L’Africa è il luogo di origine dell’umanità. A questa realtà scientifica non si pensa quasi mai, o lo si fa distrattamente. Sembra banale a dirsi, quasi una nozione da scuola elementare, ma questo fatto non si prende mai in considerazione. La conoscenza che un cittadino medio ha dell’Africa si basa su poche immagini: savane in cui vivono leoni, giraffe ed elefanti; terre povere in cui la gente muore di fame; luogo di guerre, clima caldo e torrido, deserti, emigrazione. Di certo, non è questa la realtà del continente africano, un continente con una superficie di oltre trenta milioni di km2, la cui popolazione supera l’1,3 miliardi di persone suddivise in 54 Stati, un continente che ospita gli ecosistemi più diversificati e ricchi del mondo.
Quando si parla di Africa non si può non parlare del colonialismo, una tra le forze che hanno maggiormente plasmato l’attuale situazione sociopolitica ed economica di questo continente. E quando si parla di colonialismo si intende quasi sempre quello europeo. Si dimentica che, all’interno del continente stesso, ancora prima della sua scoperta, e anche sull’uso del termine “scoperta” potremmo ritrovarci criticati dalle popolazioni africane, i vari popoli hanno colonizzato altre popolazioni. Due esempi: i bantu che tra il 3000 a.C. e il 500 d.C. dall’Africa centro-occidentale si diressero verso il Sudafrica, e le popolazioni afroasiatiche che colonizzarono le terre nel nord partendo da oriente.
La colonizzazione dell’Africa da parte dei Paesi europei iniziò con il primo insediamento portoghese in Africa nel 1415, per poi concludersi con l’indipendenza dell’ultima colonia britannica della Rodesia del Sud nel 1980 e della Namibia nel 1990.
La colonizzazione iniziò dalle coste ma era difficile spingersi oltre, sia perché l’Africa contava diverse nazioni e regni locali che avevano il controllo totale del proprio territorio, sia perché diffondere l’agricoltura in questi ambienti non era così facile. Ma dall’Africa, in quel periodo, è stato comunque “preso” qualcosa: milioni di esseri umani furono ridotti a beni da vendere e usare come manodopera nelle nuove colonie americane. Sulla questione agricola ci sarebbe da scrivere molto, sui motivi ambientali per cui un’agricoltura di tipo mediterraneo non ha potuto diffondersi in questo continente, cosa che, invece, per ragioni geografiche, di latitudine e di clima, si è potuta fare in Europa a partire dall’attuale Siria. La colonizzazione dell’Africa ha dovuto aspettare l’espansione dell’uso delle armi da fuoco e la creazione di eserciti regolari e organizzati, oltre a forti marine militari. La colonizzazione è violenza, è sottomissione; la colonizzazione usa la forza contro le nazioni e gli eserciti locali, i quali sono agguerriti ed esperti nelle guerre di campo, come hanno potuto sperimentare gli inglesi nella battaglia di Isandlwana (1879) e gli italiani in quella di Adua (1896).
La battaglia di Isandlwana ebbe luogo il 22 gennaio del 1879 nel Sudafrica orientale, nel corso della guerra anglo-zulu. Primo scontro su larga scala del conflitto, la battaglia vide una forza britannica di circa 1.800 uomini – tra truppe regolari e coloniali – confrontarsi con l’armata principale del Regno Zulu, composta da 20.000 guerrieri. Le forze zulu colsero di sorpresa l’accampamento nemico e, dopo un duro combattimento, annientarono quasi completamente il contingente britannico, sebbene quest’ultimo fosse dotato di mortai, cannoni e mitragliatrici. La disfatta patita dalle forze britanniche nella battaglia provocò grande costernazione in patria e obbligò il comandante in capo Lord Chelmsford a interrompere l’invasione del regno zulu per rivedere tutta la strategia. Lo scontro rappresentò la peggiore sconfitta mai riportata dalle forze armate britanniche contro un nemico tecnologicamente inferiore, e le perdite risultarono le più alte mai patite dal British Army contro un nemico africano. Assieme alla battaglia di Adua del marzo del 1896, quella di Isandlwana rappresentò una delle maggiori vittorie riportate da un esercito indigeno contro le forze coloniali europee.
