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Tra il 1789 e il 1814 l’Europa fu messa completamente a soqquadro, prima dalla Rivoluzione francese, poi dall’epopea di Napoleone Bonaparte, imperatore di Francia dal 1804. Dopo che Napoleone venne sconfitto a Lipsia nella celebre Battaglia delle nazioni, i grandi d’Europa si riunirono a Vienna tra il novembre del 1814 e il giugno del 1815, con il duplice obiettivo di ripristinare l’ordine perduto e di creare un sistema per mantenere l’ordine restaurato. La novità principale rispetto alle conferenze di pace dei secoli precedenti era proprio l’idea di creare un sistema, anticipando i summit internazionali divenuti comuni soprattutto dalla seconda metà del Novecento, e che lo sono tutt’oggi. Secondo il progetto scaturito dal Congresso, le grandi potenze si sarebbero dovute incontrare periodicamente per risolvere le questioni pressanti in Europa, evitando azioni unilaterali e cercando soluzioni pacifiche tendenti al mantenimento dell’ordine.
I principi ispiratori del Congresso di Vienna furono quello di legittimità e quello dell’equilibrio politico. Secondo il principio di legittimità, sarebbero dovuti tornare sui troni i sovrani che erano stati spodestati dalla Francia rivoluzionaria e napoleonica; fu in base a questo principio che, ad esempio, i Borbone tornarono sul trono di Francia con Luigi XVIII, oppure i Savoia ripresero il loro posto a Torino con Vittorio Emanuele I. L’applicazione del principio di equilibrio – non sempre, peraltro, concorde con quello di legittimità – aveva come obiettivo quello di evitare che una sola nazione fosse in grado di sconvolgere l’ordine in l’Europa, come era accaduto nei venticinque anni precedenti. Dal punto di vista operativo, il tentativo fu quello di creare un sistema, in Europa continentale, dove nessuna grande potenza fosse eccessivamente superiore alle altre. La paura della Francia, inoltre, portò alla creazione di vari Stati-cuscinetto nei confini orientali, in modo da isolare il più possibile eventuali nuovi fervori rivoluzionari.
Ad assumere il ruolo di protagonisti furono le quattro potenze europee che più avevano contribuito alla sconfitta di Napoleone: l’Austria padrona di casa, rappresentata dal ministro degli Esteri Klemens Wenzel Lothar von Metternich-Winneburg; la Prussia, della cui politica viennese fu responsabile Karl August von Hardenberg; la Russia di Alessandro I, che fu l’unico sovrano a partecipare attivamente ai lavori, non limitandosi a un ruolo mondano; l’Inghilterra del ministro degli Esteri Robert Stewart, marchese di Londonderry e visconte di Castlereagh[1]. La Francia del restaurato Luigi XVIII fu l’osservata speciale; all’inizio esclusa dai negoziati, grazie all’abilità politica e diplomatica di Talleyrand riuscì a rientrare nel novero delle grandi potenze europee.
Le decisioni del Congresso
Nei primi mesi i lavori al Congresso di Vienna andarono a rilento, perché le varie potenze non riuscivano a mettersi d’accordo su come risolvere il problema polacco, al quale era stata legata in maniera indissolubile la questione relativa alla Sassonia. In particolare, Russia e Prussia si erano accordate segretamente, prima dell’inizio del Congresso, sulle seguenti basi: alla Russia sarebbe andata tutta la Polonia e, come compenso, la Prussia avrebbe ottenuto la totalità della Sassonia (da togliere a Federico Augusto, che aveva appoggiato Napoleone)[2]. Questo disegno non piaceva né a Castlereagh, soprattutto a causa dell’eccessivo rafforzamento russo in polonia, né a Metternich. L’Austria non voleva infatti che la Russia si proiettasse così evidentemente verso l’Europa centrale, e temeva la crescita della Prussia, vista come una rivale per il predominio in area germanica[3]. Lo stallo durò mesi, e fu in questo contesto che Talleyrand seppe inserirsi per riportare la Francia al centro della scena. Il ministro degli Esteri francese difese Federico Augusto, sostenendo che dovesse tornare sul trono di Sassonia in virtù del principio di legittimità[4]. Questa posizione, all’inizio minoritaria, trovò l’appoggio degli Stati tedeschi minori, come Baviera e Hannover, ma anche quello dell’Inghilterra e dell’Austria. Queste ultime, insieme alla Francia, furono inoltre firmatarie di un trattato di alleanza, sancendo la fine dell’isolamento di Parigi, e minacciando la guerra nel caso in cui Prussia e Russia avessero dato seguito al loro disegno[5].
