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La pandemia al servizio della digitalizzazione
La pandemia di COVID-19 ha offerto al mondo intero un’anteprima di quelle che potrebbero essere le città del futuro. Con la chiusura di uffici, bar e ristoranti i grandi agglomerati urbani si sono svuotati e miliardi di abitanti sono stati costretti a ripensare i propri stili di vita. Il ricorso forzato allo smart working ha determinato un cambiamento radicale delle abitudini dei lavoratori, al punto da costringere manager, imprenditori e amministratori a riflettere sulle migliori strategie per adeguare l’organizzazione del lavoro alle sfide del futuro.
Uno degli interrogativi più ricorrenti quando si parla di remotizzazione delle attività lavorative riguarda gli effetti della digitalizzazione sulle città. A ben vedere, la geografia delle grandi metropoli è stata alterata in maniera radicale dallo svuotamento degli uffici. Se fino a poco tempo fa la presenza in sede era considerata un dogma inattaccabile, l’introduzione del lockdown ha permesso di guardare al modello di lavoro basato sulla presenza in ufficio con sguardo un po’ più critico. In soli nove mesi, lo smart working è riuscito a svelare le criticità di un modello di sviluppo fondato sull’esclusiva presenza fisica e sulla concentrazione degli uffici nel cuore delle città.
Il passaggio dalle sedi di lavoro alle abitazioni, però, non è stato percepito in maniera univoca. In Italia, la maggior parte dei dipendenti aziendali e statali in regime di smart working si è detta molto soddisfatta della modalità di lavoro a distanza. Un’indagine effettuata su un campione di 600 persone ha rilevato che il 75% degli smart workers gradirebbe proseguire la propria attività professionale in modalità agile.
Al contrario, sindaci e amministratori sono apparsi molto più perplessi e alcuni di loro si sono detti piuttosto preoccupati per le sorti delle città. Il sindaco di Milano Beppe Sala ha più volte ribadito che lo smart working “non può essere considerato la normalità” e che parte del capoluogo lombardo sarebbe ferma “perché qualcun altro non lavora in presenza”. Alle preoccupazioni di Sala si sono aggiunte quelle del “primo cittadino” di Londra Sadiq Khan. Alle prese con una City deserta, il sindaco londinese ha invitato le persone a tornare in ufficio per scongiurare la chiusura di molte attività economiche come bar, tintorie e calzolai.
Quel che è certo è che la remotizzazione del lavoro sta determinando dei cambiamenti epocali nel modo di vivere le città. Complice la pandemia e la paura di ritornare a una normalità fatta di folle, spazi circoscritti e ambienti condivisi, lo smart working si sta profilando sempre più come una scelta e sempre meno come una necessità. Un esempio molto interessante è costituito dal cosiddetto South Working, un fenomeno che sta interessando i lavoratori meridionali impiegati al Nord, che hanno deciso di tornare nelle loro città natali per lavorare a distanza. Senza tralasciare quell’enorme porzione di studenti universitari che, potendo seguire le lezioni in streaming, ha preferito abbandonare gli appartamenti in affitto per risparmiare e rimanere più vicino ai propri cari.
Per comprendere la reale portata dello smart working basterebbe pensare ai cambiamenti che dallo scorso marzo hanno investito una metropoli come Roma. Nonostante a settembre la capienza massima consentita sui mezzi pubblici fosse stata stabilita all’80%, le linee metropolitane della Capitale hanno registrato un calo degli accessi tra il 40% e il 60%. Tra il 21 e il 27 settembre sulla linea Roma-Lido – quella che collega il comune di Ostia con il centro città – i passeggeri sono diminuiti del 38% rispetto allo stesso periodo del 2019. A conferma di quanto la remotizzazione del lavoro abbia potuto impattare la mobilità urbana, a fine agosto la società francese City Scoot ha comunicato la decisione di lasciare Roma per “spostarsi su altre realtà urbane più dinamiche”.
