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Le riunioni dei governi più potenti a livello mondiale sono spesso diventate ragione di conflitti ideologici e “fisici”. La necessità di fornire una risoluzione alle questioni più spinose concernenti l’economia globale ha comportato importanti scontri di vedute che hanno fomentato gli spiriti di sovversione e ribellione.
Gli incresciosi fatti del G8 avvenuti a Genova nel 2001, durante i quali le forze di polizia hanno abusato dei propri poteri scagliandosi contro i manifestanti inermi, hanno evidenziato la gravità della carenza, nel nostro ordinamento, di una fattispecie ad hoc che preveda il reato di tortura.
La tortura quale modus operandi del sistema inquisitorio: cenni storici
L’utilizzo di strumenti di violenza eccessivi e ingiustificati da parte dei poteri dello Stato è sempre stato un tema al centro di dibattiti serrati, soprattutto perché sarebbe, secondo alcuni, il residuo di fenomeni della cosiddetta “tortura giudiziale”[1].
Il termine “tortura” ha una matrice latina, derivando dal verbo torqueo che significa “torcere strizzando”[2]. Oggi i fenomeni di tortura si associano inevitabilmente all’idea dell’inflizione di immani sofferenze psichiche e fisiche, all’inumanità dell’indurre un dolore sproporzionato rispetto a qualsiasi fine perseguito dall’agente.
A livello prettamente fenomenico, è possibile distinguere una tortura-fine, in cui la sofferenza è fine a sé stessa, e una tortura-mezzo, ove il dolore è arrecato per il perseguimento di scopi diversi dalla tortura stessa. In questo secondo ambito applicativo rientra, senza dubbio, la tortura giudiziaria, ossia quella utilizzata nei procedimenti giudiziari al fine di meglio perseguire la ricerca della verità, oppure quale strumento sanzionatorio successivo a tale accertamento, come meccanismo di espiazione del male arrecato a seguito del reato commesso.
Ebbene, la tortura quale strumento fatto proprio dall’autorità, configurato come sacrificio necessario per il perseguimento di interessi collettivi più rilevanti, è un concetto tanto antico quanto connaturato all’essenza degli strumenti inquisitori[3]. L’Inquisizione, in particolare, è stata l’istituzione ecclesiastica fondata dalla Chiesa Cattolica per indagare e accertare la sussistenza di fatti contrari ai princìpi e ai dettami del credo cattolico.
Storicamente, l’Inquisizione si può considerare stabilita già nel Concilio presieduto a Verona nel 1184 da papa Lucio III e dall’imperatore Federico Barbarossa, con l’emanazione della bolla Ad abolendam diversarum haeresum pravitatem. Fu perfezionata da Innocenzo III e dai successivi papi Onorio III e Gregorio IX, con l’occorrenza di reprimere il movimento cataro, diffuso nella Francia meridionale e nell’Italia settentrionale, e controllare i diversi movimenti spirituali e pauperistici attivi[4].
La tortura, quale strumento per accertare la verità, reprimere soprusi, infliggere pene, è un retaggio che i nostri sistemi giudiziari hanno portato avanti e che, tuttora, influenza i sistemi giuridici di tutto il mondo[5].
Occorre, a questo punto, focalizzarsi sull’evoluzione vissuta dal nostro ordinamento – prima che venisse riconosciuto il reato di tortura – a seguito di fatti di estrema gravità e rispetto ai quali le ordinarie fattispecie di reato contenute nel codice penale apparivano, per utilizzare un eufemismo, inappropriate.
L’impalcatura normativa del divieto di tortura
L’esigenza di introdurre nell’ordinamento italiano un apposito reato di tortura nasce, oltre che dai gravi fatti accaduti con il G8 di Genova e nella caserma di Bolzaneto, da numerose norme internazionali volte alla massima protezione dei diritti umani.
In tal senso occorre menzionare, in via esemplificativa, l’articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti umani, l’articolo 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e, soprattutto, l’articolo 3 della CEDU[6]. Quest’ultimo acronimo fa riferimento alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, una Carta di diritti fondamentali volta a implementare e armonizzare principi di diritto comune per tutti gli Stati aderenti alla Convenzione, ratificata dall’Italia con legge del 1955. A presidio del rispetto generalizzato dei princìpi contenuti nella Carta, è stato istituito anche un organo giurisdizionale internazionale, ossia la Corte EDU con sede a Strasburgo.