Di fronte a questa minaccia, il fronte russo-prussiano si divise. Lo zar Alessandro I era favorevole a un’annessione solo parziale della Sassonia da parte della Prussia, e così avvenne: Federico Augusto tornò sul suo vecchio trono, anche se il 40% del territorio sassone passò alla Prussia di Federico Guglielmo III[6]. Per quanto riguarda la Polonia, la Prussia mantenne Danzica, la Posnania e la fortezza di Thorn, mentre l’Austria confermava la Galizia e Cracovia divenne una città libera. Il resto di quello che era il Ducato di Varsavia divenne Regno di Polonia, e venne assegnato ad Alessandro I in regime di unione personale con la Russia[7].
Superato questo scoglio, i grandi riuniti a Vienna presero le altre decisioni in modo più rapido e meno conflittuale, ridisegnando la mappa europea dopo l’avventura napoleonica. Qui si ripercorrono le decisioni principali del Congresso per area geografica, rimandando all’atto finale del Congresso stesso per il dettaglio[8].
Penisola italiana
Il riassetto dell’Italia non presentò particolari difficoltà. Vittorio Emanuele I di Savoia risalì sul trono del Regno di Sardegna, con i confini del 1792, allargati alla Liguria; non venne infatti ripristinata la repubblica di Genova che venne annessa al Piemonte. Questo potenziamento del Regno di Sardegna servì per creare un solido Stato cuscinetto tra Francia e Austria[9].
La Lombardia e il Veneto furono date all’Austria a compensazione della perdita di Belgio e Lussemburgo; Vienna mantenne anche il controllo di Bormio, Valtellina e Chiavenna, e ottenne il territorio delle legazioni pontificie al nord del Po[10].
Nell’Italia centrale, fu applicato il principio di legittimità per i ducati di Modena, Reggio e Mirandola, assegnati a Francesco IV d’Este, mentre il ducato di Massa e il principato di Carrara andarono a titolo vitalizio all’arciduchessa Maria Beatrice d’Este[11]; alla morte di questa, Massa e Carrara sarebbero state annesse al ducato di Modena, cosa che avvenne nel 1829[12]. I ducati di Parma, Piacenza e Guastalla furono assegnati a Maria Luisa d’Asburgo, moglie di Napoleone a titolo vitalizio: la preoccupazione, infatti, che su quel trono potesse salire il figlio di Napoleone convinse Metternich a inserire una clausola per la quale, alla morte dell’imperatrice, i ducati sarebbero tornati ai Borbone[13].
Nessuna novità per il Granducato di Toscana, dove tornarono gli Asburgo-Lorena con l’arciduca Ferdinando d’Austria[14], mentre Lucca, divenuta un ducato, andò a Maira Luisa di Borbone e ai suoi eredi, nell’attesa che si liberassero i ducati di Parma e Piacenza; a quel punto, i Borbone si spostarono in Emilia-Romagna, mentre il ducato di Lucca fu annesso al Granducato di Toscana[15]. Continuò a esistere lo Stato minore della Repubblica di San Marino[16].
Al Sud Ferdinando IV di Borbone tornò sul trono di Napoli, senza cambiamenti territoriali ma con il cambio di nome da Regno di Napoli a Regno delle Due Sicilie[17]. Lazio, Marche, Umbria e le legazioni sulla riva destra del Po (cioè Ravenna, Bologna e parte di Ferrara) costituirono lo Stato pontificio[18].
