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Il concetto di Italia intesa come nazione nasce e si afferma tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Coincide con il periodo di quel fenomeno noto come “Risorgimento” con cui si vuole indicare il complesso processo politico, la serie di trasformazioni economiche e sociali, di atteggiamenti letterari e culturali, di eventi diplomatici e militari che, intrecciandosi e contrastandosi, portarono l’Italia dal secolare frazionamento politico all’Unità, dal dominio straniero all’indipendenza nazionale, dall’assolutismo monarchico allo Stato liberale e costituzionale sotto la dinastia sabauda.
A differenza degli altri Paesi europei dotati di una secolare identità politica, culturale e linguistica, l’Italia era stata per secoli frammentata in vari Stati soggetti al dominio diretto o indiretto delle potenze straniere. Verso la fine del Settecento, nel tentativo di dare vita a una identità nazionale sconosciuta alla maggioranza del popolo italiano, un ruolo di primo piano fu assunto dagli intellettuali che tentarono di costruire e diffondere i miti e le narrazioni relativi all’idea di nazione. In quegli anni nacque il culto nazionale dei grandi uomini e degli eventi del passato visti come prefigurazioni della lotta finale che le generazioni presenti avrebbero dovuto compiere ispirandosi alle gesta dei propri avi[1]. In questo clima, gli avvenimenti passati vennero riletti in un’ottica nazionalista al fine di creare un sentimento patriottico volto a unificare dal punto di vista politico la penisola italiana. La battaglia di Legnano del 1176, con cui i Comuni riuniti nella Lega Lombarda sconfissero l’imperatore Federico Barbarossa, e la rivolta dei Vespri Siciliani, contro il tentativo del Re di Francia di assoggettare la Sicilia (1282), furono considerati dagli intellettuali del tempo come simboli del primo risveglio di una coscienza di patria respingendo l’allora diffusa idea degli italiani come popolo restio a fare la guerra e chiuso nei propri interessi locali.
Dal Congresso di Vienna ai primi moti liberali
Le prime spinte nazionaliste si verificarono all’indomani della Rivoluzione Francese che scosse gli equilibri politici dell’intera Europa. La presa del potere e la proclamazione di Napoleone Bonaparte come Imperatore dei Francesi accese gli entusiasmi di molti rivoluzionari anche nei territori italiani. Un primo embrione di Stato nazionale italiano fu la costituzione della Repubblica Cisalpina, uno Stato dell’Italia settentrionale che si estese principalmente nelle odierne regioni di Lombardia ed Emilia-Romagna e, marginalmente, di Veneto e Toscana. La Repubblica Cisalpina, nata sotto il controllo giacobino come conseguenza diretta degli sconvolgimenti in territorio italiano successivi alla Rivoluzione Francese, fu la prima ad adottare come vessillo ufficiale il tricolore a strisce verticali verde, bianco e rosso destinato a divenire la bandiera ufficiale dell’Italia. Il 17 marzo 1805 fu creato il cosiddetto Regno d’Italia e Napoleone Bonaparte venne incoronato Re d’Italia nel Duomo di Milano. Sebbene si parli di Regno d’Italia, la sua costituzione avvenne per impulso delle campagne napoleoniche in funzione antiaustriaca. L’obiettivo di Napoleone Bonaparte era quello di indebolire l’Austria, nemico storico della Francia, cavalcando, per ragioni opportunistiche, la spinta nazionalista presente nei territori del Nord Italia. Con il declino di Napoleone Bonaparte, nel 1815 durante il governo dei Cento giorni[2], Gioacchino Murat, nel frattempo insediato dall’Imperatore francese sul trono di Napoli, dopo aver dichiarato guerra all’Austria, si rivolse agli italiani con il “proclama di Rimini” chiamandoli alla rivolta contro i nuovi padroni. Il tentativo fu vano e la definitiva sconfitta della Francia napoleonica portò