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Introduzione al concetto di consumo
Nella vita quotidiana tutto ciò con cui entriamo in contatto o che produciamo è determinato dal consumo: è consumo quello che ci permette di respirare, di mangiare o di muoverci, quello che permette alle piante di crescere, alla pioggia di cadere, al vento di soffiare. È strettamente legato alle risorse che può distruggere, per produrre nuove forme di energia che vengano spese per i vari scopi o bisogni. La natura è il luogo nel quale il consumo è regolato al meglio, poiché non viene sprecata energia e non viene prodotto nessuno scarto non necessario, grazie ad efficienze molto elevate, garantite dai cicli chiusi[1]. In un sistema autoregolato come quello che produce energia, dove non si possono consumare più risorse di quelle disponibili, l’uomo è sempre sceso a compromessi, dovendo trovare una maniera efficiente di imitare i cicli di produzione energetica della natura.
Il sole, motore e origine di tutti i meccanismi del nostro pianeta, ha sempre rappresentato per l’uomo una risorsa importantissima, proprio come l’acqua, la terra e il vento: queste fonti di energia dovevano essere sfruttate e incanalate in sistemi efficienti e funzionali, che ci permettessero di produrre energia per determinate ragioni e bisogni.
Tutto sommato i nostri antenati non se la cavavano malissimo, considerando che i popoli cacciatori-raccoglitori consumavano quasi esclusivamente energia muscolare e legna per il fuoco, oltretutto in modo efficiente: inizialmente cacciavano con le lance, spendendo soltanto una caloria a fronte di sette acquisite, per poi arrivare, con lo sviluppo di nuove tecnologie, come l’arco e le frecce, a migliorare questo rapporto fino a 1:9[2].
A cambiare tutto fu però l’introduzione di nuove abitudini sociali, passando dal nomadismo al sedentarismo, quindi iniziando a praticare l’agricoltura e l’allevamento. Queste nuove pratiche resero la vita dell’uomo immensamente più semplice, portando quel rapporto di dare-avere a una caloria spesa per 50 acquisite! Sono numeri straordinari, se paragonati a quelli odierni. Se prima si puntava, per sopravvivere, a spendere il minimo per guadagnare il massimo, adesso il rapporto si è invertito: si può stimare che l’essere umano oggi spenda fino a dieci calorie per ottenerne una. Questa incredibile inversione dipende dal fatto che, per sostenere le nostre diete, utilizziamo prevalentemente petrolio, necessario per i trasporti, per la produzione, per la distribuzione e così via, spingendo il consumo a livelli inconsapevolmente molto più alti di quanto ci aspettiamo. Alla luce di tutto ciò, è sorprendente pensare come il nostro modo di sfruttare e modificare la terra sia cambiato.
È chiaro e inequivocabile che noi, ospiti della terra nel 2021, siamo abituati a dei livelli di comfort altissimi, tanto da renderci impossibile immaginare la vita dei nostri antenati. Nella nostra quotidianità possediamo case accoglienti, acqua corrente (e potabile), luce e prodotti di igiene personale e possiamo raggiungere agevolmente servizi di ogni genere, provvisti di qualsiasi tipo di bene primario e non. Le architetture richiedono, però, livelli di spesa energetica altissimi, non solo nella fase di costruzione, ma nell’interezza del loro ciclo di esistenza.
Mentre la storia preindustriale ci delinea un rapporto tra comfort e consumo nettamente a sfavore del primo, con l’industrializzazione si assiste a una nuova presa di coscienza, in cui il benessere e la comodità non devono essere sacrificati in nome della massima efficienza. Oggi quel rapporto si è completamente ribaltato, ma quali sono le ragioni alla base di questa insostenibilità?
La vita preindustriale: il compromesso tra consumo e comfort
Sono le trasformazioni tecnologiche che hanno portato l’uomo a uscire dalla capanna primitiva di Laugier[3] per abitare i piani più alti di edifici come l’Empire State Building; le stesse trasformazioni che si sono susseguite incessantemente fin dagli inizi della storia dell’uomo, adattandosi ai periodi storici e alla società. Ma le tecnologie non sono sempre state così pervasive o determinanti nella vita dell’uomo, poiché spesso a una tecnologia poco performante si sostituiva una pianificazione intelligente e una diversa consapevolezza dei limiti imposti dalla natura sulle opere umane.
Il passaggio dalle first societies[4] alle società agropastorali non fu così netto come spesso viene lasciato intendere: le condizioni favorevoli di certi luoghi e comunità[5] portarono a un passaggio lento e non scontato che favorì la sedentarietà. Le caratteristiche ambientali tracciarono dei limiti all’espansione umana: i grandi deserti dell’Eurasia, la steppa e la tundra dell’Asia centrale e del Canada, insieme a fitte foreste pluviali e catene montuose, divennero le condizioni di confine per le società agropastorali, definendo culture fortemente legate alle condizioni di partenza dei loro territori.