A ben vedere, l’articolo 3 della CEDU afferma che nessuno può essere sottoposto a tortura né ad altre pene inumane o degradanti. La Corte ha interpretato tale principio in termini particolarmente ampi, sostenendo che esso trova applicazione generalizzata e indistinta, indipendentemente dal fatto che a porre in essere tali comportamenti sia un pubblico ufficiale, e quindi un organo statuale, oppure un comune cittadino[7]. Inoltre, il divieto di tortura è stato sin da subito incluso dalla Corte tra i diritti assoluti, non passibili di alcun tipo di bilanciamento con altri interessi personali o collettivi, e quindi, quale valore sommo dei sistemi democratici, non è possibile porre ad esso eccezioni o limitazioni.
La giurisprudenza EDU ha inoltre individuato il discrimen tra il concetto di tortura e quello di trattamenti inumani e degradanti, altresì tutelati dall’articolo 3 della CEDU. Un primo criterio ha natura quantitativa: in pratica si tratterebbe di una “scala crescente” che va dai trattamenti degradanti alla tortura, passando dai comportamenti inumani. Secondo altra impostazione, invece, i trattamenti inumani e degradanti sarebbero caratterizzati dall’assenza di un fine determinato (deterrente o punitivo) e quindi, in sostanza, dall’assenza del cosiddetto dolo specifico. Viceversa, nel reato di tortura, accanto all’inflizione di atroci sofferenze, l’agente agirebbe per uno scopo preciso[8].
Infine, l’articolo 4 della Convenzione ONU contro la tortura statuisce che tutti gli ordinamenti aderenti debbano fare in modo che vengano punite penalmente le condotte rientranti nelle categorie sopra citate. Occorre precisare, quindi, che la normativa internazionale non impone che gli Stati prevedano appositi reati di tortura, ma richiede quantomeno che sussistano delle fattispecie di reato efficaci, proporzionate e idonee a sanzionare tali condotte particolarmente gravi. A ben vedere, però, al fine di evitare fenomeni di impunità legati a termini di prescrizione eccessivamente brevi, le Corti sovranazionali hanno più volte raccomandato agli Stati di introdurre forme di reato ad hoc[9].
Nonostante la CEDU vanti, quindi, una solida impalcatura normativa su cui fondare il divieto di tortura e imporre agli Stati sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive nel reprimere tali fenomeni, essa non dà alcuna definizione del concetto fenomenologico degli atti di tortura. Viceversa, la Convenzione ONU contro la tortura e altri trattamenti e pene crudeli, inumani e degradanti (nota come Convenzione anti-tortura o, brevemente, CAT) prevede, all’articolo 1, che
per tortura si intende l’inflizione intenzionale di gravi sofferenze, fisiche o mentali, da parte di un funzionario pubblico (oppure su istigazione o con l’assenso anche tacito dello stesso) al fine “segnatamente” di ottenere, da una terza persona, informazioni o confessioni, punirla, intimidirla, esercitare pressioni su di essa o altri o per qualunque altra ragione di tipo discriminatorio.
Nel fornire un paradigma definitorio, la CAT descrive quello di tortura come un reato proprio (può essere commesso solo da un pubblico ufficiale) e a dolo specifico (derivante dal fine di ottenere informazioni, punire, intimidire, ecc.). Tale fonte normativa internazionale, quindi, circoscrive le categorie tipologiche della fattispecie di tortura, in modo tale da poter distinguere gli atti in essa rientranti da quelli di mera induzione di sofferenze (che fanno parte delle fattispecie di reato comuni). In pratica, ciò che distinguerebbe la tortura dalle altre forme di lesioni fisiche e psichiche non è l’intensità del dolore provocato, e quindi un dato di tipo quantitativo, ma la peculiare funzione ricoperta dal soggetto agente e il fine per cui egli agisce, ossia in nome di pretestuosi interessi statuali.