al Congresso di Vienna. In questo primo periodo il nazionalismo italiano non fu spontaneo ma fu spesso usato per mere finalità politiche. La penisola italiana era ancora considerata terreno di scontro tra le principali potenze europee e risultava ancora priva di una identità nazionale. Ciò spinse il celebre statista austriaco Metternich a definire l’Italia una mera “espressione geografica”[3]. L’atto finale del Congresso di Vienna restaurò gli antichi sovrani e comportò, ancora una volta, una profonda disgregazione dei territori italiani. La penisola italiana fu così divisa: il Regno di Sardegna con la Liguria; Nizza e la Savoia a Vittorio Emanuele I di Savoia; il Regno Lombardo-Veneto all’Austria; il Ducato di Parma e Piacenza a Maria Luisa d’Asburgo; il Ducato di Modena, Reggio Emilia e Mirandola a Francesco IV d’Austria-Este; il Granducato di Toscana a Ferdinando III d’Asburgo-Lorena; lo Stato Pontificio a Pio VII; il Regno di Napoli, divenuto Regno delle due Sicilie, a Ferdinando I di Borbone, già Ferdinando IV di Napoli; le Repubbliche di Venezia e Genova non vennero più restaurate. Con il Congresso di Vienna fu compiuta la spartizione dell’Italia a opera delle potenze straniere. La creazione di uno strumento repressivo internazionale noto come Santa Alleanza, azionabile nel caso in cui la situazione di uno Stato avesse messo in pericolo l’ordine degli altri, pose fine a qualsiasi spinta in senso nazionalista. Iniziò così il periodo noto come “Restaurazione” destinato a terminare con i primi moti liberali avvenuti attorno al 1830-31. In questo panorama patriottico settario, vista l’assenza di qualsiasi forma di libertà democratica, l’unico strumento per promuovere la causa italiana fu la costituzione della Carboneria[4], un’associazione segreta che si diffuse nella penisola assumendo un carattere cospiratorio con lo scopo di trasformare questi Regni in Stati costituzionali attraverso moti rivoluzionari.
I primi moti scoppiarono in Sicilia dove una rivolta separatista esplosa il 15 luglio 1820 portò al ripristino della Costituzione siciliana del 1812. Nello stesso periodo, un moto liberale a Napoli sostenuto dalla Carboneria culminò con la presa dalla città: il generale Guglielmo Pepe, comandante degli insorti, riuscì a imporre al Re Ferdinando I la concessione di una costituzione. In Piemonte fallì l’insurrezione liberale e il Re Carlo Felice ripristinò l’assolutismo. In questa prima fase si trattò di moti insurrezionali che furono repressi nel sangue con il decisivo intervento della potenza austriaca ma rappresentarono le basi per ciò che avvenne in un anno destinato a passare alla storia: il 1848.
Un anno cruciale per il Risorgimento: il 1848
Nel periodo tra gli anni 1831-1845 si andò consolidando il movimento patriottico cui diede un rilevante contributo il giovane Giuseppe Mazzini che da Marsiglia diffuse il programma repubblicano e unitario della “Giovine Italia” fondato sui concetti di indipendenza, libertà e unità[5]. Mazzini rifiutò il settarismo carbonaro facendosi portavoce di un movimento insurrezionale che partisse dal basso e che fosse fondato su un vasto sostegno popolare. In quegli anni tentò di provocare insurrezioni in Piemonte e in Liguria ma l’esito fu vano. Nel 1844 i fratelli Emilio e Attilio Bandiera aderirono alle idee mazziniane e tentarono una spedizione in Calabria nel tentativo di provocare una insurrezione popolare nel Sud Italia. L’iniziativa fu un clamoroso insuccesso e i due fratelli furono catturati dall’esercito borbonico e fucilati a Rovito (CS) il 25 luglio del 1844[6]. Questa spedizione dimostrò come, in particolare nel Sud Italia, le sirene del nazionalismo fossero molto lontane e le diverse insurrezioni furono più che altro dettate dallo scontento nei confronti della monarchia borbonica piuttosto che da un ideale patriottico.
