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(NOTA DI REDAZIONE: Articolo aggiornato dall’autore il 21/11/2020)
La pandemia e la sinistra che torna in voga
Sono passati più di due anni e mezzo da quando, alle elezioni per il rinnovo dei due rami del Parlamento, gli elettori italiani hanno deciso di punire la Sinistra per tutti gli errori accumulati in oltre trent’anni di storia. I risultati delle urne hanno posto fine a un quinquennio di maggioranza socialdemocratica macchiata dalla convivenza parlamentare con il partito dello storico nemico Silvio Berlusconi, dalla parabola autodistruttiva di Matteo Renzi, dagli intrighi di corte all’interno del Nazareno e dagli scandali che hanno messo in luce i loschi legami del partito con diversi istituti di credito regionali. Un quinquennio in cui un’ampia fetta dell’elettorato si è sentita abbandonata, dimenticata e lasciata in balìa di una crisi economica asfissiante e senza fine. Un quinquennio capace di dar vita al governo più populista d’Europa e allo spettro dell’Italexit.
Era solo il marzo del 2018, eppure da quel momento la vita istituzionale e sociale del Paese è cambiata in maniera radicale. Da quando il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha affidato a Giuseppe Conte la responsabilità di guidare – per la prima volta – il governo italiano, i cittadini del Belpaese hanno assistito alla formazione di due maggioranze, a un referendum, all’introduzione di uno stato di emergenza lungo un anno, al processo a un ex Ministro e, per finire, elle ennesime scissioni interne al PD.
Guardando gli exit poll del marzo 2018, nessuno avrebbe mai potuto immaginare che il Partito Democratico sarebbe potuto tornare ad avere un ruolo centrale nella vita politica del Paese dopo solo un anno, tre mesi e quattro giorni dalla formazione del governo giallo-verde. Così come nessuno avrebbe mai potuto immaginare che la propagazione di un pericoloso virus respiratorio avrebbe potuto rinvigorire l’interventismo statalista e il ricorso all’erogazione di sussidi – due strategie figlie della cultura socialdemocratica e in controtendenza rispetto all’indirizzo neoliberista degli ultimi decenni.
Cionondimeno, l’emergenza sanitaria sembrerebbe aver ridato linfa vitale alla socialdemocrazia – non solo quella italiana – e, soprattutto, parrebbe aver costretto il mondo istituzionale a spostare l’asse del discorso politico verso tematiche più affini al mondo della sinistra. Assistenzialismo, paternalismo autoritario e responsabilizzazione dell’individuo per il bene della collettività sono tutte tematiche in controtendenza rispetto al liberalismo massimalista che, dalla fine del secolo scorso, impera in Occidente. Uno stato emergenziale che ha spinto persino un’istituzione dalla forte impostazione mercatista come l’Unione Europea a ideare un piano di aiuti fondato sulla condivisione del debito e l’erogazione di centinaia di miliardi di euro per il rilancio delle economie europee.
Eppure non è tutto oro quel che luccica. Se è vero che, in Italia, il Partito Democratico è tornato a essere protagonista della vita politica del Paese – liberando, oltretutto, gli alleati del Movimento 5 Stelle da molte delle proprie zavorre populiste – è altrettanto vero che le problematiche interne al partito non sembrano essere state risolte. I dissidi interni continuano a minare la solidità dell’esecutivo, il pericolo delle scissioni si presenta con cadenza quasi giornaliera e ogni nuova proposta parlamentare è accompagnata da dibattiti che hanno perso molta della loro funzionalità costruttiva.
Ciononostante, opinionisti e addetti ai lavori hanno accolto la formazione del governo PD-Movimento 5 Stelle con grande clamore. A detta di molti, la convivenza con il partito verso cui erano confluiti molti elettori di riferimento avrebbe potuto giovare al PD in termini programmatici. Un’intera legislatura al fianco di un movimento molto vicino all’elettorato stroncato da un decennio di crisi economica avrebbe potuto facilitare un riavvicinamento del Partito Democratico verso le frange più periferiche della società – quelle che, dalla dissoluzione del PCI in avanti, gli eredi di Occhetto non sono più stati in grado di coinvolgere all’interno dei propri programmi.