Al di là di ciò, il ricorso allo smart working è una questione che merita tutta l’attenzione possibile, dal momento che investe questioni di carattere sociale, economico e politico tra le più disparate. L’ipotesi di abbandonare la concezione del lavoro fondata sulla presenza in ufficio affascina e spaventa allo stesso tempo. Come tutte le innovazioni, però, anche lo smart working sembra comportare una vera e propria rivoluzione in senso socioeconomico e urbanistico. Da questo punto di vista, le città si candidano a diventare la vetrina prediletta per il cambiamento. Laddove si sono concentrate le attività economiche tipiche delle moderne economie occidentali – finanza e servizi – la digitalizzazione rischia di determinare cambiamenti strabilianti sui quali è necessario fare un po’ di chiarezza.
Lo svuotamento dei quartieri aziendali e il futuro incerto dei pubblici esercizi
La pandemia di COVID-19 ha avuto un impatto così duro sullo stile di vita occidentale da determinare la necessità di ripensare le economie europee e americane. Il ricorso allo smart working ha aperto un coinvolgente dibattito sulla scelta del modello di sviluppo più adatto a correggere le distorsioni del sistema produttivo capitalista. Non a caso, su internet e quotidiani la parola “alternativa” continua ad affacciarsi in maniera sempre più insistente assieme al termine “sostenibilità”.
Eppure, la crisi aperta dalla pandemia sembrerebbe correre molto più veloce della capacità delle élite di progettare un nuovo paradigma socioeconomico. Quello che sta accadendo ai grandi agglomerati urbani è il prodotto di un’innovazione anarchica, scevra da ogni tipo di controllo e programmazione. Mentre negozi e ristoranti chiudono i battenti, e le società di trasporto pubblico affrontano una crisi quasi irreversibile, nel cuore delle istituzioni il dibattito relativo alle infrastrutture digitali appare piuttosto in ritardo. Tuttavia, quello che sembra sfuggire a molti decisori è l’impossibilità di tornare al modello economico antecedente alla pandemia. Il problema non è se normalizzare o meno lo smart working, ma come farlo nel modo meno sperequativo possibile. Da qui la necessità di immaginare quale potrebbe essere il futuro di un lavoro sempre più tecnologico.
La conversione ecologica, l’iper-globalizzazione e l’ascesa inarrestabile del digitale sono lì a suggerire come il lavoro agile non sia destinato a eclissarsi assieme al coronavirus. In un mondo in cui le distanze geografiche sono ridotte al minimo e la velocità degli scambi commerciali è scandita dal ritmo delle dita sulle tastiere dei laptop, è ipotizzabile che quella agile sia destinata a diventare la modalità prediletta di esecuzione della prestazione lavorativa. Stando così le cose, amministratori e imprenditori sono chiamati a tenere in considerazione gli effetti che lo smart working potrebbe avere sulle grandi metropoli del pianeta.
Infatti, lo sviluppo tecnologico e la terziarizzazione dell’economia hanno portato le città a giocare un ruolo sempre più preponderante nel tessuto produttivo globale. Metropoli come Londra, New York e Hong Kong sono divenuti poli di scambi finanziari capaci di generare miliardi di dollari. Questo fenomeno ha portato alla creazione di veri e propri quartieri degli affari quali La Défense a Parigi, Bankenviertel a Francoforte, Segitiga Emas a Jakarta o Lujiazui a Shanghai.
Sparsi in tutti gli angoli del pianeta, questi hub economico-finanziari sono divenuti il cuore pulsante dell’economia globale. Nei grattacieli di questi quartieri condividono le scrivanie i più importanti manager del globo e vengono effettuati i più ingenti spostamenti di denaro del pianeta. Trattandosi dei centri nevralgici dell’economia mondiale, questi quartieri ospitano milioni di lavoratori. Per avere un’idea del numero di persone impiegate in uno di questi distretti finanziari è utile far riferimento ai dati relativi alla City di Londra. Secondo una stima del governo britannico, nel 2019 i lavoratori impiegati nel più importante centro finanziario d’Europa sarebbero stati circa 522.000; un numero di persone capace di garantire la sopravvivenza di imprese quali bar, ristoranti, barbieri e negozi.