Nel diritto interno, infine, sino al 2017 non sussisteva una fattispecie di reato idonea a punire la tortura. Per questa ragione, in particolare, l’Italia è stata più volte condannata dalla Corte EDU a adeguare il proprio panorama normativo, al fine di far fronte a tali fenomeni con sanzioni appropriate. L’unico paradigma cui si è sempre potuto ancorare il divieto di tortura da parte dei rappresentanti dello Stato è il comma 4 dell’articolo 13 della Costituzione, il quale sancisce che “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”.
Nonostante il monito fornito dalla Carta fondamentale, per lungo tempo è stato assente qualsivoglia reato di tortura nell’ordinamento italiano, sebbene diversi autori lo considerino uno dei pochi reati costituzionalmente necessari[10].
Le vicende legate al G8 di Genova e i fatti avvenuti nella caserma di Bolzaneto: le pronunce della Corte EDU volte a condannare l’Italia
Quando si allude ai cosiddetti “fatti di Genova” ci si riferisce a una serie di accadimenti, tanto noti quanto spiacevoli, avvenuti tra il 19 e il 22 luglio del 2001, nel corso della riunione del G8 di quell’anno.
Nello specifico, nei giorni precedenti e concomitanti alle riunioni ufficiali, diversi esponenti di movimenti no-global e associazioni pacifiste portarono avanti delle manifestazioni di dissenso, seguite da importanti tumulti di piazza, fomentati da scontri tra i civili e le forze armate. Nel corso di uno di questi, venne ucciso un manifestante, Carlo Giuliani, a seguito di uno scontro nato dopo l’attacco al Land Rover Defender delle forze armate da parte degli attivisti[11].
I più importanti accadimenti di violenza perpetrati dalle forze dell’ordine nei confronti dei dissenzienti in quei giorni sono quelli legati all’irruzione nella scuola Diaz – nella quale i manifestanti stavano protestando – e proseguiti successivamente nella caserma di Bolzaneto. L’irruzione nella scuola comportò delle conseguenze di abnorme gravità. Su poco più di 90 manifestanti fermati, 61 furono portati in ospedale a seguito degli scontri e diversi presentarono delle lesioni gravi, furono in stato di prognosi riservata o riportarono un sicuro trauma cranico[12].
I manifestanti furono poi condotti presso la Caserma di Bolzaneto, quale luogo deputato all’identificazione dei fermati nel corso dei disordini in atto. Anche in questo caso, gli esponenti delle forze dell’ordine furono accusati di aver provocato violenze, fisiche e psichiche, nei confronti di costoro, e di non aver rispettato i loro diritti di soggetti sottoposti a restrizione della propria libertà personale informando i legali o i parenti dello stato di fermo.
I manifestanti riferirono che nel corso di quei momenti furono costretti a rimanere in piedi e con le mani alzate per diverse ore senza avere la possibilità di andare al bagno. Furono oggetto, inoltre, di minacce e violenze verbali, anche a sfondo sessuale, poste in essere dagli agenti[13].
I processi contro gli aggressori, svoltisi nei successivi tredici anni, si sono conclusi per lo più con sentenze di assoluzione, in virtù della difficoltà di individuare gli autori materiali del fatto (presero parte alle sommosse più di duecento esponenti delle forze armate) e soprattutto per il decorso dei termini di prescrizione delle fattispecie di reato comuni contestate (quali l’abuso d’ufficio e l’arresto illegale degli occupanti), non essendo in vigore, nel nostro ordinamento, un reato di tortura ad hoc[14].
Storica, da tale punto di vista, è stata la sentenza Cestaro della Corte EDU del 7 aprile 2015, ricorso 6884/11, che ha condannato l’Italia sia per non prevedere nel proprio ordinamento fattispecie e sanzioni idonee a far fronte agli atti di tortura, sia per non possedere un sistema adeguato di accertamento e di inchiesta degli stessi[15].
In primo luogo, la Corte di Strasburgo riconosce nei fatti di Genova, e in particolare nell’assalto alla scuola Diaz, la presenza di tutti gli elementi costitutivi del reato di tortura. I giudici precisano che, alla luce dell’andamento dell’irruzione nella scuola, appare evidente come i maltrattamenti siano stati posti in essere in maniera totalmente gratuita (e dunque non per fermare delle proteste in atto)[16], sproporzionata rispetto al fine di individuare degli autori di eventuali reati e finalizzata allo scopo unico di punire e infliggere violenze.