Tuttavia, a più di un anno dalla formazione del governo giallo-rosso, molti dei nodi critici che avevano determinato il ridimensionamento del PD nella tornata elettorale di marzo 2018 non sono ancora stati sciolti. La pandemia ha, in un certo senso, costretto i rappresentanti della sinistra italiana a mettere da parte molti dissidi interni per far fronte a un’emergenza che richiede unità e convergenza di intenti. Ma, riavvolgendo il nastro agli albori del 2020, dagli scranni del Parlamento fa capolino una sinistra confusa, disorientata e priva di qualsivoglia capacità programmatica.
Dal governo più populista d’Europa alla formazione della maggioranza giallo-rossa
Molti sembrano aver dimenticato quanto terrore incutesse il populismo reazionario di Salvini prima della creazione delle zone rosse nelle province di Padova e Lodi. Eppure, il 27 ottobre del 2019, le consultazioni regionali in Umbria eleggevano a governatrice la candidata del centrodestra Donatella Tesei, con uno schiacciante 57,55% di preferenze – circa 20 punti percentuali in più rispetto a Vincenzo Bianconi, candidato della coalizione PD-M5S. In quel momento l’Umbria incarnava tutta la debolezza della galassia socialdemocratica: una regione traumatizzata dallo scandalo dei concorsi per assunzioni nella sanità truccati da esponenti della giunta “piddina” e finita nelle mani della destra dopo cinquant’anni di dominio della sinistra.
Qualche mese prima, nel maggio del 2019, le elezioni europee avevano assegnato alla Lega di Matteo Salvini il primato delle preferenze espresse dagli italiani, con un 34,3% che fece tremare gli allora partner di governo del Movimento 5 Stelle. Ci è voluta la crisi del Papeete per affossare le mire governiste di Salvini e riportare il Partito Democratico al centro della vita politica del Paese, ma le urne trasmisero un messaggio molto chiaro: il grosso dell’elettorato italiano stava confluendo nel centrodestra a trazione salviniana.
Per frenare l’avanzata della Lega e la tendenza tutta personale della sinistra italiana all’autodistruzione ci è voluto un evento drammatico come la pandemia di COVID-19. Le caratteristiche intrinseche dell’emergenza sanitaria, infatti, hanno determinato un riavvicinamento del popolo alle forze di governo impegnate nel rallentamento dei contagi e nella salvaguardia della salute dei cittadini. Parte del successo si deve anche all’esito delle trattative per il Recovery Fund, il cui risultato positivo ha permesso al premier Conte di silenziare la retorica antieuropeista di Matteo Salvini.
Ad ogni modo, molte cose sono cambiate dal marzo 2018. Quello che un tempo era stato l’astro nascente della sinistra liberale italiana, Matteo Renzi, ha fondato Italia Viva, la sua personalissima creatura politica; gli ammutinati di Liberi e Uguali – costola del PD vicina alle rivendicazioni di Bersani, Grasso e D’Alema – hanno alzato bandiera bianca e sciolto la coalizione a un anno dalla sua fondazione; Carlo Calenda, grande protagonista della fase più buia del Partito democratico – quella successiva alla sconfitta del 2018 – ha deciso di fondare Azione, un movimento dalla forte impronta centrista, che oscilla tra il liberalismo blairiano e il popolarismo di democristiana memoria; infine, l’attuale Ministro della Salute Roberto Speranza, insieme ad altri delusi del PD, ha deciso di creare il gruppo parlamentare Articolo Uno-Mdp, una creatura politica che, come specificato nel Manifesto, si caratterizza per una forte componente socialista e ambientalista.
Discorso a parte, invece, merita il Partito Democratico. A un anno dalla disfatta delle elezioni parlamentari, il 3 marzo 2019 il popolo di centrosinistra si è riunito attorno al nuovo segretario, il Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti. Con il 65% delle preferenze, Zingaretti ha surclassato gli altri sfidanti per la corsa alla segreteria del partito – Roberto Giachetti e Maurizio Martina – incarnando i valori che il popolo di centrosinistra, dopo gli eccessi personalistici di Matteo Renzi, si aspettava di scorgere nel nuovo segretario.