I villaggi erano l’insediamento dominante nel primo mondo civilizzato: si doveva riempire i granai, badare alle greggi, costruire case e canali di irrigazione, facendo concorrere tutto al buon funzionamento della macchina-villaggio, quel luogo nel quale ognuno, uomo o donna, aveva un ruolo e una funzione. Era una vita faticosa e spesso breve, dove le condizioni climatiche, la fauna e le intemperie aggravavano situazioni già molto difficili, e dove svolgere le attività domestiche quotidiane, come cucinare, tessere o curare la famiglia, era un vero e proprio lavoro.
Le costruzioni, che queste fossero abitazioni o edifici con funzioni comunitarie, erano sviluppate con materiali facilmente reperibili e con morfologie attinenti al luogo e al clima. Così, in un clima caldo e umido si sceglieva più facilmente un’abitazione in legno, magari su una palafitta, per isolarsi dai raggi del sole, ma non dal costante passaggio di refoli d’aria; un clima caldo ma secco, invece, richiedeva di sfruttare l’escursione termica quotidiana, e attraverso muri molto spessi si sfruttava inconsapevolmente il fenomeno dell’inerzia termica[6]. Di base, per ogni luogo e clima si sviluppava, tramite tentativi empirici e prove pratiche di diversi materiali e morfologie, l’architettura più performante per le condizioni in cui ci si trovava: un involucro di legno, con il suo potere isolante, riduceva le dispersioni verso l’esterno; mentre quelli di pietra o mattoni riuscivano a fare di meglio, attraverso l’inerzia per la regolazione della temperatura e il rilascio notturno del calore accumulato durante il giorno e viceversa.
Nonostante venissero presi tutti gli accorgimenti del caso, le abitazioni rimanevano luoghi insalubri, frequentate solo per cucinare e dormire, e la giornata si viveva prevalentemente all’aperto, dove si potevano trovare luce e aria. Le abitazioni erano infatti piccole, solitamente dotate di un’apertura sul tetto per far fuoriuscire il fumo del focolare e, al più, con una piccola finestra e una porta, sempre aperte, per favorire l’aerazione. La finestra, se presente, rappresentava un compromesso non sempre ottimale: aria e luce erano in minima parte garantiti, ma si favoriva l’esposizione alle intemperie e l’ingresso di insetti e di tutto ciò che anche noi oggi preferiremmo tenere fuori dalle nostre abitazioni. Il mobilio era minimo, rispondeva alle necessità più basilari (mangiare, dormire e conservare oggetti essenziali), e l’impermeabilità era spesso garantita dalla coltre di fuliggine che si depositava sul tetto e sui muri, con un miglioramento prestazionale dell’involucro edilizio, ma con un netto peggioramento delle condizioni di salute.
I principi edilizi con il passare dei secoli e con l’avanzare delle tecniche[7] non si modificarono particolarmente, ma di contro si iniziarono a sviluppare le città[8], realtà molto più difficili e articolate da gestire. A supporto di una progettazione smart, come diremmo noi oggi, si aggiunse una prima vera gestione del pubblico benessere attraverso una pianificazione urbana.
In Mesopotamia intorno al 2000 a.C. si assistette a un periodo di straordinario avanzamento[9] urbanistico: per esempio, ad Eshununna le stanze da bagno erano disposte verso l’esterno, garantendo lo scolo dei liquami in un collettore fognario che si estendeva lungo tutta la strada; in città come Ur o come Mohenjo-Daro erano presenti sistemi di raccolta dei rifiuti, tubature in terracotta, collettori per l’acqua piovana e vi era una correlazione stretta tra progettazione delle abitazioni e pianificazione dell’ordine urbano[10]. Oltretutto la stessa maglia urbana, fitta, stretta e ortogonale, aveva una funzione specifica per garantire un certo comfort, proteggendo sia dal sole sia dalle forti raffiche di vento.
In Occidente le prime città furono quelle romane[11], grandi insediamenti generati solitamente dai castra[12], ricchi di funzioni e composti da un tessuto molto complesso. Nelle città, l’insula rappresentava l’unità minima della maglia ortogonale: questi edifici crescevano come funghi, alti fino a sette-otto piani e addossati gli uni agli altri, dove anche in alto bisognava far arrivare, trasportandoli a mano, i beni indispensabili come l’acqua, la legna e i viveri. Le cellule delle insulae erano i cenacula[13], mentre ai piani terra si trovavano solitamente attività di bottega, manifatture o piccole terme. A servire le abitazioni vi erano dei pozzi neri comuni e dei sistemi di smistamento dell’acqua, che comunque non erano particolarmente igienici o puliti. Nel mondo romano la propria estrazione sociale faceva nettamente la differenza sul tipo di vita che si poteva fare: se da una parte gli umili vivevano stipati nei cenacula, dall’altra, soprattutto nelle città provinciali, i ricchi abitavano le domus, che invece possedevano tutte le comodità e le tecnologie disponibili al tempo[14].
Sia i poveri che i ricchi, seppur in modo diverso, dovevano combattere con i limiti del loro tempo e con la necessaria fatica che bisognava fare per ogni piccola cosa. Ciò che rendeva tollerabile la vita era l’attenzione alla salubritas[15], che fosse pubblica o privata, la pianificazione attenta[16] e l’organizzazione urbana, con fognature, acquedotti e strade efficienti. Certo, la fatica era costante ogni giorno e a volte intollerabile, però la vita era nettamente più semplice di quella delle popolazioni dei villaggi neolitici.