Gli elementi che evidenziano la presenza di maltrattamenti eccedenti nella tortura sono, quindi, il dolo intenzionale e specifico (e quindi la volontà di fare irruzione al fine di “punire”, di indurre sofferenze fisiche e psichiche ingenti ai dissidenti), l’assenza di atti di resistenza o di fuga (e quindi l’indiscussa antigiuridicità dell’agere degli agenti poiché i manifestanti erano sostanzialmente indifesi e non in grado di ribellarsi) e la netta ed esorbitante sproporzione delle violenze indotte[17].
Anche dal punto di vista procedurale, la Corte ha riconosciuto delle violazioni in capo al nostro ordinamento. Nello specifico, i Giudici hanno riscontrato la violazione degli obblighi discendenti dall’articolo 3 CEDU, che impongono alle autorità statali di compiere indagini diligenti su tutti i casi sospetti di trattamenti contrari al suddetto articolo. Tali indagini devono essere idonee in ogni caso a pervenire all’individuazione, alla persecuzione e alla condanna a una pena proporzionata di chi sia riconosciuto responsabile di tali trattamenti. Il nostro assetto normativo non sarebbe stato in grado, secondo la Corte, di far fronte adeguatamente all’accertamento di reati di tale gravità e delicatezza. L’aspetto principale di ciò emergerebbe, in primis, dall’intervenuta prescrizione della buona parte dei reati contestati agli agenti.
In sostanza, quindi, l’aspetto innovativo della pronuncia si assesta sull’asserita inidoneità delle norme italiane nel sanzionare fatti qualificabili come tortura. Vero è che la CEDU non impone che gli ordinamenti prevedano fattispecie di reato ad hoc, ma richiede, in ogni caso, che le fattispecie comuni siano in grado di accertare e sanzionare adeguatamente condotte di questa matrice.
L’introduzione del reato di tortura: obiettivo raggiunto?
A seguito delle protratte inadempienze dell’Italia al cospetto delle condanne provenienti dalla Corte di Strasburgo, la legge 110 del 2017 ha introdotto la fattispecie di cui all’articolo 613 bis denominata “tortura” e quella di cui all’articolo 613 ter, ossia il reato di istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura[18].
Anzitutto, occorre evidenziare che il legislatore nazionale, di fronte all’alternativa tra dare vita a un reato proprio e dare vita a un reato comune, ha scelto di creare una fattispecie base in cui a commettere il reato può essere “chiunque” (primo comma) mentre ha delineato come circostanza aggravante l’ipotesi della cosiddetta “tortura di Stato” (secondo comma), ossia quella commessa da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio.
Invero, il primo comma punisce
chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa […] se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.
In primo luogo, occorre sottolineare che, nonostante l’utilizzo del termine “chiunque”, il legislatore abbia dato vita a un reato qualificato dal peculiare rapporto che deve esserci tra agente e persona offesa. Nello specifico, la vittima deve necessariamente essere un soggetto affidato alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza dell’autore del reato. Si deve trattare, in sostanza, di un rapporto qualificato dagli obblighi di tutela del reo nei confronti della vittima. In caso contrario, il reato è configurabile solo laddove la vittima giaccia in uno stato di restrizione della libertà personale pregressa, ovvero in uno stato di minorata difesa, e quindi risulti essere incapace di reagire a un’aggressione dell’agente[19].
In secondo luogo, risulta evidente come il legislatore abbia dato vita a un reato cosiddetto “a forma vincolata”, in cui, in sostanza, vengono descritte nella fattispecie le tipologie di atti e le modalità di svolgimento delle condotte che integrano il reato[20]. In particolare, le condotte devono consistere in violenze o minacce gravi, oppure l’agente deve aver agito con crudeltà. In ogni caso, il reato potrà configurarsi solo qualora le condotte siano plurime (dando luogo a un reato abituale), oppure se l’unica condotta posta in essere determini un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.
L’elemento che determina una selezione specifica delle condotte penalmente rilevanti è incentrato sulla necessaria “gravità” delle violenze e delle minacce e sulla ripetitività delle condotte. In alternativa, la condotta può essere qualificata come “tortura” se l’agente agisce con crudeltà[21].