Pacato, simpatico e bonario, Nicola Zingaretti ha fin da subito cercato di riunire il popolo socialdemocratico scagliandosi contro i populisti del governo giallo-verde e, in particolare, contro il delirio di onnipotenza dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. Le critiche mosse dal segretario del PD a Salvini e all’alleanza Lega-M5S hanno riguardato soprattutto quella che, a suo dire, era una gestione indegna del dramma dei migranti e delle relazioni internazionali – in particolare in riferimento al caso della Sea Watch, all’aperto conflitto con l’Unione Europea e agli ammiccamenti nei confronti di Xi Jinping e Putin.
Qualcosa, però, stava ribollendo in pentola. Una personalità di sinistra come il premier Giuseppe Conte non poteva più tollerare né gli eccessi reazionari di Salvini, né l’arretramento sul piano politico e comunicativo mostrato dai dirigenti del Movimento 5 Stelle nei confronti dell’ex ministro dell’Interno. Una situazione esplosa nell’estate del 2019 che ha portato a un ribaltamento istituzionale e all’apertura di Conte nei confronti di Zingaretti. Così, nel giro di un mese, il premier del governo più populista d’Europa è divenuto il capo dell’esecutivo più a sinistra del continente.
Sfortunatamente, è molto difficile assegnare un giudizio sull’operato del governo giallo-rosso. I mesi precedenti al dilagare della pandemia hanno visto emergere molte incomprensioni e una pressoché totale assenza di visione a lungo termine. Ciononostante, l’emergenza sanitaria, seppur segnata da decisioni politiche molto impopolari – come nel caso della serrata nazionale dello scorso marzo – sembrerebbe aver rinvigorito la fiducia degli italiani nei confronti del PD e degli esponenti di governo appartenenti alla galassia socialdemocratica. Basti pensare al primato del premier Conte nella speciale classifica dei leader più apprezzati dagli italiani o agli elogi incassati dal ministro della Salute Roberto Speranza.
Purtroppo, però, la patina emergenziale che sporca l’azione della maggioranza nasconde delle insidie che i partiti di sinistra – e i loro alleati pentastellati – non possono più ignorare. La sete di potere di molti esponenti del PD, la competizione sibillina di alcuni partner di governo, l’incapacità di proporre programmi di lungo termine e l’assenza di coraggio su molte questioni chiave dal punto di vista sociopolitico – come quella relativa ai flussi migratori – sembrano suggerire una fragilità di fondo che, una volta terminata l’emergenza sanitaria, rischia di venire a galla in modo fin troppo manifesto. Ecco perché, al fine di comprenderne il reale stato di salute, si rende necessaria un’analisi delle problematiche con cui la sinistra rischia di scontrarsi una volta conclusasi la fase più acuta della pandemia.
Il problema della dirigenza: quale capo politico per la sinistra?
Le elezioni regionali dello scorso settembre che hanno interessato Valle d’Aosta, Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Campania e Puglia sono state l’ennesimo banco di prova per la maggioranza giallo-rossa. Ad avere la meglio, tra le due forze di governo, è stato senza dubbio il Partito Democratico. I socialdemocratici sono riusciti a conservare il feudo toscano – seppur con uno scarso margine di vantaggio rispetto alla candidata della Lega Susanna Ceccardi – la Campania dello “sceriffo” De Luca e la Puglia di Emiliano. Nelle mani del centrodestra sono rimaste il Veneto dell’astro nascente Luca Zaia, la Liguria di Toti, quindi le Marche e la Valle d’Aosta.
Al netto della prevedibilità dei risultati, a destare scalpore è stato il consistente ridimensionamento del Movimento 5 Stelle; un tracollo costato decine di migliaia di voti e una riduzione sostanziale del numero di consiglieri regionali. L’impietoso risultato ottenuto dai pentastellati ha spaccato il fronte interno in due fazioni: i “duri e puri” guidati da Alessandro Di Battista e i governisti vicini al ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Senza contare, poi, le numerose critiche mosse a Davide Casaleggio, eminenza grigia alla testa della piattaforma Rousseau, verso il quale molti parlamentari del Movimento hanno mosso aspre critiche relative a questioni di carattere fiscale.
Se è vero che per il Partito Democratico l’indebolimento della componente pentastellata potrebbe tradursi in un “ritorno all’ovile” da parte degli ex elettori di centrosinistra, altrettanto vero è che un tale ridimensionamento degli alleati rischia di determinare una serie di problemi anche per i socialdemocratici. In prima battuta, a emergere è un conseguente logoramento dell’autorevolezza dei numi tutelari del matrimonio PD-M5S. In termini più semplici, un indebolimento di Di Maio e compagni rischia di avere ripercussioni negative su chi, all’interno del PD, ha scommesso più o meno tutto; vale a dire Nicola Zingaretti.