Area germanica
Il riassetto dell’area tedesca presentò molte più difficoltà, anche perché, mentre in Italia era fuori di dubbio il predominio austriaco, in Germania l’Austria e la Prussia si giocavano il ruolo di Stato-guida. Due provvedimenti presi a Vienna balzano subito agli occhi. Anzitutto, non fu restaurato il Sacro Romano Impero, che dunque concluse nel 1806 la sua storia quasi millenaria[19]. Si decise inoltre di non seguire appieno il principio di legittimità, lasciando in piedi gran parte della semplificazione voluta da Napoleone. Degli oltre trecento Stati tedeschi esistenti prima della Rivoluzione francese, infatti, a Vienna ne furono restaurati soltanto 34, più le 4 città libere di Francoforte sul Meno, Lubecca, Brema e Amburgo[20]. A livello di singoli Stati, oltre che la questione relativa alla Sassonia di cui si è già detto, va notato il potenziamento della Baviera, che assunse la funzione di Stato cuscinetto[21].
Per quanto riguarda il predominio in quest’area, con il Congresso di Vienna la Prussia assunse una posizione di vantaggio sull’Austria, il cui baricentro si era spostato a sud, verso l’Italia e i Balcani[22]. Non è un caso che per la prima volta in questo periodo si sia iniziato a guardare alla Prussia come possibile Stato-guida per realizzare un’unificazione della Germania[23]. Di Germania unita, però, a Vienna non si parlò. Venne invece creata una Confederazione germanica che riuniva tutti e trentotto gli Stati, avente come organi una Dieta di diciassette membri (gli Stati minori vennero riuniti in gruppi, e ogni gruppo aveva un voto) e un’assemblea generale sempre composta da diciassette membri, ma nella quale i voti erano pesati in base all’estensione dello Stato[24].
Le altre decisioni
Non fu semplice la sistemazione della Svizzera, anch’essa occupata dalla Francia napoleonica, e lacerata dalle divisioni interne tra i vari cantoni[25]. Furono molti gli aggiustamenti territoriali interni tra cantoni. In breve, Ginevra, Neuchâtel e il Vallese furono riconosciuti come cantoni sovrani; il cantone di Vaud ottenne la valle di Dappes, mentre a Berna andarono i territori dell’ex principato vescovile di Basilea; come detto, Bormio, Valtellina e Chiavenna restarono al Lombardo-veneto austriaco, mentre Mulhouse veniva conservata dalla Francia[26]. A margine del Congresso fu chiesto alla confederazione svizzera di dotarsi di nuove istituzioni, cosa che avvenne il 7 agosto 1815. Con questo patto federale, i ventidue cantoni si unirono a tutela dell’indipendenza elvetica, mentre una Dieta diresse da allora in poi la politica estera della confederazione. A Vienna, infine, fu anche sancita la neutralità perpetua della Confederazione, scelta che è rimasta uno dei punti fermi della Svizzera fino a oggi[27].
Si è accennato all’indipendenza ottenuta dai Paesi Bassi. Sempre con una funzione di Stato cuscinetto, infatti, nel Congresso di Vienna si decise di formare il nuovo Regno dei Paesi Bassi, assegnato al principe di Orange-Nassau, e comprendente anche il Belgio e i territori del Granducato di Lussemburgo. Il principe, in cambio, rinunciava ai suoi possedimenti tedeschi, che venivano ceduti alla Prussia[28].