Un evento che assunse particolare importanza fu, nel 1839, la creazione della “Società Italiana per il progresso delle scienze” a Pisa dove si tenne la prima riunione di uomini di scienza e intellettuali sotto il comune nome di “italiani”. Oltre al loro contenuto scientifico, questi congressi permisero scambi di idee nella nuova classe dirigente che andava formandosi in Italia[7].
Il 1848 fu un anno cruciale sia per l’Italia che per l’Europa. Le tumultuose vicende legate ai moti risorgimentali spinsero diversi sovrani a concedere alcune aperture, soprattutto a livello politico, mediante l’emanazione di Carte costituzionali, denominate Statuti. Si trattava di documenti che i Re concedevano per far fronte alle pressioni dell’opinione pubblica liberale e per scongiurare il pericolo di insurrezioni. Costituiscono esempi di tali Costituzioni quelle emanate da Re Ferdinando II dopo lo scoppio di un moto indipendentista a Palermo, da Leopoldo II di Toscana e da Carlo Alberto. Nello Stato Pontificio, invece, fu istituita la Repubblica Romana guidata da un triumvirato composto da Giuseppe Mazzini, Carlo Ermellini e Aurelio Saffi. Questa breve esperienza che costrinse papa Pio IX alla fuga, fu la prima forma di governo democratica in Italia e segnò anche il fallimento dei moti mazziniani. Nello stesso periodo avvenne l’insurrezione delle “cinque giornate” di Milano contro il dominio austriaco. Questo evento spinse Re Carlo Alberto di Savoia a dichiarare guerra all’Austria nel tentativo di assumere la guida del movimento indipendentista nazionale. Si svolse così la Prima Guerra d’Indipendenza che vide però la sconfitta del Regno sabaudo e segnò una brusca frenata alle mire unitarie italiane. Re Carlo Alberto abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II il quale, contrariamente a quanto avvenuto altrove, non ritirò lo Statuto Albertino emanato dal padre. Il Regno sabaudo rimase, quindi, l’unico Stato preunitario italiano con istituzioni di tipo rappresentativo in cui l’autorità del Re era bilanciata da un parlamento bicamerale composto da una Camera dei deputati elettiva e da un Senato di nomina regia[8].
Dal decennio di preparazione all’Unità d’Italia
Gli anni successivi al 1848 segnarono il fallimento dei moti di matrice mazziniana. Grazie al connubio con il centrosinistra di Rattazzi, Camillo Benso, conte di Cavour, costituì il suo primo ministero avviando il cosiddetto “decennio di preparazione”. Si trattò di un progetto politico che, abbandonando le spinte rivoluzionarie di matrice mazziniana, mirava a tessere fitte relazioni e alleanze con le altre potenze europee al fine di giungere gradualmente all’unificazione politica della penisola italiana. Ciò contraddiceva l’ideale mazziniano della spinta rivoluzionaria attraverso la mobilitazione popolare. Negli anni seguenti il Piemonte, che si era messo alla guida del progetto di unificazione nazionale, aderì all’alleanza franco-inglese contro la Russia e partecipò alla guerra di Crimea. Al congresso di Parigi che ne seguì, Cavour ottenne una seduta suppletiva per la discussione del problema italiano[9]. Nel 1857 fu fondata la Società Nazionale Italiana ispirata dallo stesso Cavour con l’obiettivo di unificare l’Italia sotto i Savoia[10]. Al successivo convegno di Plombières tra Napoleone III e Cavour viene siglata l’alleanza franco-piemontese in funzione antiaustriaca. Questi eventi rappresentarono il preludio che portò alla Seconda Guerra d’Indipendenza dove gli alleati franco-piemontesi sconfissero gli austriaci e in conseguenza di ciò il Regno sabaudo conquistò la Lombardia ma fu costretto a cedere alla Francia Nizza e la Savoia. Successivamente i plebisciti[11] indetti in Emilia e Toscana segnarono una preponderante vittoria per l’annessione al Piemonte. Nel 1860 la spedizione dei Mille guidata da Garibaldi liberò la Sicilia e risalì la penisola causando la dissoluzione dello Stato borbonico che venne annesso al Regno Sabaudo. Il 17 marzo 1861 il primo parlamento italiano proclamò Vittorio Emanuele II Re d’Italia[12] per “grazia di Dio e volontà della Nazione”[13]. Era la nascita del Regno d’Italia.