La battaglia di Adua, momento culminante e decisivo della guerra di Abissinia, si combatté nei dintorni della città etiope di Adua tra le forze italiane e l’esercito abissino del negus Menelik II. Gli italiani subirono una pesante sconfitta, che arrestò per molti anni le ambizioni coloniali sul corno d’Africa.
Dopo i primi tentativi di penetrazione nel continente, le cose cambiarono: enormi eserciti europei dotati di cannoni e mitragliatrici scesero nel continente e iniziò la conquista dell’Africa. Nel 1884, tredici nazioni europee si incontrarono a Berlino per spartirsi di fatto il continente africano. Senza preoccupazioni per le culture o le nazioni africane, la mappa fu ridisegnata e le terre rivendicate; gli stessi confini tracciati sulla carta sono più o meno quelli che vediamo ancora oggi nella configurazione dei 54 Stati africani. Il massacro degli Herero fu il primo genocidio del XX secolo: decine di migliaia di uomini, donne e bambini furono fucilati, affamati e torturati a morte dalle truppe tedesche mentre abbattevano le tribù ribelli in Namibia. Fughe nel deserto del Kalahari, i pozzi avvelenati e le forniture di cibo tagliate. In Uganda ci fu, invece, la prima frode elettorale, a favore di Apollo Milton Obote, che fu organizzata direttamente da Londra. Il governatore britannico del tempo, Sir Fredrick Crawford, un uomo onesto fino all’eccesso, si dimise poiché non era disposto a partecipare a una tale manipolazione.
Al di là delle decisioni sullo Stato Libero del Congo, la conferenza di Berlino negli atti ufficiali si limitò a sancire regole commerciali, umanitarie e, solo per quanto riguarda le coste, di colonizzazione. Su quest’ultimo punto, poi, c’è da considerare che quasi tutti i tratti costieri del continente erano già occupati. Dopo i lavori della conferenza, si fecero strada in diplomazia concetti quali la “sfera di influenza da consolidare” e l’Hinterland, idea tedesca per cui una potenza con rivendicazioni sulla costa aveva diritto all’entroterra adiacente. Da questo momento in poi, le varie potenze, ma soprattutto Francia e Gran Bretagna, si contesero la conquista di nuovi territori all’interno del continente africano, ciò che in inglese venne chiamato Scramble for Africa, ovvero sgomitare per l’Africa.
L’Africa è stata teatro degli scontri della Seconda guerra mondiale, dove la popolazione locale è stata vittima del conflitto e usata come carne da macello sia in Africa che in Europa. L’Africa, soprattutto prima e durante la Seconda guerra mondiale, è stata sempre più obiettivo della guerra a causa delle risorse minerarie e petrolifere di cui era ricca. Dopo la guerra, le cose non potevano rimanere in quel modo. Si doveva tenere conto delle nuove sfere di influenza che penalizzavano i Paesi che avevano perso la guerra, i diritti umani sanciti dai vari accordi e l’inizio dell’influenza dell’ONU, il principale artefice di quella che è stata definita come “decolonizzazione”. Ma, talvolta, le cose sembrano cambiare e poi non cambiano: al potere degli eserciti in armi si sostituì il potere economico e le influenze culturali già radicate durante la colonizzazione. Finita la colonizzazione, iniziò la fase di neo-colonizzazione con nuovi Paesi che si affacciarono sul continente africano, come quelli arabi, gli USA e la Cina. Iniziarono una serie di pratiche: l’appropriazione delle terre agricole e forestali e dei diritti minerari, gli investimenti – non sempre andati a buon fine – della Banca Mondiale, la vendita di armi, il finanziamento dei signori della guerra e il fenomeno della corruzione.
