agire da esponente della stessa[13].
Infine, rilevante risulta essere anche l’elemento dell’efficacia causale del contributo del concorrente esterno. Per rispondere del reato di cui all’articolo 416-bis mediante la clausola di cui all’articolo 110 c.p., è necessario, secondo la giurisprudenza più recente, che il contributo fornito da costui abbia materialmente agevolato il perseguimento degli scopi dell’associazione. In pratica, dunque, bisognerà utilizzare il noto criterio dell’efficacia causale con giudizio ex post, in base al quale per valutare la sussistenza del contributo penalmente rilevante non sarà sufficiente che l’estraneo abbia “dato una mano” alla cosca mafiosa, ma dovrà appurarsi che il contributo fornito si sia rivelato, alla fine, utile per i partecipanti[14].
Le tormentate evoluzioni del patto elettorale politico-mafioso
Al fine di contrastare efficacemente le collusioni tra cosche mafiose ed esponenti della politica nazionale e locale, il legislatore ha previsto una fattispecie che ha dato luogo a numerose problematiche applicative e interpretative, sia da un punto di vista dei soggetti punibili nell’ambito della stessa, sia per quanto concerne i relativi rapporti con il concorso esterno in associazione mafiosa. L’articolo 416-ter, in particolare, configura un reato nel quale viene punito lo scambio e/o la promessa di voti/favori tra i soggetti appartenenti alla criminalità organizzata da un lato e gli esponenti politici dall’altro. Tale fattispecie è volta a contrastare le tristi dinamiche, sempre più diffuse, in cui, al cospetto del sostegno elettorale di un esponente politico, fanno riscontro contributi volti ad appoggiare il perseguimento degli scopi del clan mafioso, anche, eventualmente, grazie ai poteri acquisiti dal politico a seguito del buon esito elettorale[15].
Ebbene, in un primo momento il reato in esame era costruito in una maniera tale da suscitare numerosi dubbi in dottrina e giurisprudenza circa la capacità di tale fattispecie di far fronte realmente alle variegate forme di collusione tra mondo della politica e criminalità organizzata. Le problematiche principali concernevano un triplice ordine di questioni. Da una parte, infatti, tale reato era costruito come una fattispecie di concorso plurisoggettivo improprio. Ciò significava, nello specifico, che a essere effettivamente punibile per la condotta di scambio fosse esclusivamente il privato, e non anche l’appartenente al clan. La logica di politica criminale retrostante a tale limitazione era da individuarsi, probabilmente, nell’idea in virtù della quale il mafioso sarebbe stato comunque punibile dalla fattispecie di reato associativo, e quindi dall’articolo 416-bis, o come effettivo partecipante alla stessa, oppure come concorrente esterno e che, quindi, il disvalore della sua condotta potesse essere incriminato in questi termini. La seconda questione, invece, riguardava l’oggetto del reato, il quale appariva fortemente limitato, e ciò in quanto l’unica tipologia di corrispettivo preso in considerazione dalla norma era il denaro fornito dal politico alla cosca mafiosa. A ben vedere, però, come è lapalissiano, spesso la controprestazione elargita dall’esponente politico può consistere non in una somma di denaro (anche perché il proficuo inserimento delle associazioni criminose nelle dinamiche politiche ed economiche reca, per le stesse, ottimi margini di ricchezza e guadagno), ma in contributi vantaggiosi di altra natura, eventualmente stimolati dai poteri acquisiti a seguito del buon esito elettorale[16].
Un’ulteriore questione problematica legata alla fattispecie in esame riguardava il rapporto tra l’articolo 416-ter c.p. e la possibilità che il politico rispondesse anche di concorso esterno in associazione mafiosa.
Nello specifico, parte degli Autori e della giurisprudenza, avevano ritenuto che la semplice stipulazione del patto voti-denaro non potesse integrare anche una forma di concorso nel reato associativo di cui all’articolo 416-bis. Tale conclusione si basava su tale postulato: mentre il patto elettorale politico-mafioso incrimina, di per sé, il semplice “accordo” tra esponente del clan e il politico, il concorso esterno deve configurare, necessariamente, un contributo a “evento necessario”, in cui, in particolare, la condotta dell’estraneo debba arrecare una concreta utilità, un ausilio effettivo al rafforzamento dell’associazione mafiosa[17].
Altra parte della giurisprudenza, invece, riteneva che non ci fosse incompatibilità tra il concorso esterno e la fattispecie di cui al 416-ter. Nello specifico, secondo questa tesi, l’intento perseguito dal legislatore nel dare vita a questa fattispecie di reato sarebbe stato quello di “coprire” aree di punibilità entro le quali la fattispecie concorsuale non si sarebbe potuta applicare (come, per esempio, nell’ipotesi in cui all’accordo tra politico e mafioso non fosse poi effettivamente conseguita la dazione di denaro o l’apporto agevolativo nei confronti dell’associazione)[18]. Sicché, sulla base di questa impostazione, la fattispecie di cui al 416-ter sarebbe risultata come “residuale”, ossia applicabile solo ove non si rinvenissero i requisiti di cui all’articolo 416-bis e, quindi, ove ci si fosse limitati alla pattuizione, non seguita, poi, dall’effettivo scambio.