Per quanto riguarda l’Inghilterra, essa sciolse tutti i nodi che più la preoccupavano prima dell’inizio del Congresso di Vienna. In particolar modo, ottenne l’indipendenza dei Paesi Bassi dall’Austria, in cambio del predominio asburgico in Italia; strinse un accordo con la Spagna per il commercio con le colonie; concluse, il 24 dicembre 1814, la pace con gli Stati Uniti a seguito della Guerra d’indipendenza americana[29]. Altri obiettivi furono comunque raggiunti[30]. In particolare, a Vienna non si discusse minimamente di questioni relative alla libertà dei mari e alle colonie, che l’Inghilterra voleva venissero toccati il meno possibile. Inoltre, Castlereagh riuscì a conservare Malta nel Mediterraneo, a cui si aggiunse il protettorato sulle isole ioniche, che erano sotto la sovranità dell’Impero ottomano; nel Mare del Nord, l’Inghilterra ottenne l’isola di Helgoland, mentre dall’Olanda acquisì la colonia del capo di Buona speranza a Ceylon. Il dominio inglese sui mari, insomma, uscì rafforzato dal Congresso di Vienna. Ciò che Castlereagh non riuscì a ottenere fu una dichiarazione del Congresso che affermasse la difesa dell’integrità dell’Impero ottomano, voluta dall’Inghilterra per tutelare i suoi interessi nel Mediterraneo[31].
Infine, vanno citati i numerosi cambiamenti sanciti a Vienna in area scandinava. La Svezia, che era la principale potenza in quella zona, perse sia la Finlandia (a beneficio della Russia) che la Pomerania, che andò alla Prussia. In cambio di queste perdite, il sovrano svedese ottenne, in unione personale, il regno di Norvegia, che veniva sottratto alla Danimarca, colpevole di essere stata un fedele alleato di Napoleone[32]. A parziale compensazione della perdita della Norvegia, il re di Danimarca divenne duca dell’Holstein e dello Schleswig, due ducati tedeschi membri anche della Confederazione germanica[33].
Il concerto europeo
Il Congresso di Vienna non si limitò soltanto alla ridefinizione della mappa europea secondo i principi della legittimità e dell’equilibrio. Le potenze europee, infatti, cercarono anche di creare un sistema che consentisse la difesa dell’assetto definito dal Congresso.
In questo senso, la prima iniziativa fu la stipula della Santa alleanza che vedeva coinvolti i tre imperatori di Russia, Austria e Prussia. Il testo del trattato[34], che era stato scritto personalmente dallo zar Alessandro I, era “un monumento vuoto e sonoro” secondo Metternich, mentre Castlereagh parlò ironicamente di “un documento sublime di misticismo e nonsense”[35]. I tre sovrani, rappresentanti le principali religioni cristiane (cattolicesimo per l’Austria, protestantesimo per la Prussia e cristianesimo ortodosso per la Russia), si impegnavano a rimanere uniti tra loro e a governare secondo i principi evangelici del cristianesimo[36]. Alla Santa alleanza aderirono tutti i principali Stati europei – compresi il Regno di Sardegna, il Regno delle Due Sicilie e la Francia – mente non parteciparono l’Inghilterra e lo Stato pontificio. Il re inglese, infatti, affermò di non poter sottoscrivere un trattato personale tra sovrani, essendo necessaria, secondo la legge britannica, anche la firma del ministro, mentre il papa si rifiutò di firmare un documento che non riconosceva il primato di Roma[37].
Se la Santa alleanza fu il primo passo verso il concerto europeo, l’evento decisivo fu la firma della Quadruplice alleanza da parte di Austria, Prussia e Russia, alle quali si aggiunse l’Inghilterra. Fu proprio Castlereagh a spingere affinché si formasse la Quadruplice alleanza, il cui trattato prevedeva che le quattro potenze avessero legami molto stretti, per garantire e tutelare l’ordine stabilito a Vienna. Di fondamentale importanza era l’articolo 6, con il quale i sottoscrittori si impegnavano a incontrarsi periodicamente per risolvere le questioni del continente, tutelando, almeno in teoria, il mantenimento della pace. Era l’atto di nascita del “sistema dei congressi”, altrimenti detto “concerto europeo”[38].