Nel pieno della pandemia, questi ultimi soggetti sono apparsi proprio quelli più in difficoltà. Da un punto di vista organizzativo, tali imprese hanno avuto ben pochi strumenti per reagire alla chiusura della attività economiche. Al di là delle motivazioni di carattere sanitario, la chiusura degli uffici ha gettato il settore della ristorazione e quello degli esercizi commerciali in una crisi per certi aspetti inarrestabile. Già a marzo, la Federazione Italiana Pubblici Esercizi (FIPE) aveva lanciato l’allarme stimando, per il settore, perdite per circa 22 miliardi di euro entro la fine del 2020. Un danno economico che ha portato il governo italiano a introdurre misure di sostegno eccezionali per i lavoratori più colpiti dalle decisioni contenute nei nuovi Dpcm – come quelle previste dal Decreto Ristori dello scorso ottobre.
Per avere un’idea del peso specifico delle economie dei grandi agglomerati urbani a livello nazionale basterebbe prendere in considerazione il capoluogo della Lombardia. Infatti, le attività economiche dell’area metropolitana di Milano sarebbero in grado di generare una quota percentuale di PIL nazionale pari al 13%. Questo dato assume un significato ben più drammatico tenendo conto del fatto che 23 dei 180 miliardi di ricchezza in meno generati dall’Italia nel 2020 sarebbero dovuti alle perdite economiche dell’area Grande Milano. Il che sottolinea quanto le attività economiche delle metropoli siano ormai essenziali per il buon andamento dell’economia di un Paese.
Se in futuro la maggior parte dei dipendenti del settore impiegatizio dovesse stabilizzarsi in regime di smart working, i quartieri aziendali delle grandi metropoli dovrebbero affrontare una vera e propria rivoluzione strutturale. Bar, ristoranti, parrucchieri e negozi d’abbigliamento sarebbero costretti ad abbassare le saracinesche e a reinventare i propri modelli di business, aprendo scenari di grande incertezza sul futuro delle odierne economie.
Come dimostrato dall’attuale crisi dei pubblici esercizi, un evento di questa portata potrebbe avere conseguenze disastrose per il PIL di una nazione e rischierebbe di mandare in fumo tutte quelle imprese che fondano la propria ragion d’essere sulla presenza degli uffici. Senza contare il fatto che si renderebbe necessaria la riprogettazione di intere aree metropolitane. Quali attività potrebbero sostituire i negozi e i ristoranti costretti a chiudere? Quali conseguenze potrebbe avere la chiusura di queste attività per le filiere produttive del commercio e della ristorazione? Cosa potrebbero ospitare al loro interno i grattacieli abbandonati dalle grandi aziende? Pur trattandosi di semplici suggestioni, queste questioni sono destinate a occupare un posto di primo piano all’interno del dibattito sul futuro delle città, sebbene sia ancora piuttosto difficile capire secondo quali modalità.
La riduzione della domanda di uffici e il successo del coworking
Se lo spopolamento dei quartieri aziendali si presenta come conseguenza di un cambiamento selvaggio e incontrollato, è ipotizzabile che una sorveglianza più funzionale sullo smart working possa comportare una rivoluzione molto meno radicale. Una transizione più razionale potrebbe agevolare il passaggio a una concezione più moderna di luogo di lavoro. In quest’ottica, la condivisione degli spazi professionali potrebbe andare incontro a una visione ben più fluida e generare il successo del cosiddetto coworking.