La situazione politica ed economica nel Sud Italia
Al momento dell’unificazione gli italiani erano all’incirca 22 milioni ma vi era un’elevata percentuale di analfabetismo, in particolare tra le donne. A tutto ciò si aggiunse il fatto che solo il 10% era da considerare italofono, ossia che parlava la lingua italiana[14]. Sebbene dopo secoli si fosse giunti all’unificazione politica della penisola italiana, tanti erano i problemi che la classe dirigente fu chiamata ad affrontare. La profonda eterogeneità tra i territori, l’assenza di una lingua comune, la mancanza di una legislazione unica, rappresentarono questioni rilevanti che sancirono una profonda differenza tra Nord e Sud Italia. Gran parte della nuova classe dirigente ignorava le condizioni sociali ed economiche del Mezzogiorno. Quando nel 1860 il romagnolo Luigi Farini fu inviato nelle province meridionali in qualità di luogotenente non seppe nascondere il proprio stupore misto a disprezzo: “Altro che Italia. Questa è Africa! I beduini, a riscontro di tali cafoni sono fior di virtù civili”[15]. Iniziarono a diffondersi incomprensioni che sarebbero poi durate nel tempo ma che si fondavano anche su un reale divario tra Nord e Sud Italia.
Per poter meglio comprendere le vicende che portarono alla dissoluzione del Regno borbonico è necessario soffermarsi sugli anni precedenti all’unificazione italiana. Il congresso di Vienna, come detto, riconobbe Ferdinando di Borbone legittimo sovrano dei due regni del Sud unificati in un solo Stato, il Regno delle Due Sicilie, con capitale Napoli. Qualche anno prima, nel 1812, il Re aveva emanato una Costituzione che prevedeva una Camera di pari e una elettiva con la funzione di proporre e approvare le leggi, sebbene l’ultima parola spettasse al Re. Con la Restaurazione, la Costituzione del 1812 venne abrogata ma a ciò non seguì il ritorno all’assolutismo monarchico. Vennero abrogati, nel frattempo, gli antichi ordinamenti municipali e la feudalità. Il Codice per lo Regno delle Due Sicilie, emanato nel 1819, rappresentava un sistema giuridico al passo coi tempi. Furono poi intraprese vaste opere di bonifica in Calabria, Puglia e Campania. In campo finanziario furono varate importanti riforme volte alla riduzione della fiscalità, resa possibile da un’oculata gestione della spesa pubblica e dalla diminuzione delle spese di corte. Fu dato impulso all’industria manifatturiera e a Pietrarsa, nei pressi di Portici, nacque il maggior complesso industriale metalmeccanico d’Italia[16]. Negli stessi anni fu inaugurato il tratto ferroviario Napoli-Portici considerato la prima ferrovia e la prima stazione in Italia.