Caduto l’impero la situazione degenerò rapidamente: la mancanza di un sistema centrale che gestisse la complessità dei sistemi urbani, l’incapacità di progettare secondo le buone norme vitruviane, la devoluzione tecnologica dei cantieri e la morte delle produzioni di materiali[17] portarono a un netto peggioramento della vita dell’individuo. Le strade erano invivibili, stracolme di rifiuti e prive di servizi di igiene urbana[18] ma, nonostante le differenze tra gli impianti classici e quelli medievali, con il passare del tempo la città si riappropriò dei suoi spazi sviluppando nuove forme di organizzazione[19].
Le persone passavano ancora la maggior parte del tempo all’aperto, in strette strade a gomito e piccoli vicoli, protetti dal freddo e dalle intemperie: per quanto dura fosse la vita all’aperto, veniva comunque preferita a quella dentro casa. Le abitazioni erano fumose e sporche, quelle contadine spesso formate da un’unica stanza in cui si trovava il focolare, che poteva essere centrale o addossato a una parete e il cui fumo poteva uscire solo dal tetto, da una finestra o dalla tromba delle scale (se la casa aveva più piani). Una valida alternativa, per il riscaldamento, erano gli animali, che sostituivano con cattivi odori e sporcizia il problema del fumo, ma che, a differenza di quest’ultimo, non rendevano l’aria soffocante[20].
L’aristocrazia viveva con standard migliori dei poveri, ma rimaneva comunque in condizioni di consistente disagio: i castelli, i palazzi o le rocche erano grandi costruzioni, di legno e/o pietra, dove la vita era semplice, con un mobilio essenziale, finestre piccole e senza vetri[21], soffitti alti e ambienti freddi. La vita dei nobili, fino al primo Rinascimento, era essenzialmente al freddo e al buio, e bisognava scegliere tra forti correnti d’aria e luce.
Nonostante venissero gradualmente inserite nuove tecnologie, come il camino o la stufa[22], e specialmente in città le abitazioni col tempo migliorassero, le condizioni di vita dell’era preindustriale rimasero pressoché invariate; il consumo di risorse e di energie venne centellinato e gestito in modo il più razionale possibile, riducendo gli sprechi al minimo.
La rivoluzione industriale: gli strumenti per cambiare il mondo
A modificare radicalmente i sistemi edilizi e tecnologici dei periodi precedenti è la rivoluzione industriale, in seguito alla quale non furono solo le città a cambiare, ma anche i modi di produzione e di consumo[23]. Urbanisticamente le città dovettero iniziare a ripensare il loro concetto di salubritas, sia dentro le tantissime vecchie e nuove case, sia per le strade delle sempre più affollate città metropolitane.
Una delle prime consuetudini a essere modificata dalla tecnologia fu la modalità per l’approvvigionamento dell’acqua: mentre in passato si poteva raccogliere l’acqua essenzialmente dalle fontane cittadine comuni, nel XIX secolo lentamente ci si mosse in una direzione diversa. La raccolta e la distribuzione manuale avvenivano ogni volta che si finiva o si contaminava l’acqua, quindi si doveva fare molta attenzione agli sprechi. Con la costruzione di reti idriche[24], dove l’acqua veniva convogliata in tutte le abitazioni, la situazione iniziò a cambiare notevolmente, seppure con velocità diverse in base allo sviluppo economico della zona geografica.
Un’altra novità, ma che interessò il suolo inglese, fu l’introduzione del water closet[25]: la disponibilità di acqua nelle case inglesi permetteva di riempire il WC prima dell’utilizzo, a valvola chiusa, e successivamente di scaricare i liquami con l’apertura della valvola, tutto mediante un’asticella. A perfezionare questo sistema fu, nel XIX secolo, l’adozione del “collo d’oca”, necessario per impedire la risalita di miasmi nelle anguste e non ventilate latrine. Ovviamente le abitazioni in cui si trovava una latrina domestica erano quelle dei benestanti, tutte collegate a collettori che convogliavano i liquami in pozzi di raccolta regolarmente svuotati; i poveri, invece, dovevano accontentarsi di latrine a uso di numerose abitazioni, il cui svuotamento era saltuario.
A livello igienico il water closet inglese, se confrontato con il resto d’Europa, era innegabilmente superiore, grazie alla valvola e al collettore che creavano una separazione tra pozzo nero e gabinetto. Lo smaltimento, tuttavia, non era all’altezza delle nuove tecnologie: il netto aumento di liquami nei pozzi comportò un relativo aumento degli stessi nel Tamigi, dove confluivano tutte le condotte fognarie. Come fu possibile, dato che i pozzi neri dovevano essere svuotati manualmente? Questo dipendeva dall’acqua, che aumentava notevolmente la quantità di scorie nei pozzi, e che rendeva estremamente gravoso smaltire così spesso i liquami, che a quel punto venivano convogliati negli scarichi delle acque grigie[26]. Il Tamigi era diventato praticamente una cloaca a cielo aperto, inquinato non solo delle acque dei macelli e delle industrie, ma pure delle deiezioni umane. Oltretutto le stesse acque del fiume venivano poi pompate nel resto della città, con l’inevitabile conseguenza delle epidemie di colera.