Non è un caso, infatti, che, all’indomani delle regionali, negli ambienti socialdemocratici abbia iniziato a serpeggiare l’ipotesi di un cambio di dirigenza all’interno del Partito Democratico. In questo contesto, si sono fatte sempre più insistenti le voci che vorrebbero il governatore dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini come prossimo segretario del PD. Forte del risultato ottenuto alle regionali del gennaio 2020, Bonaccini si è attestato come un politico di centrosinistra molto attivo sul territorio, aperto a un fronte ampio di alleanze dove possano convergere le anime politiche più variegate e dotato di una personalità molto forte che gli ha permesso di intercettare voti al di là delle numerose divergenze interne – senza tralasciare l’ottima gestione della pandemia che ha permesso all’Emilia-Romagna di contenere il tasso di ricoverati in terapia intensiva.
Nelle ultime settimane, Bonaccini non ha mai espresso in maniera evidente la volontà di soffiare la segreteria a Zingaretti; tuttavia, di fronte alla domanda diretta di molti giornalisti, ha escluso tale possibilità solo nell’immediato futuro. In ogni caso, il governatore dell’Emilia-Romagna sembra avere le idee molto chiare sulla futura strutturazione del Partito democratico, a partire dalla riammissione di storiche personalità quali Pier Lugi Bersani e Matteo Renzi. L’apertura nei confronti del leader di Italia Viva, tra l’altro, esprime, in maniera piuttosto sottile, un certo disappunto nei confronti della gestione di Zingaretti. L’attuale segretario del PD ha infatti ottenuto legittimità, almeno in prima battuta, proprio in virtù di un contrasto più o meno manifesto con Matteo Renzi, del quale non ha mai amato la gestione personalistica del partito. Quella di Zingaretti è, difatti, una guida pluralistica che cerca di limitare al massimo ogni genere di protagonismo. Il suo PD è diventato un partito che dialoga e non impone, che apre ad alleanze fino a un anno fa inconcepibili e che mira a istituzionalizzare, invece di combatterlo, il populismo dei 5 Stelle; un atteggiamento da molti considerano rinunciatario e subalterno agli alleati di governo.
Bonaccini, dal canto suo, sembra avere idee molto diverse rispetto a quelle di Zingaretti. Il governatore dell’Emilia-Romagna, infatti, parrebbe voler replicare a sinistra uno schema di alleanze simile a quello del centrodestra – all’interno del quale trovano spazio populisti, sovranisti e liberali. Inoltre, il suo curriculum di buon amministratore di una regione dal forte tessuto industriale farebbe supporre che, da leader del PD, rispetto a quanto fatto da Zingaretti, Bonaccini sarebbe più disposto al dialogo con le forze economiche del Paese – in questo senso, l’apertura nei confronti di Matteo Renzi non sarebbe per nulla casuale e potrebbe condurre, nel lungo periodo, ad attrarre l’ala sinistra di Forza Italia. Da un lato, quindi, un amministratore dalla forte personalità progressista; dall’altro un segretario di partito più impegnato a rincorrere i 5 Stelle che a imporre la propria agenda di governo.
Vi è poi un’incognita legata al futuro del Presidente del Consiglio. Protagonista assoluto della fase più acuta della pandemia, Giuseppe Conte si è ritagliato, a suon di Dpcm, un ruolo chiave all’interno della vita politica del Paese. Coraggioso nel prendere decisioni impopolari sia per i cittadini che per le forze economiche, inamovibile a Bruxelles durante le consultazioni per il Recovery Fund, intollerante nei confronti di qualsivoglia esternazione salviniana, l’avvocato di Foggia è stato capace di conquistare un’ampia fetta dell’elettorato e di imporsi come personalità di riferimento nel panorama della sinistra; unico pacificatore di un popolo di centrosinistra lacerato dall’emorragia di voti nei confronti del M5S.