Il primo elemento, ossia quello della gravità, denota l’intensità delle specifiche condotte; il secondo elemento, la crudeltà, riecheggia il concetto di “reato commesso con crudeltà verso le persone”, che la circostanza aggravante di cui all’articolo 61, n. 4, del codice penale correla a manifestazioni comportamentali che oggettivamente esprimono l’intenzione dell’agente di arrecare un particolare dolore alla vittima. L’unica possibilità di consumare il reato di tortura pur in assenza di una reiterazione delle condotte si ha qualora dal fatto derivi un trattamento inumano e degradante[22].
Questo assunto ha però creato dei problemi di compatibilità con la definizione di tortura già fornita a livello sovranazionale. Come detto, in linea di massima, il rapporto tra la tortura e i trattamenti inumani e degradanti era descritta in termini di diversa intensità dell’accanimento. La tortura, quindi, sarebbe un quid pluris rispetto ai trattamenti inumani e degradanti, mentre il legislatore sembra aver delineato questi ultimi come eventi alternativi del reato stesso di tortura. È evidente come risulterà ostico a giurisprudenza e dottrina delineare i rapporti, sul piano fenomenico, esistenti tra gli atti di tortura e quelli comportanti trattamenti inumani e degradanti.
Dubbi di tassatività e determinatezza sono sorti, invece, in relazione agli eventi tipizzati dal legislatore nel reato in esame. Il timore, in sostanza, è che non si riescano a delineare adeguatamente i confini del concetto di “acute sofferenze fisiche”, termine che sembra essere abbastanza vago e di difficile interpretazione, soprattutto in ordine alla distinzione rispetto agli eventi derivanti dal reato di lesioni gravi.
Ancora più complesso e problematico risulta l’accertamento dell’evento consistente nel “verificabile trauma psichico”[23]. Due sono le soluzioni possibili in ordine a tale evento del reato: o si riferisce la verificabilità esclusivamente a diagnosi mediche volte all’individuazione di una patologia derivante dalle condotte – e allora l’interpretazione appare più restrittiva e tassativa, ma rischia al contempo di escludere situazioni altrettanto gravi e deprecabili (come ad esempio il disagio derivante dalla protratta privazione del sonno o del cibo); oppure la si riferisce a qualsiasi disturbo rilevabile sulla persona, divenendo così, tuttavia, eccessivamente ampio e poco afferrabile il concetto di verificabilità del trauma.
Infine, il legislatore nazionale pare discostarsi dall’impostazione sovranazionale anche con riferimento all’elemento soggettivo: il reato si configura come fattispecie a dolo generico (e non anche specifico). Irrilevante, dunque, sarà la finalità ultima perseguita dall’agente, essendo sufficiente che quest’ultimo si prefiguri e desideri cagionare le sofferenze previste dalla norma. Diversi commentatori hanno rilevato, tuttavia, come il dolo specifico avrebbe consentito di distinguere in termini più netti e tassativi il reato in esame da altre fattispecie lesive dell’integrità psico-fisica[24].
Nello specifico, il reato di tortura viene tendenzialmente prefigurato come fattispecie che si innesta nei rapporti tra autorità e cittadini, dando rilievo penale agli abusi del potere statuale. La previsione del dolo specifico avrebbe dunque consentito di dare rilievo alle finalità tipicamente perseguite con la tortura, in ossequio alle indicazioni internazionali.
Il comma 2 dell’articolo 613 bis delinea, invece, un reato proprio, qualificato dalla natura del soggetto agente. La fattispecie afferma che “se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso di poteri o in violazione di doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni”. Come già accennato, in questa seconda fattispecie il legislatore ha voluto dare vita alla repressione della cosiddetta tortura di Stato, in relazione alle ipotesi in cui a compiere le condotte sia un esponente della Pubblica Amministrazione, il quale, strumentalizzando e abusando delle funzioni e delle prerogative a esso riservate, pone in essere i fatti previsti al primo comma.