Per risolvere il problema epidemiologico venne costruita una nuova rete fognaria, ultimata nel 1865, che sostanzialmente spostava più a valle il problema, così da non inquinare le acque che venivano pompate in città, ma comunque continuando a inquinare altrove.
Il diffondersi di reti di acqua potabile, i nuovi sistemi fognari ramificati nelle città e gli innovativi materiali edilizi andarono a sommarsi alle migliorie necessarie per spostare la vita dell’uomo dalla strada, che nel passato era preferita alla scomoda e malsana abitazione, a una comoda e accogliente casa privata. A spingere velocemente verso nuovi traguardi tecnologici furono proprio le imprese industriali, che necessitavano di sistemi sempre più efficaci ed efficienti per produrre di più e a costi minori.
Insieme alle reti fognaria e idrica, l’illuminazione è oggi, come lo è sempre stata, fondamentale per le attività umane: nel XIX secolo era affidata quasi esclusivamente alle lampade a olio[27] e alle candele di cera, tranne che nelle città, in cui si iniziava a diffondere l’illuminazione a gas. La Francia fu la prima a sperimentare questo tipo di tecnologia[28], ma nonostante l’avanguardismo di questa iniziativa fosse evidente, non ebbe un vero seguito. Diversa fu la posizione dell’Inghilterra, che si dimostrò molto interessata e predisposta, soprattutto a causa delle limitate provviste di olio per lampade[29] e dei frequenti incendi nei cotonifici causati dal fuoco libero. Nel maggio del 1815 a Londra si registravano 25 km di condutture per il gas, destinate ad aumentare fino a 40[30] già nel dicembre dello stesso anno: l’illuminazione serviva le strade, le industrie, le istituzioni e le case, aumentando la sicurezza pubblica, le ore di lavoro possibili e migliorando la luminosità delle abitazioni.
Tuttavia, l’illuminazione a gas era sempre per combustione, non diversa da quella preistorica: poco efficiente e ad alto consumo, oltre che con spiacevoli inconvenienti dovuti al suo utilizzo, come la fuliggine su pareti, mobili, tendaggi e via dicendo. Era solo questione di tempo prima che facesse capolino una tecnologia più efficiente: l’elettricità.
Quest’ultimo ritrovato tecnologico, già negli anni Ottanta dell’Ottocento, iniziò a comparire per illuminazioni pubbliche e domestiche, supportato poi dallo sviluppo di lampadine a incandescenza sempre più performanti, con grande sgomento delle aziende produttrici del gas che, nonostante il loro tentativo di tener testa all’energia elettrica sul mercato, dovettero arrendersi. L’uso del gas fu convertito a funzioni che conosciamo ancora oggi: calore per cucinare, per riscaldare ambienti o acqua. Anche il riscaldamento si ammodernò, con lo sviluppo di nuovi sistemi come la centralizzazione delle caldaie, le stufe elettriche o a gas, ingegnosi sistemi di riscaldamento dell’aria[31] o, ancora, reti pubbliche di teleriscaldamento.
Queste innovazioni tecnologiche, che miglioravano notevolmente la vivibilità delle abitazioni e il benessere che poteva derivare dall’abitarle, tuttavia non modificavano drasticamente le normali attività domestiche: preparare un pasto, lavare gli indumenti, pulire il pavimento o le stoviglie erano tutte attività che richiedevano molta fatica: erano manuali, difficili e pesanti. L’industria, alle soglie del Novecento, intercettò queste necessità e iniziò a produrre anche elettrodomestici, il cui consumo esplose a secolo inoltrato nei Paesi più sviluppati, mentre tardò in Paesi con una forte componente rurale, come in Italia, dove si dovette attendere fino al secondo dopoguerra. Dai fornelli ai bollitori, dalle lavastoviglie alle lavatrici fino ai frigoriferi, si crearono nuove necessità, nuovi consumi e richieste di strumenti sempre più efficienti per migliorare la vita, soprattutto delle donne, principali designate ai lavori domestici.
Architettura moderna: ecomostri e dipendenza energetica
Buttando ancora un occhio al passato diciamo un paio di cose su tre ritrovati tecnologici che per noi fanno parte della normalità, ma il cui sviluppo fu alla base dell’architettura moderna: l’acciaio (e prima la ghisa), il calcestruzzo armato e il vetro.
Il sistema di produzione del vetro nel corso dei secoli[32] si è continuamente raffinato, ma ha potuto raggiungere certi livelli di qualità e di economicità solo con le moderne produzioni industriali[33], quando nel 1959 arrivò il float glass. Questo sistema, usato ancora oggi, unificò tutte le fasi di produzione facendo letteralmente galleggiare la lastra di vetro su un bagno di stagno fuso. La produzione non solo si velocizzò enormemente, ma aumentò notevolmente sia la quantità di vetro in commercio che la sua economicità, senza sacrificare la qualità, che invece aveva raggiunto nuovi standard di perfezione, con superfici perfettamente trasparenti e lucide.