Per tutti questi motivi, molti opinionisti hanno iniziato a individuare nella figura di Giuseppe Conte il prossimo leader del centrosinistra. Proprio Bonaccini, rispondendo alla domanda di un giornalista su una sua ipotetica candidatura a segretario del PD, ha affermato che il Presidente del Consiglio è una figura di riferimento che potrebbe guidare un’ampia coalizione di centrosinistra. Come se non bastasse, l’investitura di Conte a leader dei socialdemocratici è arrivata dallo stesso Nicola Zingaretti, per il quale il Premier è “un fortissimo punto di riferimento di tutte le forze progressiste”.
Stando così le cose, per Conte sembra profilarsi all’orizzonte un ruolo analogo a quello che ebbe Romano Prodi prima con L’Ulivo e poi con l’Unione: quello di una personalità intermedia tra il M5S, il PD e i suoi partiti satellite, che possa riunire tutte le anime del centrosinistra all’interno di una coalizione ampia ed eterogenea. Quindi, una figura politica in cui elettori di diverse casacche sappiano riconoscersi, così da poter superare le singole sigle partitiche.
È ancora troppo presto per sapere se Conte accetterà un ruolo di questo genere una volta conclusasi la pandemia. Quel che è certo è che, qualora il Premier dovesse impegnarsi nella creazione di una coalizione per raggruppare progressisti, radicali, cattolici e liberali all’interno di un’unica sigla, l’attuale leader del PD, Nicola Zingaretti, sarebbe costretto a farsi da parte e a ritagliarsi un ruolo di secondo piano all’interno del panorama della sinistra. Ne conseguirebbe, inoltre, un indebolimento del Partito Democratico, che passerebbe dall’avere un ruolo cardine all’interno della politica italiana all’interpretare il ruolo di partner di una coalizione ampia e variegata. Difficile, comunque, immaginare che Conte possa ottenere il via libera dai vari Zingaretti, Renzi, Bonaccini, Di Maio e Di Battista, specialmente dopo un anno di governo caratterizzato, per lo più, da misure emergenziali e decreti ministeriali.
Succubi del Movimento: la difficoltà del PD di influenzare le scelte della maggioranza
Osservando quanto fatto dalla maggioranza nell’ultimo anno di governo, un dato in particolare emerge in tutta la sua chiarezza: al di là delle necessità gestionali imposte dalla pandemia di COVID-19, il Partito Democratico è parso sempre in affanno rispetto ai partner del Movimento 5 Stelle.
Se si escludono molte delle misure adottate per placare gli effetti devastanti del nuovo coronavirus, il PD di Nicola Zingaretti ha fatto registrare scarse doti persuasive nei confronti degli alleati. Quelle del MES, dei decreti sicurezza, del taglio dei parlamentari, sono tutte questioni che il Partito Democratico sembra aver accettato in nome di una convivenza civile all’interno del Consiglio dei ministri e di un malcelato desiderio di conservazione del potere.
Eppure, alla sua nascita, il governo giallo-rosso era stato accompagnato da auspici ben diversi. L’idea di molti addetti ai lavori era che il PD avrebbe potuto dettare l’agenda del Conte II in virtù della scarsa esperienza di governo dei pentastellati. Ad accompagnare le consultazioni di agosto-settembre 2019 era stata, inoltre, la convinzione che il Partito Democratico avrebbe potuto, da un lato, permettere al Movimento 5 Stelle di rompere in maniera definitiva con il populismo più intransigente, e dall’altro riconquistare l’elettorato perso a partire dal 2013. Se la prima delle due previsioni si è in un certo senso avverata, la seconda è ancora tutta da valutare. In definitiva, però, i fatti hanno dimostrato una sostanziale incapacità del PD di imporre il proprio programma di governo.
Un esempio molto calzante, in questo senso, riguarda il braccio di ferro ingaggiato da PD e M5S in relazione all’adozione del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità), le cui risorse sono state messe a disposizione degli Stati più colpiti dal nuovo coronavirus. Senonché, il fondo per l’assistenza finanziaria dei membri comunitari in difficoltà è, da anni, al centro delle più aspre polemiche contro Bruxelles.