La legge n. 62 del 2014, emanata nel corso della legislatura avente compagine governativa di centrosinistra, capeggiata da Matteo Renzi, ha cercato di porre un rimedio alle problematiche sorte attorno al reato in oggetto, al fine di rendere la fattispecie più aderente all’odierno collateralismo tra politica e mafia. In questi termini, quindi, la novella ha, in primo luogo, ampliato l’ambito applicativo della norma da un punto di vista oggettivo. Nello specifico, il legislatore ha previsto che lo scambio politico-mafioso penalmente rilevante sia quello in cui il politico dà o promette qualsiasi tipologia di utilità o di vantaggio nei confronti della cosca (quindi non solo una somma di denaro), attribuendo alla fattispecie un’immagine più aderente a una realtà in cui le esigenze delle associazioni criminose non si rinvengono nell’arricchimento mediante dazione di denaro, ma nell’inserimento delle stesse nei tessuti della realtà sociale e collettiva (si può pensare, ad esempio, alla possibilità che il politico prometta l’attribuzione di attività di appalto o favori di altra natura da parte dell’amministrazione di riferimento).
In secondo luogo, la nuova normativa ha ampliato l’ambito soggettivo di applicazione della norma. Il reato è stato trasformato da fattispecie plurisoggettiva impropria a reato a concorso necessario proprio, in virtù della sopravvenuta previsione della punibilità del mafioso. Si è, infatti, pervenuti alla conclusione che sia giusto punire lo scambio elettorale mafioso in quanto tale, e ciò proprio perché lo stesso presenta connotati di disvalore ulteriori rispetto al concorso esterno in mafia. Peraltro, la punibilità di chi promette di procurare voti mediante l’utilizzo del metodo mafioso, diventa indispensabile proprio ove quest’ultimo non sia un appartenente a un’associazione criminosa e non possa neanche rispondere per concorso esterno, in quanto il suo agire non ha, di fatto, contribuito ad apportare dei “vantaggi” alla cosca sulla base del noto giudizio ex post di riferimento.
Rispetto al concorso esterno nel reato associativo, invece, il patto elettorale politico-mafioso continua a mantenere le stesse differenze affermate in precedenza. Mentre nel concorso esterno, infatti, bisognerà valutare l’effettivo apporto di utilità fornito dal contributo dell’extraneus, trattandosi di reati di evento, nel reato di cui al 416-ter il rilievo penale della condotta verrà a integrarsi in virtù della semplice stipula del patto, trattandosi di reato di mera condotta. In pratica, per rispondere del reato in esame, sarà sufficiente la promessa di voti al cospetto di quella inerente al denaro o altra utilità da apportare al mafioso, non essendo rilevante appurare l’effettiva attuazione di quanto promesso.
Una questione ulteriore è quella sorta in ordine al rilievo dell’utilizzo del “metodo mafioso”, del cui significato si è data sommaria contezza nel parlare del 416-bis. In particolare, la legge n. 62 del 2014 ha esplicitato per la prima volta, anche nell’ambito di questa fattispecie, come sia necessario l’utilizzo dello stesso nel metodo di procacciamento dei voti da parte del mafioso. Prima della riforma, in particolare ci si chiedeva se, per integrare il reato, fosse necessario appurare che nel patto fosse stato previsto l’utilizzo dei meccanismi intimidativi e prevaricanti (propri del metodo mafioso) per pervenire al procacciamento dei voti.
A seguito dell’intervento riformatore, sul punto si sono sviluppati due orientamenti giurisprudenziali. Per una prima impostazione, infatti, a seguito della specificazione introdotta con la riforma, il legislatore avrebbe preso una posizione chiara: il patto, per assumere rilievo penale, deve contenere l’esplicito riferimento all’utilizzo del metodo mafioso[19]. Secondo un altro orientamento, invece, sarebbe necessario distinguere: se a stipulare il patto è un soggetto pienamente appartenente al clan non è necessario l’esplicito riferimento al metodo mafioso, in quanto esso sarebbe in re ipsa nel rilievo dell’associazione criminosa rappresentata dal singolo; viceversa, se a stipulare è un soggetto estraneo alla cosca, oppure che appartiene alla stessa ma agisce uti singulus, è necessaria l’esplicita previsione del metodo mafioso nella pattuizione.