Un percorso simile fu quello che interessò l’acciaio e il calcestruzzo armato, da subito visti come sostituti pratici e funzionali dei vecchi sistemi edilizi: entrambi permettevano di costruire più velocemente e più economicamente, oltre a garantire ad architetti e ingegneri una maggiore libertà nei loro progetti, consentendo di sviluppare luci[34] e altezze che i vecchi materiali non avrebbero mai permesso.
Come sappiamo, l’involucro edilizio dei nostri edifici ha da sempre avuto la protezione come funzione specifica, in base alla quale gli edifici venivano progettati con materiali, spessori o metodi diversi. Come abbiamo detto prima, parlando di architetture preindustriali, l’involucro ha sempre avuto lo scopo di mediare tra il clima, che esso fosse torrido o artico, e il benessere all’interno delle abitazioni. Questi nuovi materiali, più economici, performanti e “moderni” hanno preso il posto di quelli vecchi, modellando il pensiero dell’architettura contemporanea e diventandone sia espressione che sostanza.
È plausibile che una parte della responsabilità nella determinazione dell’immagine della modernità sia stata dei persuasori occulti[35], ossia di quei produttori di certi beni – come vetro, acciaio, sistemi di climatizzazione, di elettricità, di tecnologie per l’edilizia (i frangisole, per esempio) e così via – che avevano interesse affinché le abitazioni fossero costruite con i loro materiali e fornite dei loro servizi. Anche l’architettura, intesa come disciplina, e i progettisti contemporanei hanno, in tal senso, una responsabilità. Come afferma anche lo storico dell’architettura K. Frampton:
su questo sfondo piuttosto complesso vanno valutati il successo e il fallimento dell’architettura moderna [che] senza dubbio ha giocato un certo ruolo nell’impoverimento dell’ambiente, […] preoccupata – con buone intenzioni, ma a volte mal intenzionata – di assimilare le realtà tecniche e metodologiche del XX secolo, l’architettura ha adottato un linguaggio nel quale l’espressione è prevalentemente racchiusa nelle componenti secondarie, come rampe, passaggi pedonali, ascensori, scale, scale mobili, camini, condotti e scarichi dei rifiuti.[36]
L’attenzione che i nostri antenati dedicavano alla costruzione di edifici, all’orientamento degli stessi e alla selezione dei materiali da utilizzare, nel XX secolo semplicemente scomparve: la tecnologia è passata dall’essere una valida alleata per sistemi edilizi autosufficienti, a una stampella senza la quale la gran parte delle architetture non potrebbero essere abitate. Il vetro non ha nessun potere isolante, non ha nessun valore per l’inerzia termica e il suo unico pregio è il riuscire a far passare luce e calore. L’acciaio non ha potere isolante, ma è invece un ottimo conduttore di energia, trasportando benissimo calore sia all’interno che all’esterno delle abitazioni. Il calcestruzzo armato è un compromesso migliore rispetto ai due precedenti, ma non ha il potere isolante del legno, né l’inerzia termica, che potrebbe essere garantita solo da grandi spessori, che renderebbero però il materiale inutile per le funzioni per cui viene utilizzato[37].
Il concetto di modernità ha portato a un livellamento delle differenti consuetudini edilizie: edifici identici si vedono a Dubai come a New York, nonostante le sostanziali differenze geografiche, climatiche e di risorse. Tutte le differenze vengono ampiamente superate dalle tecnologie, in barba ai consumi spropositati e non necessari. Questi edifici non sarebbero vivibili se non fosse per l’elettricità o il gas. Infatti, senza elettricità in questi edifici non ci sarebbe acqua, non ci sarebbe un impianto di climatizzazione, non ci sarebbero ascensori, né frigoriferi o luce la sera.
Sembra incredibile che la sola mancanza di energia elettrica possa trasformare la nostra vita così come la conosciamo; ma proviamo a immaginare una situazione straordinaria: viviamo al ventesimo piano di un grattacielo di vetro e acciaio, nel cuore della zona commerciale di Dubai, che è colpito da un improvviso blackout elettrico. Ora, senza la costante climatizzazione la dispersione termica sarebbe talmente ampia da trasformare quel piano in un forno di giorno e in una ghiacciaia di notte in pochi minuti; non potremmo avere nemmeno un bicchiere d’acqua (salvo riserve al piano) senza scendere a terra e sperare che ce ne sia ancora; non avremmo un ascensore per aiutarci a salire e scendere e, se la cucina non fosse alimentata a gas ma con moderne piastre a induzione, non avremmo neppure modo di cucinare o di riscaldarci nel freddo della sera, se non portando al ventesimo piano della legna e dei fiammiferi, rigorosamente a piedi.
Diventa incredibilmente spaventoso, in relazione a tutte le implicazioni che potrebbero esserci, il pensiero che il nostro stile di vita sia appeso a una variabile, la cui assenza probabilmente scatenerebbe l’apocalisse. Tuttavia, e questo è un fatto, edifici molto meno futuristici di quello sopra descritto sarebbero inospitali. Noi consumiamo tanto e male, senza nemmeno interrogarci sulle risorse che sfruttiamo o sull’impatto che queste hanno sull’ecosistema. Come abbiamo detto all’inizio, il consumo dipende dalle risorse, ma queste sono limitate.