Il neonato Regno delle Due Sicilie ebbe come capitale Napoli. Privare Palermo del ruolo e del prestigio che aveva avuto al tempo dei Normanni[17] rappresentò un fattore che minò alle basi la stabilità politica del Regno borbonico che dovette fare i conti con un fenomeno destinato ad aggravarsi nei primi anni dell’unificazione, ossia il brigantaggio, pronto ad approfittare dei vuoti di potere. Il distacco tra la classe dirigente e i problemi sociali ed economici rappresentarono un fenomeno caratterizzante l’intera storia del Mezzogiorno, ancora drammaticamente attuale. Gli anni che vanno dal 1830 al 1848 furono segnati da una grave instabilità dovuta alla ciclicità di moti e insurrezioni, sempre repressi nel sangue. Gli anni successivi al 1848 determinarono un certo isolamento del Regno borbonico e la rottura traumatica tra Ferdinando II, salito al trono nel 1830, e le diverse anime del movimento liberale. Il 15 maggio 1848 era in programma la prima riunione della Camera dei deputati ma i rappresentanti si rifiutarono di giurare fedeltà al Re. Ciò diede vita a una serie di tumulti, saccheggi e violenze che resero inevitabile la svolta autoritaria di Ferdinando II il quale, pur non abrogando la Costituzione vigente, instaurò uno stato di polizia che portò all’esilio o alla prigionia dei principali esponenti delle forze politiche moderate e che fu causa dell’immobilismo in cui versò il Regno nei successivi anni. Si cercò allora di sovvertire il Regno borbonico attraverso moti creati ad hoc, come la spedizione di Carlo Pisacane del 1857 che si rilevò un totale fallimento. Nel 1859 dopo la morte di Ferdinando II, salì al trono il figlio Francesco II. Di carattere più mite rispetto al padre, cercò qualche apertura al movimento liberale ma infruttuosamente. Nella notte tra il 5 e 6 maggio 1860 un migliaio di camicie rosse guidate da Giuseppe Garibaldi sbarcò in Sicilia dove la promessa di terra ai contadini ne accese gli entusiasmi in funzione antiborbonica. Francesco II non riuscì a intervenire contro gli insorti anche a causa delle navi inglesi che impedirono l’intervento delle forze armate borboniche. Le forti tensioni che già da anni stavano agitando la Sicilia spalancarono le porte ai garibaldini che in breve tempo conquistarono l’isola per poi risalire verso Nord dove l’esercito borbonico, nella battaglia del Volturno, fu definitivamente sconfitto. Garibaldi consegnò letteralmente il Sud Italia al Re Vittorio Emanuele II durante il loro incontro nei pressi di Teano. Francesco II, barricatosi a Gaeta con la corte, fu sconfitto dopo un estenuante bombardamento e il 13 febbraio 1861 il Regno delle Due Sicilie cessava definitivamente di esistere.
La nascita della questione meridionale
Le rivolte che caratterizzarono il Regno delle Due Sicilie furono espressione di un malcontento diffuso nei confronti delle classi dirigenti. La profonda frattura tra istituzioni e Paese reale fu uno dei fattori che determinò un clima di contrapposizione tra Stato e popolo. Il Sud Italia si distingueva dal resto della penisola per l’assenza di un vero sentimento patriottico nazionale. Gli ideali risorgimentali che avevano portato all’unificazione italiana erano diffusi solo nelle classi sociali più abbienti e nei circoli degli intellettuali. Ciò spiega il fallimento dei moti mazziniani e la scarsa partecipazione popolare al movimento di unificazione territoriale. Nel Sud Italia il processo che portò alla nascita del Regno d’Italia avvenne passivamente, ma due furono gli episodi che più di tutti generarono un profondo malcontento trasformatosi ben presto in opposizione al governo nazionale: da un lato la mancata riforma agraria promessa da Garibaldi al momento dello sbarco dei Mille; dall’altro l’introduzione della coscrizione obbligatoria vigente nel Regno sabaudo ma non nel Regno borbonico. Considerato che l’economia del Mezzogiorno si fondava quasi esclusivamente sull’agricoltura, l’arruolamento coatto dei giovani maschi finiva per privare le famiglie della necessaria manodopera nei campi. L’abbandono da parte del neonato Regno d’Italia di una politica protezionistica ebbe conseguenze disastrose per l’agricoltura che fu duramente colpita dalla crisi economica. Questa serie di