Il problema principale sorto in ordine a tale fattispecie attiene alla sua natura giuridica: si tratta di un reato autonomo o di una circostanza aggravante? La questione è di non poco rilievo pratico. Infatti, se il comma 2 dell’articolo 613 bis viene qualificato come circostanza aggravante, lo stesso sarà sottoposto all’ordinario giudizio di bilanciamento di cui all’articolo 69 del codice penale. Il giudizio di bilanciamento delle circostanze implica che, se nel caso concreto, di fianco all’aggravante in esame, ricorrano circostanze attenuanti che il giudice reputi prevalenti rispetto alla prima, verranno applicate solo le riduzioni previste per le relative attenuanti e non anche l’aumento sanzionatorio configurato dalla circostanza aggravante in esame.
Tale postulato, d’altro canto, potrebbe gravemente compromettere la ratio aggravatrice della norma. Così, molti autori hanno suggerito di considerare quella in esame come una fattispecie autonoma di reato, caratterizzata dal particolare disvalore che connota la qualifica pubblicistica e l’abuso e la strumentalizzazione dei poteri[25].
Il comma 3 statuisce che “il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti”. Dal tenore della norma risulta evidente come il legislatore abbia “ceduto” alle pressioni dei sindacati di polizia che temevano una paralisi nell’esercizio delle proprie funzioni pubblicistiche[26].
Sta di fatto che anche questa norma ha posto, sin da subito, dubbi interpretativi in ordine alla propria natura giuridica. Quest’ultima è senza dubbio volta a evitare che gli atti di esercizio del potere da parte delle forze di polizia, posti in essere nell’esercizio della funzione di pubblica sicurezza o nella restrizione della libertà personale di matrice giurisdizionale, non vengano additati come illeciti. A ben vedere, tuttavia, a tale conclusione si sarebbe potuti tranquillamente pervenire sulla scorta del dato testuale del comma 2: solo gli atti arbitrari posti in essere con abuso dei poteri o violazione dei doveri sono incriminati. Di conseguenza, l’esercizio della “forza” volto a esercitare legittime funzioni pubblicistiche non può che essere escluso dall’ambito applicativo della fattispecie incriminatrice.
A parte i dubbi di presunta inutilità della fattispecie, non si comprende se essa sia una causa di esclusione della tipicità vera e propria (in quanto si dà risalto a ipotesi in cui viene a mancare un elemento costitutivo della fattispecie) oppure se configuri una scriminante di nuovo conio (volta ad escludere l’antigiuridicità del fatto) o se, semplicemente, altro non sia che un’ipotesi speciale della causa di giustificazione di cui all’articolo 51 del codice penale, ossia l’esercizio di un diritto legittimo che renderebbe lecito il fatto.
Gli ultimi due commi dell’articolo 613 bis prevedono degli ulteriori aumenti di pena se dai fatti commessi derivino una lesione o la morte della persona offesa. Le disposizioni in esame prevedono:
Se dai fatti di cui al primo comma deriva una lesione personale le pene di cui ai commi precedenti sono aumentate; se ne deriva una lesione personale grave sono aumentate di un terzo e se ne deriva una lesione personale gravissima sono aumentate della metà.
Se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta. Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell’ergastolo.
È indiscussa, in questo caso, la natura circostanziale delle suddette fattispecie che prevedono un aggravamento di pena qualora dal reato di tortura derivino una lesione, una lesione grave o la morte della vittima. Si tratta, in particolare, di reati aggravati dall’evento[27].
Anche queste ultime previsioni non hanno mancato di suscitare alcune perplessità. In primo luogo, il legislatore in questi casi prevede un aumento di pena fisso. Ciò vuol dire che, in sostanza, il giudice non ha la possibilità di fissare la pena in concreto determinandola sulla base di una cornice edittale variabile (ove, ad esempio, si preveda che l’aumento debba essere effettuato fino a un terzo della pena base) ma è costretto ad applicare una variazione fissa (ad es. le pene sono aumentate di un terzo, la pena è della reclusione ad anni trenta, ecc.). Noto è, tuttavia, lo sfavore con cui il nostro ordinamento, e in particolare la Corte costituzionale, guarda alle variazioni fisse di pena. Tale meccanismo, infatti, non consente una personalizzazione della stessa al caso concreto da parte del giudice e potrebbe dare vita a inaccettabili disuguaglianze.