Architettura sostenibile: cosa significa davvero?
La sostenibilità è come il sesso per gli adolescenti. Tutti dicono di farlo, pochi lo fanno davvero, quelli che lo fanno davvero lo fanno male.[38]
L’architettura è una pratica costosa, in termini sia economici che energetici: per costruire un edificio occorrono i materiali, per la cui produzione serve molto consumo; bisogna trasportarli per medie e lunghe distanze; bisogna avviare un cantiere e sostenere energeticamente tutti i macchinari, oltre alle risorse che vengono consumate per appaltare i materiali e la gestione di tutti i rifiuti che si producono lungo tutto il corso di vita del cantiere. Ma il consumo non finisce lì; continua durante tutta l’esistenza di un edificio, che in ogni momento del giorno assorbe risorse, fino alla sua demolizione, che produce alti quantitativi di rifiuti spesso non riciclabili. Di base, le statistiche riportano che il settore delle costruzioni è una delle principali fonti di emissioni di CO2 in atmosfera. Secondo il Global Status Report del 2017:
Accounting for upstream power generation, buildings represented 28% of global energy-related CO2 emissions, with direct emissions in buildings from fossil fuel combustion accounting for around one-third of the total. Buildings construction represented another 11% of energy sector CO2 emissions.[39]
Nonostante si siano fatti passi avanti rispetto al passato, il problema continua a riguardare gli edifici già esistenti, che nella maggior parte dei casi si presentano come architetture di basso pregio.
Infatti, anche se le abitazioni contemporanee devono rispettare determinati requisiti per essere costruite e avere un ridotto impatto ambientale, le architetture ex novo, che sono forzate al rispetto di certi standard, sono numericamente sempre di meno, e in futuro il loro numero dovrà contrarsi sempre più. La tendenza a non costruire dipende sia dal consumo spropositato di suolo, sia dal sopracitato enorme quantitativo di architetture preesistenti che essendo di cattiva manifattura necessitano di spese esorbitanti per essere migliorate. Di conseguenza, gli edifici preesistenti spesso vengono abbandonati o lasciati al degrado.
L’eredità scomoda delle preesistenze è un problema pressante: dopo il boom economico si è assistito a una speculazione edilizia senza precedenti che ha prodotto una serie di abitazioni di infima qualità, costruite con materiali pessimi ed energicamente inefficienti.
Se è vero che bisogna essere sostenibili, oggi in pochi hanno ben capito cosa questo significhi con precisione. Alcuni installano pelli fotovoltaiche, altri utilizzano l’X-LAM, altri ancora fanno giardini verticali o tetti verdi. Ma vi è un’assonanza disturbante con il passato, poiché si cerca sempre di risolvere un problema di cattiva progettazione con nuovi ritrovati tecnologici o con palliativi che riducano l’impatto di scelte sconsiderate sul paesaggio e l’ecosistema. Oltretutto, oggi si pensa alla sostenibilità in architettura come una possibilità quasi stilistica, piuttosto che prevederla come parte integrante di un qualsiasi progetto architettonico. Bisogna pensare alla sostenibilità come a una struttura statica che se non viene progettata correttamente causa il crollo dell’edificio. Quello che oggi manca è una responsabilizzazione, tanto dei progettisti quanto dei committenti, che ancora non riescono a vedere attraverso la “modernità” per ragionare su una vera sostenibilità.
Non bisogna pensare, però, che oggi non ci siano architetti (o ingegneri) che si stanno avviando sulla strada giusta. Nel corso degli anni, soprattutto attraverso una critica storica del movimento moderno mirata a individuare gli errori da non ripetere, è infatti cresciuta una consapevolezza sugli atteggiamenti corretti da adottare per evitare consumi eccessivi.
Oggi è impensabile costruire nuovi edifici, o intervenire su quelli preesistenti, senza l’utilizzo di materiali che siano efficaci nell’evitare fenomeni molto dannosi come la dispersione termica o senza sfruttare le condizioni e le caratteristiche del luogo, per la ventilazione, l’illuminazione e la climatizzazione. Oltretutto si stanno riscoprendo le buone pratiche dell’orientamento, tramite gli studi del sole e del clima, legati a un uso consapevole dei materiali, con lo scopo di ridurre ancora di più l’impatto sull’ambiente[40]. I materiali, in particolar modo, negli ultimi anni sono stati oggetto di investimenti e ricerche mirate a produrli partendo da materie di scarto, anche alimentari, portando in alcuni casi a un abbattimento totale delle emissioni[41].