Per coworking si intende una modalità di svolgimento dell’attività lavorativa che prevede la condivisione di ambienti forniti di strumentazioni adeguate e caratterizzati da spazi organizzati sul modello degli uffici aziendali. A differenza dei classici uffici, però, gli stabili dedicati al coworking sono occupati da persone che non appartengono per forza alla stessa azienda. Di fatto, coworking è un termine volto a identificare tutti quegli ambienti dotati di specifiche caratteristiche quali “uno spazio condiviso per lavorare con accesso libero h 24, una cucina, una sala riunioni, una zona relax comune, servizi igienici, connessione Wi-Fi e tutte le apparecchiature necessarie per stampare, fotocopiare, inviare fax e scansionare documenti”. È, perciò, un modello lavorativo molto utilizzato dai lavoratori autonomi in cerca di un luogo adatto allo svolgimento delle proprie mansioni.
Il coworking è un fenomeno che ha goduto di grande successo soprattutto nel Regno Unito, dove, da oltre un decennio, consulenti e liberi professionisti lo hanno eletto a modalità prediletta per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Grazie alla proliferazione di startup digitali e all’aumento dei lavoratori autonomi, negli ultimi anni anche in Italia si è assistito a una crescita dei luoghi destinati al coworking. Tra i vantaggi più immediati di questa nuova filosofia professionale vi sono la comodità e la convenienza economica: sebbene una postazione all’interno di tali strutture non sia gratuita, il suo costo di locazione risulta comunque meno gravoso rispetto alle soluzioni individuali.
A ben vedere, il coworking sembra rispondere a molte delle problematiche spesso riscontrate dai lavoratori autonomi. La possibilità di condividere uno spazio con altre persone potrebbe, in effetti, ridurre il senso di solitudine a cui sono molto spesso sottoposti i liberi professionisti – un problema riscontrato anche dalle tante persone attualmente in regime di smart working. Da questo punto di vista, lo svolgimento della prestazione lavorativa all’interno di un ambiente frequentato da altri liberi professionisti potrebbe incentivare la socialità e rendere meno alienante le giornate di lavoro. D’altronde una delle principali funzioni del coworking è sempre stata quella di mettere a disposizioni luoghi in cui ampliare le reti di contatti e porre in essere presupposti per creare nuove collaborazioni.
In un momento in cui lo smart working si appresta a diventare la modalità di svolgimento della prestazione lavorativa di riferimento, è ipotizzabile che la domanda di spazi per il coworking sia destinata a subire un deciso incremento. Dal punto di vista urbanistico, la moltiplicazione di locali da destinare alle attività professionali dei lavoratori agili potrebbe determinare una radicale alterazione della geografia delle città. Cavalcando le esigenze dei lavoratori sprovvisti di abitazioni adeguate all’esercizio delle attività professionali, gli immobili dedicati al coworking potrebbero svilupparsi nelle aree urbane in cui risiede la maggior parte dei lavoratori, vale a dire le periferie.
In un completo ribaltamento di logica rispetto alle caratteristiche del mondo professionale precedente alla pandemia di COVID-19, i lavoratori potrebbero finire per abbandonare le zone centrali delle città in favore delle aree a maggiore densità abitativa, permettendo, oltretutto, di riqualificare, pedonalizzare e rendere più ecosostenibili i centri storici. La proliferazione di spazi dedicati al coworking permetterebbe, inoltre, di risolvere il problema della viabilità, vero e proprio spauracchio di grandi metropoli come Roma, Milano o Parigi. Non dovendo più percorrere lunghe distanze per raggiungere il luogo di lavoro, gli impiegati in regime di smart working avrebbero la possibilità di scegliere una sede di coworking nei pressi della propria abitazione, rendendo quasi del tutto superfluo l’uso di mezzi pubblici e privati.