Sono quattro i principali princìpi sui quali si fondava il concerto europeo. Anzitutto, per la prima volta nella storia, le grandi potenze si riconoscevano come tali, attribuendo a loro stesse uno status più importante rispetto alle altre nazioni. Sino ad allora c’erano ovviamente state nazioni più ricche e potenti delle altre, ma la differenza di rango non era mai stata così evidentemente esplicitata[39]. Secondo principio fondamentale era il riconoscimento, da parte delle stesse grandi potenze, del fatto che solo collaborando tra di loro potessero essere in grado di conservare l’ordine costituito dal Congresso di Vienna[40]. La collaborazione, però, non doveva limitarsi a effimere alleanze bilaterali, ma, appunto, dovevano esservi riunioni periodiche tra i rappresentati che dirimessero le questioni controverse, e questo era il terzo fondamentale principio del concerto europeo[41]. Poiché l’intero sistema era stato creato per tutelare e difendere la situazione decisa a Vienna, era scontato che in tali riunioni periodiche i grandi d’Europa avrebbero guardato favorevolmente soprattutto agli Stati che fossero antirivoluzionari e sostenitori dell’ordine restaurato. Non è un caso che nel 1818 venisse consentito l’ingresso della Francia di Luigi XVIII nel concerto europeo, contestualmente alla fine dell’occupazione militare da parte della Quadruplice alleanza[42].
Fu proprio la questione francese il primo banco di prova del sistema dei congressi. Nel 1818, infatti, le grandi potenze si riunirono ad Aquisgrana per decidere se porre fine all’occupazione della Francia. Alessandro I tentò di mettere all’ordine del giorno anche la questione delle colonie sudamericane da anni ribelli contro la Spagna, ma trovò il netto rifiuto dell’Inghilterra, sia perché negli anni immediatamente precedenti aveva guadagnato vantaggi commerciali nel Sud America, sia perché timorosa, non a torto, che lo zar volesse sfruttare l’occasione per discutere in generale della situazione delle colonie, attaccando la supremazia inglese[43]. Alla fine al Congresso di Aquisgrana si parlò solo della questione francese, e il risultato fu l’ammissione della Francia nel concerto.
Ci fu però un altro aspetto fondamentale di questo congresso. Al suo termine, infatti, Austria, Prussia e Russia firmarono una dichiarazione nella quale nazionalismo, liberalismo e costituzionalismo erano condannati come nemici dell’ordine costituito. Era l’esplicitazione della funzione del concerto europeo: sopprimere i movimenti liberali e nazionali. L’Inghilterra rifiutò di firmare la dichiarazione, e il sistema dei congressi mostrò in questo caso anche la sua prima crepa[44]. Castlereagh, infatti, chiarì in un memorandum che l’Inghilterra, pur rispettando le decisioni prese a Vienna, non riteneva che i membri della Quadruplice alleanza potessero intervenire nelle questioni interne degli altri Stati[45].
Tali divisioni tra i firmatari della Santa Alleanza e l’Inghilterra si acuirono in occasione del secondo congresso del concerto europeo, quello di Troppau del 1820. In quell’anno erano scoppiate rivolte in Spagna, in Portogallo e nel Regno delle Due Sicilie[46]. I grandi si riunirono con l’obiettivo di sedare queste rivolte e riportare l’ordine in Europa. Castlereagh, significativamente, non andò a Troppau, delegando il principe Stewart, suo fratellastro[47]. L’Inghilterra accettò subito che l’Austria potesse intervenire nel Sud Italia, ma Metternich voleva di più, e cioè una giustificazione morale dell’intervento. Fu in questo contesto che si rispolverò la Santa alleanza. Austria, Prussia e Russia firmarono a Troppau un protocollo in cui si affermava che ogni Stato nel quale avesse trionfato la rivoluzione sarebbe stato escluso dalla Santa alleanza; i membri dell’alleanza, però, si arrogavano il diritto di intervenire anche con le armi per riportare l’ordine negli Stati rivoluzionari[48]. L’Inghilterra, tramite Castlereagh, sconfessò apertamente e pubblicamente il protocollo di Troppau, affermando che l’intervento negli affari interni di altri Stati era in contrasto con le proprie leggi fondamentali[49]. La posizione inglese venne confermata in occasione del successivo congresso di Lubiana del 1821, nel quale si ribadirono le decisioni prese a Troppau, e si diede il via libera definitivo all’intervento austriaco nel Regno delle Due Sicilie[50].