Molte delle perplessità relative al MES riguardano la famigerata troika, il suo peso nella gestione delle risorse del fondo finanziario e gli effetti che essa potrebbe avere sulla ristrutturazione dello stato sociale delle nazioni che vi fanno ricorso. A spaventare quanti si avvicinano al MES è lo spettro della crisi greca e i tagli alla spesa pubblica effettuati da Atene come clausola per l’adozione del fondo. Tagli che hanno determinato la riduzione del 40% degli stipendi di oltre 30mila dipendenti pubblici, una diminuzione delle pensioni tra il 50% e il 60% del valore iniziale, una “privatizzazione degli asset strategici” – tra cui il porto del Pireo – e un tasso di disoccupazione attorno al 23%. Un sistema di vigilanza che i pentastellati hanno sempre giudicato un’imposizione finanziaria da parte di Bruxelles e Francoforte.
Tuttavia, a causa della crisi economica generata dalla pandemia di COVID-19, lo scorso maggio l’Unione Europea ha fatto sapere che l’erogazione delle risorse finanziarie del MES non sarebbe più stata sottoposta alle condizionalità del passato. L’unico requisito avrebbe riguardato l’obbligo di utilizzare i soldi del Fondo salva-Stati per far fronte a spese di tipo sanitario. Una strategia volta a supportare le economie degli Stati membri più colpiti dalla pandemia e a rafforzare i fragili sistemi sanitari europei.
Pochi giorni fa il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha messo la parola fine alla lunga telenovela riguardante il MES. Tuttavia, da maggio in avanti, il dibattito sull’utilizzo delle risorse del Fondo salva-Stati è stato così controverso da mettere in luce tutte le incongruenze dell’alleanza PD-M5S. Zingaretti e Renzi, favorevoli fin dall’inizio all’adozione del MES, si sono dovuti scontrare con l’inamovibile stato maggiore del Movimento 5 Stelle, il quale è arrivato a definire il fondo “uno strumento inadeguato, sia per la quantità di risorse che può mettere in campo, sia perché continua a essere insidioso nelle potenziali condizionalità future”.
Tralasciando i giudizi di campo, quello che è emerso dal dibattito sorto nel cuore della maggioranza di governo è una smaccata subalternità del Partito democratico nei confronti del Movimento 5 Stelle; una subordinazione messa in luce dall’incapacità, da parte dei leader del PD, di imporre l’adozione di un programma di aiuti finanziari validi per spese sanitarie, in un momento in cui le cliniche e gli ospedali del Paese hanno un disperato bisogno di personale, macchinari e dispositivi di sicurezza. Una questione aggravata dal comportamento del Premier, reo di aver concluso il dibattito parlamentare con una battuta lanciata ai giornalisti durante la presentazione del nuovo Dpcm.
Ma quello relativo al MES è solo un esempio della scarsa incisività del Partito Democratico all’interno della maggioranza. Ancor più grave, forse, è l’esito del dibattito riguardante i decreti sicurezza – sulla cui abolizione, durante le consultazioni per la formazione dell’esecutivo, il PD aveva fatto trasparire un atteggiamento più che intransigente.
Durante il governo Lega-M5S, il Parlamento, su proposta del ministro dell’Interno Matteo Salvini, aveva introdotto dei provvedimenti volti a inasprire le regole sull’immigrazione. I decreti sono stati presentati dal leader della Lega come norme atte a migliorare la sicurezza dei cittadini italiani. Le norme, però, sono state oggetto di aspre critiche da parte della comunità internazionale, in relazione alla parte dedicata alla gestione dei migranti. In politica interna, invece, sono presto diventate bersaglio prediletto degli accoliti del Partito Democratico.
Durante le consultazioni per la formazione del governo PD-M5S, l’abolizione dei decreti sicurezza è diventata uno dei capisaldi della “agenda obbligata” di Zingaretti. Per la sinistra, infatti, la modifica delle norme introdotte dal nemico leghista si presentava come un prerequisito fondamentale per riportare al centro del dibattito politico il tema dell’integrazione e per dire basta a un anno e tre mesi di porti chiusi e scontri con le ONG.
In ogni caso, per mettere mano ai decreti sicurezza ci sono voluti tredici mesi. Un anno in cui, tra problematiche di tipo sanitario e magagne di natura assistenzialistica, l’esecutivo giallo-rosso ha dapprima accantonato e poi ridimensionato gli interventi volti a eliminare le norme salviniane. Un periodo di tempo durante il quale PD e M5S sono riusciti a partorire solo un risultato parziale; vale a dire la modifica, e non l’abolizione, dei decreti sicurezza.