In aggiunta a ciò, è bene sottolineare come il miglioramento della circolazione stradale potrebbe essere agevolato anche da un aumento degli iscritti agli istituti scolastici dei quartieri più periferici. Un aumento delle strutture di coworking porterebbe i genitori di bambini in età scolare a scegliere un luogo di lavoro agile nei pressi della scuola dei figli, con un evidente risparmio in termini di tempo e mobilità. La possibilità di poter gestire gli impegni professionali e quelli genitoriali nella stessa area circoscritta – per di più vicino al proprio domicilio – sarebbe un vantaggio di cui sarebbero disposti a privarsi ben pochi lavoratori.
Da questo punto di vista, l’implementazione dello smart working e la crescita degli immobili per il coworking appaiono come due alleati fondamentali per la riqualificazione delle periferie e il miglioramento dei servizi delle aree metropolitane più indigenti; una questione tutt’altro che ininfluente alla luce del recente aumento delle diseguaglianze e della crisi sperimentata dai lavoratori manuali.
Lo smart working come opportunità per cambiare il volto delle periferie
In questi ultimi mesi il dibattito aziendale si è concentrato soprattutto sul futuro assetto degli uffici. La domanda che continua a rimbalzare da un consiglio di amministrazione all’altro è se per le aziende il mantenimento di tutti i dipendenti in presenza sia davvero la scelta più conveniente.
Se le previsioni relative allo smart working dovessero rivelarsi esatte, è chiaro che non sarebbe più possibile ritornare a un’affluenza del 100% all’interno degli uffici. Molti settori, come quelli finanziario, informatico, assicurativo e terziario, hanno già dimostrato di poter procedere a una riorganizzazione telematica senza contraccolpi in termini di efficienza. In questi contesti, lo svolgimento della prestazione lavorativa in modalità agile potrebbe addirittura favorire un abbattimento dei costi fissi che finirebbe per aumentare il saldo positivo delle centinaia di aziende passate stabilmente in regime di smart working.
Stando così le cose, la trasformazione della geografia urbana appare come una conseguenza inevitabile del consolidamento del lavoro da remoto. In una città come Milano, si legge in un articolo de “Il Foglio”, “sarà lecito aspettarsi una trasformazione di quartieri come Citylife e Gae Aulenti che prima del Covid sembravano avveniristici e oggi, invece, appaiono desolati e in cerca di una nuova identità”. Come se non bastasse, il mercato immobiliare è preda degli effetti devastanti della chiusura di uffici e atenei, e molte aziende hanno già deciso di spostare le proprie sedi in aree metropolitane molto più economiche rispetto ai quartieri che ospitano gli scintillanti grattacieli delle grandi multinazionali.
Dunque, il futuro è già qui. Le città stanno cambiando e il decentramento dei servizi è una realtà che sta coinvolgendo le aree urbane più sviluppate. Lo svuotamento dei centri storici e la richiesta di infrastrutture nei sobborghi stanno determinando la necessità di procedere a una revisione dei piani urbanistici delle metropoli. Lo smart working, in questo contesto, appare come la vera soluzione per la riqualificazione delle periferie e lo sviluppo dei servizi nei quartieri al di là del centro storico.
È un dato di fatto che la remotizzazione delle attività impiegatizie stia rappresentando un rischio enorme per i lavoratori manuali e quelli impiegati nei pubblici esercizi dei distretti aziendali. Tuttavia, se il lavoro agile dovesse divenire la principale modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, e lo svuotamento del centro città dovesse aumentare la domanda di servizi nell’hinterland delle grandi metropoli, è ipotizzabile che le periferie possano essere sottoposte a una profonda riconversione strutturale in grado di attenuare l’effetto sperequativo dello smart working.