Ci sono alcuni esempi estremamente attuali di prefabbricazione, come alcuni progetti della LeapFactory[42], che hanno mostrato le potenzialità di alcune scelte integrate alla progettazione per l’autonomia delle architetture. Un progetto che li ha resi noti a livello internazionale è il bivacco montano Gervasutti, situato in Val Ferret, a 2.835 metri sul livello del mare, dove a causa delle aspre condizioni del luogo si è dovuto ricorrere alla prefabbricazione, riducendo la durata del cantiere per la messa in opera a un giorno. Il suolo, inoltre, non ha subìto danneggiamenti grazie allo sviluppo di innovati sistemi di aggancio al terreno che non impongono uno scavo e che in futuro potranno essere rimossi senza alcuna ripercussione sulla parete montuosa. Citando direttamente il sito dello studio:
LeapHut mette in atto una strategia innovativa per la costruzione di bivacchi e rifugi alpini, con un impatto ambientale notevolmente inferiore rispetto ai rifugi tradizionali. LeapHut è modulare, costruito interamente a valle, adatto al trasporto con elicottero e installato con operazioni in quota molto limitate. I moduli sono predisposti per funzioni specifiche. Per ogni location è possibile organizzare la configurazione ottimale in termini di letti, spazi abitativi, ingressi. LeapHut può essere dotato di impianti tecnologici in grado di produrre energia. È disponibile un modulo wc, dotato di wc biologico che smaltisce i rifiuti corporei senza inquinare l’ambiente.[43]
Il progetto è stato così efficace da essere riprodotto, poco tempo dopo, in scala più ampia e con una richiesta di maggiori funzioni, sul monte Elbrus in Russia, a 3.912 metri sul livello del mare.
Si può concludere dicendo che il leitmotiv di qualsiasi progetto contemporaneo dovrebbe essere Reduce, Reuse, Recycle, prendendo spunto da progetti come quelli citati, per far sì che in futuro, sommando all’avanzamento tecnologico una buona progettazione, si possano raggiungere, senza dover rinunciare al comfort e al benessere, livelli di autonomia e di sostenibilità che oggi possiamo solo sognare.
Silvia Curulli per www.policlic.it
[1] I cicli chiusi sono idealmente quelli che generano trasformazioni senza produrre rifiuti, come il ciclo della pioggia o quello della decomposizione.
[2] F.M. Butera, Dalla caverna alla casa ecologica: storia del comfort e dell’energia, Edizioni Ambiente, Milano 2014, p. 15.
[3] In riferimento al primitivismo descritto dall’abate Marc Antoine Laugier nel suo Essai sur l’architecture, pubblicato per la prima volta nel 1775.
[4] L’argomento viene trattato in maniera più che completa in Mark M. Jarzombek, Architecture of First Societies: A Global Perspective, John Wiley & Sons, Inc., New Jersey 2013, pp. 300-635.
[5] Mesopotamia, India, Cina: tuttavia questo non era vero per tutti i luoghi.
[6] È la capacità di un materiale di accumulare calore per un determinato periodo di tempo, per poi rilasciarlo quando la temperatura esterna si abbassa.
[7] Ma anche con una sempre maggiore complessificazione della società: riti di culto, religione, burocrazia e amministrazioni che devono sostenere società più complesse. Tecnologia e mezzi di trasporto supportano una diversificazione sempre maggiore degli edifici, a costo di un maggior impegno e consumo di risorse, dando risalto a quelli comunitari, come templi o edifici amministrativi.
[8] L’argomento viene trattato in maniera più che completa in Mark M. Jarzombek, op. cit., pp. 300-305. Di base l’agricoltura, l’orticoltura e la pastorizia difficilmente coincidevano con gli impianti cittadini. La città non rappresenta quindi la naturale evoluzione dei villaggi. Ciò che probabilmente determina e supporta lo sviluppo di società più complesse è una relativa nuova complessità sociale e burocratica.
[9] Città così ordinate e ben gestite erano comunque un esempio difficilmente replicabile ovunque, e tantomeno sostenibile: le città iniziano a crescere sproporzionatamente, in modo disordinato e caotico, impedendo una corretta gestione dell’intero e delicato meccanismo urbano.
[10] Si possono vedere altri esempi in F.M. Butera, op. cit., pp. 18-29.
[11] Riguardo alle tecnologie edilizie romane si può consultare il volume Jean-Pierre Adam, Roman Building: Materials and Techniques, Taylor & Francis e-Library, London and New York 2005.
[12] Gli accampamenti fortificati dell’esercito romano. Si veda A. Rumpf, voce Castrum, Treccani.it.
[13] Si potrebbero definire molto semplicemente come dei mini-appartamenti in cui venivano stipate le persone.
[14] Per approfondire sulla vita nelle domus vedi Jean-Pierre Adam, op. cit., pp. 596-672.
[15] Il concetto di salubritas viene presentato da Vitruvio nel De architectura, ed ha un significato assimilabile, con le dovute differenze, al nostro concetto di salubrità.
[16] Le case erano orientate per avere il massimo beneficio dal sole in inverno e dall’ombra in estate.
[17] “[…] se durante l’impero esistevano delle vere e proprie fabbriche […] che permettevano di raggiungere un livello da alcuni definito industriale, ora le cose vanno molto diversamente.” Si veda A. Augenti, Archeologia dell’Italia medievale, Editori Laterza, Bari 2016, p. 56.