cause, unite anche allo scioglimento dell’esercito borbonico e all’aumento della pressione fiscale per far fronte ai debiti accumulati durante le guerre d’indipendenza, ebbero come conseguenza l’esplosione del fenomeno del brigantaggio. Anche da un punto di vista giuridico tutto il sistema di leggi pensato dai Borbone fu abrogato e sostituito da quello sabaudo; in tal modo trovarono vigenza nel Sud Italia leggi e ordinamenti contrari al carattere, alle tradizioni e alle peculiarità del meridione[18]. L’intera industria manifatturiera, fiore all’occhiello del Regno borbonico, fu progressivamente smantellata e trasferita al Nord provocando ribellioni e proteste, come quelle avvenute a Pietrarsa dove, il 6 agosto 1863, una serie di scioperi si concluse con l’intervento dei bersaglieri e la morte di sette operai. Il brigantaggio fu, dunque, più di un fenomeno di delinquenza comune, divenendo sintomo di un diffuso malcontento se non di forte opposizione al neonato Regno d’Italia. Tale fenomeno ebbe conseguenze drammatiche, assumendo i connotati di una vera e propria guerra civile per debellare la quale fu necessario l’impiego di 120.000 uomini e l’istituzione di tribunali militari con la Legge Pica che portò, secondo i dati ufficiali[19], alla fucilazione di quasi 5.000 briganti. Le dure condizioni di vita cui erano sottoposti i meridionali diede vita al fenomeno dell’emigrazione di massa, in particolare verso il continente americano.
L’Italia Unita: un bilancio storico
Sebbene da più parti si assista a un tentativo di rivisitazione della storia dell’Unità d’Italia non si possono negare una serie di benefici che la nascita del Regno d’Italia ha comportato. Innanzitutto la nascita di una nazione italiana pose definitivamente fine alle invasioni straniere e garantì una sicurezza territoriale fondamentale per lo sviluppo economico, politico e sociale del Paese.
Un secondo e importante beneficio derivante dall’unificazione italiana è stato l’avvio del processo di democratizzazione impedito dalla costante minaccia di invasioni straniere. Nonostante le criticità che sicuramente caratterizzarono gli anni successivi alla nascita del Regno d’Italia, pur non potendo essere paragonato a una democrazia moderna, lo Stato Italiano rappresentò una forma, per quanto embrionale, di democrazia. Il costante processo di democratizzazione[20] e di ampliamento del suffragio elettorale[21] contraddistinse l’Italia liberale dei decenni successivi.
Con l’unificazione politica l’Italia divenne a pieno titolo un importante soggetto nel contesto internazionale[22] in grado di imporsi e di far fronte alla concorrenza degli altri Stati europei grazie alla creazione di una rete ferroviaria nazionale, all’omogeneizzazione della lingua, alla creazione di una moneta unica, alla nascita di un mercato comune, fattori che contribuirono a rendere più stabile il nostro Paese.
Oltre ai benefici evidenziati, diversi furono e continuano a essere i problemi con cui lo Stato Italiano ha dovuto e deve fare i conti, a partire dalla questione meridionale, che rappresenta tuttora il peccato originale dell’Italia unita. La sostanziale annessione del Sud Italia, il processo di piemontesizzazione del Paese, l’assenza di un patriottismo di matrice popolare, la distanza tra classe dirigente e “Paese reale”, l’emersione di una sorta di antistato come il brigantaggio, anticamera dell’odierno fenomeno mafioso, l’assenza di una politica attenta ai bisogni e alle peculiarità del Mezzogiorno, in parte presente durante il regno borbonico, sono tutti fattori che ancora oggi sono oggetto di discussione storica e che continuano a mantenere ampio il divario tra Nord e Sud Italia. Tuttavia, si tratta di problemi che non furono causa dell’unificazione italiana. Erano a essa preesistenti e radicati nella società ma, per diverse ragioni, si sono col tempo cristallizzati. La distanza della classe dirigente avvertita come lontana dai problemi dei cittadini, la diffusa corruzione, il costo delle istituzioni democratiche tornato d’attualità con il referendum sul taglio dei parlamentari, il divario tra Nord e Sud, gli egoismi territoriali, sono tutti problemi endemici della nostra democrazia che faticano a essere definitivamente risolti.