L’ultimo atto del concerto europeo fu il congresso di Verona del 1822, convocato per risolvere due questioni. La prima riguardava la rivolta ancora in corso in Spagna; a Verona fu dato mandato alla Francia di reprimerla (nonostante l’opposizione inglese), cosa che avvenne puntualmente nel 1823[51]. Il secondo problema era rappresentato dalla rivolta greca contro l’Impero ottomano. La situazione era particolarmente scomoda per Alessandro I, che doveva scegliere tra il suo ruolo di difensore della cristianità ortodossa e quello di tutore dell’ordine contro i movimenti rivoluzionari[52]. Alla fine sull’affare greco il congresso non decise, anzi. Wellington, rappresentante dell’Inghilterra, lasciò i lavori perché contrario al principio di intervento. Fu questo l’evento simbolico che segnò la fine del sistema dei congressi[53].
Conclusione
In realtà, non vi è accordo su quando il concerto europeo sia effettivamente finito. Alcuni hanno sostenuto che effettivamente il congresso di Verona fu l’ultimo atto del sistema messo in piedi a Vienna; altri ritengono che il concerto europeo sia durato fino allo scoppio della Prima guerra mondiale[54]. È certo, però, che la crisi del concerto era già evidente negli anni Cinquanta dell’Ottocento, anche grazie alla primavera dei popoli del 1848. La guerra di Crimea del 1853 e le guerre di unificazione di Italia e Germania furono sintomi evidenti della crisi dell’ordine stabilito a Vienna[55].
Uno dei motivi principali della crisi del sistema dei congressi fu senza dubbio il ritiro dell’Inghilterra, ma anche le altre potenze non erano poi così unite, anzi, avevano vari motivi di contrasto a dividerle[56] (si pensi alla volontà russa di arrivare ai Balcani, che incontrava la forte opposizione austriaca, o al conflitto latente tra Austria e Prussia per il predominio nell’area tedesca).
Si deve però stare attenti a non considerare le decisioni del Congresso di Vienna e il concerto europeo come cose del tutto anacronistiche, il cui unico obiettivo era riportare indietro le lancette della storia. Anzitutto, quello fu il primo tentativo serio di dare vita a una storta di governo internazionale, con incontri periodici tra i leader delle grandi potenze che dalla seconda metà del XX secolo sono divenuti un’abitudine[57]. In secondo luogo, pur scomparendo i congressi, l’ordine di Vienna resse praticamente inalterato fino al 1860[58], e tra il 1815 e il 1914 i principali cambiamenti furono le unificazioni di Italia[59] e Germania, entrambe ad opera di casate, i Savoia e gli Hohenzollern, che avevano partecipato alla Santa alleanza.
In conclusione, pur avendo obiettivi del tutto reazionari, con il concerto europeo le grandi potenze tentarono di creare un sistema che potesse evitare guerre continue, rivolgimenti e disordini come quelli avvenuti in età napoleonica. Il presunto rapido fallimento del concerto, peraltro tutto da dimostrare, non deve portare a una sottovalutazione della sua portata, e non va commesso l’errore di considerarlo come un residuo fuori tempo massimo dell’Ancien Régime.
Emanuele Del Ferraro per www.policlic.it
Riferimenti bibliografici
[1] V. Criscuolo, Il Congresso di Vienna, Il Mulino, Bologna 2015, pp. 31-65.
[2] Ivi, p. 90.
[3] Ivi, p. 91.