Su questo e altri aspetti, peraltro, è nuovamente intervenuto il legislatore con la l. n. 43 del 2019 che ha avuto, quale Guardasigilli, l’attuale Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Nello specifico, con tale modifica il legislatore ha aderito in toto a quell’indirizzo giurisprudenziale volto a ritenere che il metodo mafioso dovesse essere espressamente pattuito solo ove intervenuto con soggetti estranei a consorterie mafiose. Ciò si evince dal fatto che la norma ha posto l’ambivalenza tra la possibilità di stipulare con soggetti appartenenti a clan mafiosi, oppure con soggetti estranei alla mafia ma che, in questo caso, debba essere pattuito l’utilizzo del metodo mafioso per il procacciamento dei voti.
La novella, peraltro, oltre ad aver specificato che le condotte dei soggetti attivi possono essere poste in essere anche per mezzo di intermediari (conclusione cui si poteva pervenire anche sulla base dei principi generali in materia penale) ha poi sottolineato, al fine di ampliare ancor di più l’ambito applicativo materiale della norma, che il “vantaggio” per il mafioso possa consistere non solo in denaro o altre utilità, ma anche nella generica “disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa”. Di conseguenza, dunque, la disponibilità del politico non dovrà più concernere la possibilità di recare utilità e vantaggi attuali, ma anche solo potenziali, e può consistere anche nella generale messa a disposizione del proprio futuro impegno ad assecondare il soddisfacimento delle esigenze dell’associazione mafiosa.
Daniela D’adamo per www.policlic.it
Note e riferimenti bibliografici
[1] Si veda S. Lupo, Storia della mafia: dalle origini ai giorni nostri, Donzelli Editore, Roma 2004.
[2] Si veda G. Amarelli, La contiguità politico-mafiosa. Profili politico-criminali, dommatici ed applicativi, Dike Giuridica, Roma 2017.
[3] G. Borelli, Massime di esperienza e stereotipi socio-culturali nei processi di mafia: la rilevanza penale della “contiguità mafiosa”, in Cass. pen., 2007, pp. 1074 sgg.
[4] G. Insolera, Diritto penale e criminalità organizzata, Il Mulino, Bologna 1996, pp. 85 sgg.
[5] R. Garofoli, Manuale di diritto penale. Parte generale, Neldiritto Editore, Roma 2019, pp. 1263 sgg.
[6] T. Padovani, Note sul c.d. concorso esterno, in Arch. pen., 2012, pp. 11 sgg.
[7] Cass. 23 gennaio 2001, in Diritto e giustizia, n. 6.
[8] R. Galli, Nuovo corso di diritto penale, CEDAM, Padova 2017, pp. 1081 sgg.
[9] Con il termine intraneus si fa riferimento al soggetto legato alla cosca mafiosa e a essa appartenente; l’extraneus è, viceversa, colui che, pur prestando un contributo a favore dell’associazione, non agisce dall’interno e non ha posto in essere il patto che a essa lo vincola.
[10] In primis la sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite del 5 ottobre 1994 resa sul caso De Mitri, quella resa sul caso Carnevale dalla Cass. SS.UU n. 22327 del 2003, fino a pervenire alla più recente celebre sentenza inerente al caso dell’Utri, la n. 15727 del 2012.
[11] Si veda V. Maiello, Consulta e CEDU riconoscono la matrice giurisprudenziale del concorso esterno, in “Diritto penale e processo”, 2015, 8, pp. 1019-1028.
[12] Tale pronuncia si era incentrata, in particolare, su un grosso processo, di rilievo mediatico, riguardante un magistrato che aveva fornito un contributo a Cosa Nostra, soprattutto mediante l’annullamento di sentenze e l’organizzazione nella composizione nei collegi, al fine di evitare che i membri del clan subissero conseguenze penali rilevanti.
[13] Così, da ultimo, la sentenza della Cassazione Penale n. 18132 del 2016.
[14] Si veda I. Giugni, Il problema della causalità nel concorso esterno, in “Diritto penale contemporaneo”, 2017, 10, pp. 21-35.
[15] Si veda A. Macheda, Il patto mafioso tra concorso esterno in mafia e scambio elettorale politico mafioso, in “Il diritto amministrativo”, XII (2020), 10.
[16] Nello specifico, la versione originaria dell’art. 416-ter puniva chiunque ottenesse “la promessa di voti prevista dal comma 3 dell’art. 416-bis in cambio dell’erogazione di denaro”. Proprio al fine di colmare le lacune derivanti dalla carente costruzione della norma, in relazione all’oggetto del reato, la giurisprudenza di legittimità aveva precisato in più occasioni che, a fronte della promessa di voti, il corrispettivo fornito dall’esponente mafioso poteva consistere anche in qualsiasi tipologia di utilità, purchè avente valore economico e purchè, quindi, fosse concertibile in un preciso quantitativo di denaro (Cass. N. 20924/12).
[17] Si veda G. Amarelli, La riforma del reato di scambio elettorale politico-mafioso, in “Diritto penale contemporaneo”, 2014, 2, pp. 4-23.
[18] Cass. Sez. Un. N. 33748/2005.
[19] Cass. Pen. N. 36382/14.