Benché l’intervento sia stato annunciato con clamore da Nicola Zingaretti, il nuovo “decreto immigrazione” si configura come un magro risultato rispetto all’enfasi posta sulla questione dai socialdemocratici tra agosto e settembre 2019.
Nel testo, il soccorso in mare viene affermato come obbligo costituzionale e internazionale. C’è poi il divieto di espulsione e respingimento di chi nel suo Paese rischia torture o trattamenti disumani, a cui va riconosciuta la protezione speciale, che sostituisce quella umanitaria. E anche il diritto a essere accolti e integrati.[1]
Un maggior allineamento rispetto ai principi del diritto internazionale, ma nulla più. Resta infatti irrisolto il nodo relativo alle multe nei confronti delle ONG che soccorrono i migranti nel Mediterraneo; multe che, con i decreti di Salvini, potevano arrivare anche a un milione di euro. Il nuovo “decreto immigrazione” stabilisce che “non si incorre in divieti se si opera il soccorso e lo si comunica immediatamente al centro di coordinamento competente e allo Stato di bandiera”. Tuttavia, “nei casi di inottemperanza e di ingresso forzoso in acque territoriali, l’illecito da amministrativo diventa penale, e la sanzione pecuniaria può andare da 10mila a 50mila euro”[2].
Restano quindi le sanzioni per le ONG e con loro tutta la nebulosità che contraddistingue le modalità di gestione dei flussi migratori – una situazione ben descritta dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte: “né porti chiusi, né aperti […] ma solo una disciplina più coerente con la Costituzione, la sicurezza e il diritto di protezione dei migranti”.
Se con l’eliminazione delle norme introdotte da Salvini i 5 Stelle si giocavano molta della loro credibilità – la giustificazione mediatica della completa adesione al leghista, prima, e della volontà di cancellarne i decreti, poi, si è imposta, fin dalle origini della maggioranza giallo-rossa, come un’opera di difficile attuazione – per i socialdemocratici il risultato ottenuto si configura come un vero e proprio fallimento. Nicola Zingaretti aveva scommesso molto sull’abolizione dei decreti sicurezza, e la loro parziale modifica rimarca quanto l’agenda di governo sia dettata in modo sostanziale dai pentastellati e quanto il PD faccia fatica a far valere le proprie ragioni all’interno dell’esecutivo. L’immagine che emerge, quindi, è quella di un partito dallo scarso potere decisionale, più tendente al compromesso che all’intransigenza ideologica.
L’incapacità del Partito Democratico di sintonizzarsi con il proprio elettorato di riferimento
Se il lettore volesse un assaggio di ciò a cui il Partito Democratico rischia di andare incontro una volta superata l’emergenza sanitaria, potrebbe risultare utile ripercorrere con sguardo critico quanto accaduto in occasione delle elezioni regionali dello scorso settembre in Toscana.
Prima che gli exit poll fugassero ogni dubbio, i vari quotidiani, social network, opinionisti e programmi di attualità hanno spesso insistito su quanto il candidato del PD, Eugenio Giani, rischiasse di perdere la competizione elettorale con la sfidante della Lega, Susanna Ceccardi. Uno scenario descritto con toni apocalittici che, proiezioni alla mano, deve aver fatto venire le palpitazioni a molti dei dirigenti del Partito Democratico.
Per tutta la durata della campagna elettorale, Giani non è mai sembrato del tutto sicuro di potercela fare. La Ceccardi, invece, ha dimostrato notevoli abilità comunicative ed è apparsa, fino all’ultimo, pronta per spodestare la giunta regionale socialdemocratica. Se si fosse verificato, il risultato avrebbe permesso alla giovane candidata del centrodestra di porre fine allo storico dominio della sinistra in Toscana e di aprire l’ennesimo tavolo di crisi all’interno del Nazareno.
In un remake delle consultazioni regionali in Emilia-Romagna, la buona gestione degli amministratori locali del PD e la radicata cultura di sinistra che contraddistingue la Toscana hanno permesso a Giani di conquistare la maggioranza delle preferenze e di allontanare, almeno per il momento, lo spettro di una giunta regionale leghista nel più rosso dei territori italiani. Eppure il 48,6% di preferenze che ha permesso al centrosinistra di mantenere il controllo della Toscana attesta, in maniera piuttosto inequivocabile, quanto il PD stia faticando a mantenere unita la propria platea elettorale.