In secondo luogo, è stato evidenziato come risulti complesso il rapporto con il reato base, nel senso che risulta del tutto marginale, se non assolutamente inesistente, uno spazio operativo proprio della fattispecie non aggravata. Ebbene, infatti, non si vede come un trauma psichico non sia già di per sé una lesione, peraltro grave, al bene giuridico “salute”. L’acuta sofferenza fisica, invece, non determina, di per sé, la presenza di una lesione, ma è oltremodo difficile immaginare che a tale estrema sofferenza non derivi alcuna ripercussione sul bene giuridico della salute.
Infine, peculiare appare l’ultimo comma, ove viene previsto l’aumento della pena detentiva ad anni 30 quando la morte è conseguenza non voluta da parte dell’agente. Viceversa, qualora la morte sia evento voluto, la pena da applicare sarà l’ergastolo.
Di primo acchito sembrerebbe che, ove l’evento morte sia non voluto, il legislatore abbia dato vita a una fattispecie preterintenzionale (il che, del resto, è confermato dal fatto che una simile statuizione non è prevista per le ipotesi in cui dagli atti di tortura derivi una lesione, emblema del fatto che l’evento della lesione può considerarsi voluto dall’agente). Qualora si trattasse effettivamente di preterintenzione, l’agente agirebbe, quindi, volendo commettere gli atti di tortura e le conseguenti lesioni da essi derivanti, ma non anche la morte della vittima.
Per concludere, quindi, il legislatore ha cercato di colmare, con la riforma del 2017, una lacuna importante del nostro ordinamento, introducendo il reato di tortura a seguito dei moniti più volte forniti dalla Corte EDU. Tuttavia, come è stato sottolineato più volte e come si è avuto modo di rilevare, analizzando le criticità della fattispecie in oggetto, può affermarsi come il legislatore abbia perso un’occasione su più fronti. Il deficit della produzione legislativa, peraltro, verrà sicuramente ridimensionato (come accade di sovente) dall’intervento correttivo e riparativo della giurisprudenza, che cercherà di restituire una maggiore determinatezza e organicità alla fattispecie.
Daniela D’Adamo per www.policlic.it
Note e riferimenti bibliografici
[1] G. Serges, La tortura giudiziaria. Evoluzione e fortuna di uno strumento d’imperio, in L. Pace, S. Santucci, G. Serges (a cura di), Momenti di storia della giustizia. Materiali di un seminario, Aracne, 2011, pp. 215-323.
[2] Cfr. L. Romani, Tortura, in Treccani Magazine, 16 luglio 2017.
[3] M. Ascheri, Introduzione storica al diritto medievale, Giappichelli, Torino 2007, p. 202.
[4] A. Currucu, Il processo penale nel periodo inquisitoriale: il sospetto tra metodo inquisitorio e metodo accusatorio, in “Filodiritto”, 5 febbraio 2014.
[5] In questo senso, basti pensare alla nota contrapposizione tra i sistemi giudiziari accusatori, basati sulla dialettica e sulla ricerca della verità mediante strumenti di confronto tra accusa e difesa, e quelli inquisitori, connotati, in linea di massima, dall’accentramento dei poteri in capo a un unico soggetto (l’organo giudicante), sul quale sono concentrati tutti i poteri di ricerca della prova, e da un procedimento di stampo cartolare, che lascia poco spazio all’oralità, quale baluardo del contraddittorio, del confronto e della dialettica.
[6] R. Galli, Appendice di aggiornamento al nuovo corso di diritto civile ed al nuovo corso di diritto penale, CEDAM, Padova 2017-2018, pp. 229 sgg.
[7] In particolare, dunque, la Corte EDU ha configurato la fattispecie come reato comune, ossia passibile di essere commesso da chiunque e non anche come reato proprio, di pertinenza esclusiva dei pubblici ufficiali o di chi manifesta l’autorità statuale.
[8] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 22 giugno 2017, 12131/13 e 43390/13 – Bartesaghi Galli e altri contro Italia.
[9] F. Viganò, La difficile battaglia contro l’impunità dei responsabili: la sentenza della Corte di Strasburgo sui fatti della scuola Diaz e i tormenti del legislatore italiano, in “Diritto Penale Contemporaneo”, 9 aprile 2015.
[10] Con questo assunto si fa riferimento alle ipotesi in cui la particolare pregnanza con cui la Costituzione tutela certi beni-interessi imporrebbe al legislatore penale di introdurre fattispecie di reato a tutela degli stessi, con un’annessa necessaria limitazione della sua discrezionalità.