La necessità di creare ambienti per il lavoro agile e la richiesta di infrastrutture fisiche e digitali potrebbero determinare un sensibile miglioramento dei servizi, in modo tale da accompagnare la riorganizzazione territoriale determinata dallo smart working. Questo fenomeno potrebbe, in parte, riassorbire i tanti lavoratori colpiti dalla chiusura degli uffici. Tutti quegli imprenditori alle prese con la crisi di negozi, bar e ristoranti potrebbero decidere di spostare le proprie imprese nelle periferie per assecondare la crescente domanda di servizi da parte dei lavoratori in smart working. Con un aumento del numero di lavoratori agili, nei sobborghi la domanda di servizi quali take away, supermercati, barbieri e negozi di abbigliamento potrebbe andare incontro a una vera e propria impennata. Così, la riqualificazione delle zone più isolate finirebbe per determinare una redistribuzione della ricchezza a favore delle frange più indigenti della popolazione.
Tali congetture assumono valore predittivo prendendo in considerazione i dati relativi al mercato immobiliare italiano. Secondo recenti studi, il confinamento dovuto alla diffusione della COVID-19 avrebbe determinato un deciso cambiamento nella domanda di abitazioni. Dopo più di due mesi tra le mura di casa – destinati ad aumentare in maniera considerevole stando all’attuale sviluppo della pandemia – il 58% degli italiani intervistati “ha rivalutato l’importanza del giardino […] e degli spazi più grandi”. Inoltre, “il 62% prenderebbe […] in considerazione, a parità di costo, una casa più spaziosa in periferia”. A subire un’impennata sarebbe stata anche la domanda di abitazioni in campagna con “un aumento del 29% rispetto al periodo pre-Covid”. L’apice sarebbe stato toccato a Viterbo, “con la domanda per abitazioni nelle periferie verdi incrementata del 123%”. Al contrario, invece, l’aumento della domanda per un’abitazione in città avrebbe riguardato solo 10 grandi centri urbani sui 106 presi in esame.
I dati relativi al mercato immobiliare italiano in piena emergenza sanitaria aiutano a comprendere quanto la geografia delle città sia destinata a cambiare nei prossimi anni. La possibilità di lavorare nella propria abitazione o – una volta terminata la pandemia – in un ambiente condiviso con altri impiegati rappresenta un deciso scarto di mentalità rispetto alla realtà urbanistica pre-COVID. Di conseguenza, il decentramento dei servizi e lo svuotamento degli uffici rischiano di modificare l’aspetto delle nostre città e di determinare una vera e propria rivoluzione in senso sociale, economico e abitativo.
Qualora i trend relativi al mercato immobiliare italiano dovessero rivelarsi costanti, lo smart working potrebbe dar vita a una nuova tipologia di città caratterizzata da periferie economicamente floride e socialmente inclusive. Il centro città, invece, potrebbe tramutarsi in un’area ecosostenibile dedicata al tempo libero, dove potersi concedere una passeggiata in bicicletta liberi da smog e assembramenti di varia natura. Una decisa inversione di tendenza rispetto ai centri urbani a cui gli abitanti delle grandi metropoli – specialmente quelli italiani – sono abituati da decenni.
Di certo è giunto il momento di riflettere sugli effetti che digitalizzazione e remotizzazione del lavoro potrebbero avere relativamente alla strutturazione delle nostre città. Se c’è una cosa che la pandemia ha insegnato è che il progresso, spesso e volentieri, rischia di correre molto più veloce delle idee. Stavolta, però, la posta in gioco sembra essere molto più alta rispetto al passato e i cambiamenti strutturali che stanno travolgendo le società di tutto il globo richiedono risposte pratiche e di ampio respiro. Il rischio, altrimenti, è che il progresso possa sfuggire al controllo delle istituzioni, con conseguenze pericolose per le nostre città e le società che le abitano. Ecco perché lo smart working, al pari di qualsiasi altra innovazione, necessita una gestione capace di tenere in considerazione ogni possibile conseguenza. D’altronde, otto mesi di remotizzazione delle attività lavorative non sono forse bastati per svelare tutta la forza rivoluzionaria della tecnologia?
Alessandro Lugli per www.policlic.it