Ultimata la difesa del feudo toscano, il Partito Democratico è sembrato piuttosto disinteressato all’idea di analizzare in profondità il risultato della tornata elettorale di settembre. I dirigenti socialdemocratici sono sembrati molto più interessati a difendere il 48,6% di Giani, piuttosto che a comprendere le ragioni alla base del notevole successo della Ceccardi: un 40,5% di preferenze che racconta di una sinistra in grande difficoltà anche nelle roccaforti rosse del Paese.
La risicata vittoria di Giani sottolinea quanto il centrosinistra sia in rotta di collisione con il proprio elettorato di riferimento; un fenomeno con oltre quarant’anni di storia capace di raggiungere picchi drammatici negli ultimi quattro anni. Il referendum del 2016, le elezioni parlamentari del 2018, la débâcle umbra e le sofferte elezioni emiliane e toscane sono tutti indizi che portano alla luce una vera e propria crisi di identità da parte della sinistra italiana; è come se la narrazione del Partito Democratico fosse del tutto disallineata rispetto alle esigenze e alle rivendicazioni di milioni di elettori. In particolare, i socialdemocratici sembrano aver perso la loro intrinseca capacità di interpretare i bisogni delle classi meno abbienti della società.
Senza alcun dubbio, le difficoltà riscontrare dalla sinistra nell’ultimo quadriennio trovano origine in fenomeni di lungo corso: la fine del dualismo comunismo-capitalismo, la crisi del sindacalismo di massa, l’apertura dei mercati, l’abbattimento delle frontiere e l’incapacità di individuare un paradigma alternativo rispetto a quello neoliberista; sono tutti fenomeni che hanno minato alle fondamenta la struttura ideologica della sinistra occidentale e hanno condotto i partiti progressisti a rincorrere le destre anche sul terreno delle proposte socioeconomiche.
In questo contesto, il Partito Democratico sembra navigare a vista. All’orizzonte non si scorgono personalità in grado di creare un paradigma alternativo a quello della destra neoliberista, con il risultato che i programmi del partito sembrano trovare, come unica ragion d’essere, la mera opposizione alla destra reazionaria di Salvini. Stando a quanto visto in Toscana e Umbria, la vicinanza con il Movimento 5 Stelle non sembrerebbe aver agevolato un riavvicinamento con l’elettorato più periferico. Inoltre, tutti coloro che tentano la scalata ai vertici del centrosinistra faticano a proporre narrazioni politiche in grado di attirare gli elettori confluiti in area populista: uno schema che si ripete da anni alla stessa identica maniera e che ha caratterizzato tutti i principali leader d’area, da Bersani a Zingaretti.
È possibile sostenere, a questo punto, che la pandemia ha congelato i problemi insoluti della sinistra. L’emergenza sanitaria ha sì determinato l’adozione di misure assistenzialiste e di strategie di interventismo statale molto vicine al mondo della sinistra, ma è pur vero che queste si sono configurate, fin da subito, come scelte obbligate dettate da una situazione emergenziale senza precedenti. Non bisogna poi dimenticare quanto molte delle decisioni adottate dal Governo si siano rivelate fallaci – da questo punto di vista, il ritardo nel pagamento della cassa integrazione è un esempio paradigmatico.
Per tutti questi motivi, il Partito Democratico – e con esso anche i suoi alleati – rischia di uscire dall’emergenza sanitaria non solo senza aver ricucito il legame con l’elettorato operaio, ma, addirittura, marchiato dallo stigma di una classe politica che, con le sue scelte in ambito sanitario ed economico, ha determinato la perdita di milioni di posti di lavoro e la chiusura di migliaia di attività. Se nei prossimi mesi la sinistra non dovesse riuscire a invertire la rotta, le nubi che si stagliano all’orizzonte di Zingaretti e compagni rischiano di tramutarsi in una tempesta dagli esiti infausti. A quel punto sarebbe davvero difficile, per il Partito Democratico, riallacciare il legame con il proprio elettorato e occupare posti di potere all’interno del Parlamento.
Alessandro Lugli per www.policlic.it
Note e riferimenti bibliografici
[1] Il governo modifica, ma non cancella, i decreti sicurezza di Salvini, “Linkiesta”, 6 ottobre 2020.
[2] Ibidem.