[18] “Some alleys are barely more substantial than muddy paths. If there are no servants to clean them, and if the householders fail to clean them, before long they become dank, smelly and altogether unsavory. Walk along one of them in winter, on a murky afternoon in the rain, and your impression of richness and civil pride will soon be washed away. […] Then you see the rivulets of water trickling between the buckets of offal and kitchen rubbish outside a house, carrying the liquid of rotting food into the street.” [“Alcuni vicoli sono a malapena più consistenti di sentieri fangosi. Se non ci sono servitori a pulirli, e se non se ne occupano i padroni di casa, in poco tempo diventano umidi, puzzolenti e del tutto sgradevoli. Cammina lungo uno di essi in inverno, in un torbido pomeriggio di pioggia, e l’impressione di ricchezza e orgoglio civile sarà presto spazzata via […]. Vedrai i rivoli d’acqua che colano tra i secchi di frattaglie e rifiuti di cucina fuori dalle case, trasportando in strada i liquidi del cibo in decomposizione.”] I. Mortimer, The Time Traveller’s Guide to Medieval England, Vintage Books, London 2009, p. 12.
[19] Sull’argomento si rimanda a Evoluzione dei tessuti insediativi. Come la città modifica lo spazio ereditato dal passato, Policlic n. 6, dicembre 2020.
[20] F.M. Butera, op. cit., pp. 20-30.
[21] Fino al rinascimento inoltrato era uso comune utilizzare le scuri per barrare le finestre.
[22] F.M. Butera, op. cit., pp. 36-49.
[23] K. Frampton, Storia dell’architettura moderna, Zanichelli, Bologna 2008, pp. 2-36.
[24] Per comprendere la portata dei consumi delle reti idriche bisogna sommare anche il consumo di energia per pompare, depurare e riscaldare.
[25] Viene introdotto già dal XVIII secolo in Inghilterra, costituito essenzialmente da una vaschetta su cui era sagomato un sedile forato, collegata a uno scarico con una valvola piatta al fondo, la quale si apriva e si chiudeva mediante un’asticella.
[26] Ossia quelle dove si incanalava acqua piovana o per usi domestici di vario tipo.
[27] L’olio per le lampade era a prevalenza vegetale in Europa, mentre nei Paesi anglosassoni si usava quello di capodoglio, un cetaceo che veniva cacciato per ottenere la sacca nella parte superiore del cranio, contenente gli spermaceti, e il grasso. Da un capodoglio si potevano ottenere 5-6 tonnellate di olio, e in America era una pratica talmente redditizia e praticata da portare a un rapido spopolamento di questi cetacei.
[28] Il caso a cui ci si riferisce è quello di Lebon, presso l’hotel Seingnelay.
[29] La scarsità di queste materie in Inghilterra dipendeva dagli effetti della guerra napoleonica e dell’indipendenza americana.
[30] F.M. Butera, op. cit., p. 62.
[31] Ivi, p. 69.
[32] Il vetro era conosciuto già nell’antichità, ma non veniva usato praticamente mai per la produzione di vetri per la casa.
[33] M. Gastaldi e L. Bertolini, Introduzione ai materiali per l’architettura, Città studi edizioni, Novara 2011, pp. 137-153.
[34] In senso tecnico-strutturale, con “luce” si intende la distanza che intercorre tra due piedritti sormontati da una trave o da un arco.
[35] F.M. Butera, op. cit., pp. 153-167.
[36] K. Frampton, op. cit., p. XI.
[37] L’uso principale del calcestruzzo armato è quello di sviluppare maglie strutturali regolari, che poi possono essere tamponate all’occorrenza, creando una suddivisione degli ambienti che nell’antichità erano impensabili.
[38] “Sustainability is like teenage sex. Everybody says they’re doing it, very few people actually are doing it. Those that are doing it are doing it badly.” Una nota citazione di Joseph Romm, ripresa anche qui da Andrew Maynard.
[39] “Considerando la produzione di energia a monte (quindi l’intero processo e vita), gli edifici hanno contribuito per il 28% alle emissioni globali di CO2 legate all’energia, mentre le emissioni dirette negli edifici dovute alla combustione di combustibili fossili rappresentano circa un terzo del totale. La costruzione di edifici ha contribuito per un ulteriore 11% alle emissioni di CO2 del settore energetico.”
[40] In questo caso non ci riferiamo solo alla consapevolezza dell’uso di un laterizio, piuttosto che del legno o del calcestruzzo, ma anche alla vicinanza di certe materie, quindi con un minore uso di trasporti e il disincentivo di impoverire ulteriormente alcune aree della terra che vengono sfruttate da decenni e che si trovano molto vicine al collasso.
[41] Esempio tutto italiano, ma con notorietà internazionale, è l’Edilana di Daniela Ducato.
[42] Uno studio italiano giovane e con esperti provenienti da molti settori diversi. Qui il loro sito web.
[43] “LeapHut puts in place an innovative strategy for the construction of bivouacs and alpine huts, with a significantly lower environmental impact than traditional huts. LeapHut is modular, built entirely downstream, suitable for being transported with a helicopter and installed with very limited operations at height. The modules are set up for specific functions. For each location it is possible to organize the optimal configuration in terms of beds, living spaces, entrances. LeapHut can be equipped with technological systems capable of producing energy. A toilet module is available, equipped with a biological toilet that digests the waste produced without polluting the environment.”