Luca Battaglia per www.policlic.it
Note e riferimenti bibliografici
[1] Alberto Mario Banti, voce Risorgimento, in Enciclopedia Italiana Treccani – VII Appendice (2007).
[2] Napoleone Bonaparte fu sconfitto a Lipsia ed esiliato sull’isola d’Elba. L’esilio ebbe vita breve, perché il generale francese tornò in breve tempo al potere in Francia nella speranza di battere l’ampia coalizione antifrancese che si era formata contro di lui. Il suo governo durò solo Cento giorni, prima di subire la decisiva sconfitta nella battaglia di Waterloo del 1815.
[3] [3]Il 2 agosto 1847 Metternich scrisse, in una nota inviata al conte Dietrichstein, la famosa e controversa frase: “La parola ‘Italia’ è un’espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle”. I liberali italiani si appropriarono polemicamente di questa interpretazione (“L’Italia non è che una mera espressione geografica”) utilizzandola in chiave patriottica per risvegliare il sentimento anti-austriaco negli italiani.
[4] Denis Mack Smith, The Making of Italy, 1796–1866, Palgrave Macmillan UK, 1988, pp. 1-12.
[5] G. Mazzini, Istruzione generale per gli affiliati nella Giovine Italia, in Scritti editi e inediti, II, Imola, 1907.
[6] Salvatore Meluso, La spedizione Bandiera in Calabria, Rubbettino, 2001, p. 6.
[7] Rodolphe Rey, Histoire de la Renaissance politique de l’Italie 1814 – 1861, Lévy, Parigi 1864.
[8] Roberto Martucci, Storia Costituzionale italiana, Carocci Editore, Roma 2002.
[9] AA.VV., Enciclopedia della Storia Universale, De Agostini Editore 1998, p. 705.
[10] Francesco Leoni, Storia dei partiti politici italiani, Guida, Napoli 1975, pp. 100-106.
[11] Plebiscito deriva dal latino plebiscitum, composto da “plebs” (plebe) e “scitum” (stabilire) e fa riferimento alla prassi, diffusa nell’antica Roma, di interrogare la classe sociale dei plebei. In epoca moderna il termine plebiscito fu usato per indicare una consultazione popolare su questioni politiche fondamentali.
[12] Il primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele II, mantenne il proprio nome per sottolineare il rapporto di continuità tra la monarchia sabauda e il neonato Regno.
[13] Alfredo Oriani, La lotta politica in Italia, 1892, in Tommaso Detti, Giovanni Gozzini, Ottocento, Pearson Paravia Bruno Mondadadori, 2000.
[14] G. Sabbatucci, V. Vidotto, Il mondo contemporaneo, Edizioni Laterza, p. 86.
[15] Ivi, p. 88.
[16] Tale complesso fu la prima fabbrica italiana di locomotive e dava lavoro a più di mille operai. Il complesso era talmente all’avanguardia che impressionò lo stesso Zar Nicola I di Russia che volle costruirne uno simile nei pressi di Kronstadt.
[17] Gianni Custodero, Storia del Sud: dal Regno Normanno alla prima Repubblica, Capone editore, 1999, p. 49.
[18] Raffaele de Cesare, La fine di un Regno, vol. II, Grimaldi & C. Editore, Napoli 2003, capitolo VI.
[19] Gianni Custodero, op. cit., p. 63.
[20] Interrotto solo nel Ventennio Fascista.
[21] Il suffragio universale fu introdotto solo nel 1946 in occasione del referendum per la scelta tra Monarchia o Repubblica.
[22] Bisogna ricordare che l’Italia fu tra i sei Paesi firmatari dei Trattati di Roma, siglati il 25 marzo 1957, e considerati come l’atto di nascita della grande famiglia europea.