[4] Ivi, p. 94.
[5] Ivi, p. 95.
[6] Ivi, p. 97.
[7] Ivi, p. 98.
[8] Atto finale del Congresso di Vienna del 9 giugno 1815 ed altri trattati che vi si riferiscono e la Convenzione fra Austria e Sardegna del 4 ottobre 1754, Libreria Francesco Sanvito, Milano 1859.
[9] Ivi, pp. 53-55 e V. Criscuolo, op. cit., p. 128.
[10] V. Criscuolo, op. cit., p. 128.
[11] Atto finale del Congresso di Vienna, op. cit., p. 59.
[12] V. Criscuolo, op. cit., p. 130.
[13] Ibidem.
[14] Atto finale del Congresso di Vienna, op. cit., pp. 59-60.
[15] V. Criscuolo, op. cit., p. 130.
[16] Ivi, p. 131.
[17] Atto finale del Congresso di Vienna, op. cit., p. 62.
[18] Ibidem.
[19] V. Criscuolo, op. cit., p. 117.
[20] Ivi, p. 120.
[21] Ivi, p. 116.
[22] Ivi, p. 117.
[23] Ibidem.
[24] Ivi, p. 120.
[25] Ivi, p. 126.
[26] Ivi, p. 127 e Atto finale del Congresso di Vienna, op. cit., pp. 47-57.
[27] V. Criscuolo, op. cit., pp. 127-128.
[28] Atto finale del Congresso di Vienna, op. cit., pp. 41-46.
[29] V. Criscuolo, op. cit., p. 60.
[30] Ivi, p. 138.
[31] Ivi, p. 139.
[32] Voce Vienna, Congresso di, in Enciclopedia online Treccani.
[33] Voce Holstein, in Enciclopedia online Treccani.
[34] Disponibile su Dizionaripiu Zanichelli.
[35] V. Criscuolo, op. cit., p. 153.
[36] Voce Santa alleanza, in Enciclopedia online Treccani.
[37] V. Criscuolo, op. cit., p. 153.
[38] Ivi, p. 154.
[39] K. Lascurettes, The Concert of Europe and great-power governance today: what can the order of 19th-Century Europe teach policymakers about international order in the 21st Century?, RAND Corporations, Santa Monica 2017, p. 5.
[40] Ivi, p. 6.
[41] Ibidem.
[42] Ivi, p. 7.
[43] V. Criscuolo, op. cit., p. 155.
[44] M. Aggarwal, History of The Concert of Europe (1815-22), in HistoryDiscussion.net.
[45] V. Criscuolo, op. cit., p. 156.
[46] Ivi, p. 159.
[47] Ivi, p. 160.
[48] M. Aggarwal, op. cit.
[49] V. Criscuolo, op. cit., p. 161.
[50] M. Aggarwal, op. cit.
[51] V. Criscuolo, op. cit., p. 162.
[52] Ibidem.
[53] M. Aggarwa, op. cit.
[54] K. Lascurettes, op. cit., p. 14.
[55] Ivi, p. 16.
[56] M. Aggarwal, op. cit.
[57] Ibidem.
[58] Gli unici cambiamenti furono l’indipendenza greca del 1826 e quella del Belgio del 1830. Inoltre, i moti rivoluzionari del 1830 portarono in Francia alla sostituzione dei Borbone con Luigi Filippo d’Orleans, mentre quelli del 1848 alla proclamazione dell’effimera Seconda repubblica, presto trasformata in impero da Luigi Napoleone Bonaparte.
[59] Sull’Unità d’Italia si vedano L. Battaglia, Dall’unificazione alla questione meridionale: analisi storica delle conquiste e delle contraddizioni dell’Italia unita fino ai giorni nostri, in Policlic n. 5, novembre 2020; E. Del Ferraro, Come si è arrivati all’Unità d’Italia: il “decennio di preparazione” dal fallimento del 1848 al successo dei Mille, in Policlic.it, 17 marzo 2021.