[11] R. Quotidiano, G8 Genova, la cronologia del 20 luglio 2001 dai dispacci Ansa di quel giorno, in “Il Fatto Quotidiano”, 20 luglio 2011.
[12] Una dettagliata cronaca di quanto avvenuto nella scuola Diaz è offerta dalla sentenza della Corte d’Appello di Genova, resa il 18 maggio 2010.
[13] Si veda la sentenza citata nella nota precedente; cfr. anche N. Davies, Le ferite di Genova, in “Internazionale”, 7 aprile 2015.
[14] S. Tunesi, Il delitto di tortura. Un’analisi critica, in “Giurisprudenza Penale”, 11 (2017), p. 5.
[15] Causa Cestaro c. Italia – Quarta Sezione – sentenza 7 aprile 2015 (ricorso n. 6884/11), in www.camera.it.
[16] Ciò in quanto, nello specifico, l’irruzione era volta a effettuare una perquisizione dalla quale potesse emergere l’individuazione di alcuni autori di saccheggi svolti in giorni precedenti nella città. I manifestanti, in quel momento, si stavano nascondendo. Le modalità operative adottate, dunque, non sono state coerenti con gli scopi dichiarati dalle autorità.
[17] F. Viganò, op. cit.
[18] Cfr. i lavori preparatori alla proposta di legge: S. 10-362-388-395-849-874-B.
[19] La decodificazione del concetto di minorata difesa è stato già posto in essere in virtù di quanto previsto nella relativa aggravante di cui all’art. 61 c.p., ed è stato interpretato come approfittamento di una situazione di debolezza della persona offesa, derivante dalle condizioni di tempo, luogo, mezzi o condizioni della vittima, condizioni tali da ostacolare la difesa da parte di quest’ultima.
[20] Questo dà adito, secondo alcuni autori, a preoccupazioni in ordine alla configurabilità del reato in forma omissiva impropria sulla scorta della clausola ex art. 40 co. 2 c.p., attesa la ritenuta ammissibilità di tali reati solo al cospetto di fattispecie causalmente orientate.
[21] Anche la crudeltà nell’agire dell’agente è stata delineata a livello interpretativo grazie all’aggravante di cui all’art. 61 n. 4 c.p. Generalmente si ritiene che la crudeltà ricorra quando il reo agisca mediante modalità della condotta tale da essere in grado di cagionare delle sofferenze che esulano dal normale processo di causazione dell’evento. In pratica la crudeltà ricorre quando le condotte appaiono eccessive e sproporzionate rispetto all’obiettivo perseguimento dell’evento del reato e denotano, quindi, un accanimento ulteriore sulla vittima.
[22] Scettici i primi commentatori sull’idoneità di tale previsione, che sembra dare luogo a una condizione obiettiva di punibilità e quindi svincolata dall’elemento soggettivo e del nesso causale.
[23] S. Amato, M. Passione, Il reato di tortura. Un’ombra ben presto sarai: come il nuovo reato di tortura rischia il binario morto, in “Diritto Penale Contemporaneo”, 2017, p. 8.
[24] S. Tunesi, op. cit., p. 10.
[25] A tale conclusione non si è pervenuti sulla base del calcolo dell’aumento sanzionatorio (che avviene in maniera del tutto autonoma rispetto al primo comma), anche perché questo aspetto è certamente comune alle c.d. circostanze indipendenti, ma in virtù del diverso disvalore che assume la fattispecie quando a commettere i fatti sia un pubblico ufficiale. Completamente diversa appare, allora, la ratio dell’incriminazione in quest’ultimo caso, in quanto risulta indirizzata a condannare le strumentalizzazioni del potere pubblicistico a danno dei privati cittadini.
[26] Al riguardo si veda, ex multis, M. Lay, Tortura, manovre di Alfano e sindacati Polizia per fermare introduzione del reato, in “il Fatto Quotidiano”, 9 luglio 2015, con replica di G. Tonelli, segretario generale SAP.
[27] Questi ultimi si hanno quando una fattispecie base è aggravata da un evento ulteriore, generalmente non voluto (o indifferentemente dalla volontà) derivante dalla condotta.