Appartengono agli ultimi mesi del 2020 i processi che vedono coinvolti gruppi petroliferi, anche italiani, in atti di corruzione e induzione indebita in Algeria, in Congo e in Nigeria.[1] L’Italia è uno dei maggiori esportatori di armi[2] e l’Africa ha rappresentato un importante mercato per questo commercio che ha visto, come committenti, non solo gli Stati ma anche i signori della guerra. Il Sahara occidentale è ancora pieno di milioni di mine antipersona prodotte in Italia, le quali, dopo oltre quarant’anni, seminano ancora morte.[3] Quali sono le risorse naturali dell’Africa? Innumerevoli e tali da far concentrare in questo continente le maggiori forze predatrici del pianeta. Uranio, petrolio, metano, cobalto, diamanti, graffite, bauxite, titanio, oro, rame, ferro, fosfati, nichel, platino, litio, neodimio, niobio, praseodimio, solo per citare i beni minerali e gli idrocarburi principali. Ma si sfrutta l’Africa anche per la sua biocapacità composta dalle risorse idriche, dalle foreste e dal suolo. Ormai l’Europa, gli USA, l’Asia e il Medio Oriente hanno superato la soglia di utilizzo delle risorse naturali e stanno sfruttando quelle di biocapacità ancora situate in America meridionale, in Russia e nel continente africano.
Non minore distruzione causano i grandi progetti idraulici e agricoli, a volte finanziati dalla Banca Mondiale e altre dai consorzi nazionali.[4] Tali progetti prevedono di prelevare l’acqua dai Grandi Laghi e dai fiumi africani per alimentare l’espansione edile e l’agricoltura industriale a uso e consumo delle multinazionali, che nulla lasciano alle popolazioni locali. Così si svuota, ad esempio, il lago Ciad che fa sopravvivere più di venti milioni di persone e che ora è diventato un acquitrino melmoso dove gli estremisti fanno proseliti tra i rifugiati. E così si tagliano e si bruciano le foreste primarie africane per estrarre i legnami più rari e pregiati; molte delle aziende coinvolte sono italiane. E sono sempre italiane alcune aziende coinvolte nel land grabbing, ovvero nelle appropriazioni di territorio a uso agricolo e forestale, di solito in cambio di poche risorse economiche e strutturali.
I meccanismi economici sono a volte perversi e hanno ripercussioni imprevedibili. Pochi sanno, ad esempio, che il concentrato di pomodoro prodotto in Italia distrugge la produzione di pomodoro locale di alcuni territori africani, tra cui il Ghana. Grazie ai sussidi che ricevono, le aziende italiane riescono a vendere in Africa scatole di concentrato di pomodoro a un prezzo più basso di quello prodotto localmente. L’effetto è stato quello di provocare il fallimento di molte piccole aziende agricole e delle fabbriche di conserva di pomodoro. Rimasti senza lavoro, questi imprenditori e agricoltori locali hanno una sola scelta: emigrare. Ed emigrano soprattutto in altri Paesi africani, ma migliaia di loro arrivano anche in Puglia e, paradossalmente, finiscono per lavorare, per pochi euro, nelle aziende che avevano causato il fallimento di quelle africane.[5]
Il pomodoro italiano, ovviamente, non è il solo artefice di tutto questo. A soffocare le economie dei Paesi poveri ci sono anche il latte e il burro olandesi, il maiale tedesco, il manzo irlandese, lo zucchero e la farina francesi. James Wolfensohn, presidente della Banca Mondiale, denuncia che “una mucca in Europa riceve ogni giorno 2,5 dollari di sussidi, in Giappone arriva a 7 dollari al giorno, mentre un bimbo africano vive con meno di un dollaro al giorno”. Insomma, in questo mercato le economie deboli sono strangolate perché, come dice Robert Aboagye-Mensan (segretario del Consiglio delle chiese del Ghana), “la concorrenza fra Ghana e occidente è come una gara fra antilope e giraffa per la frutta che sta nei rami più alti. Anche se si livella il terreno, non sarà mai una concorrenza leale”.[6]
Tutto questo ha una enorme ripercussione sull’economia dei Paesi africani che, comunque, si organizzano e cercano di unirsi per un futuro migliore, anche con progetti ambiziosi ed ecologici, come la grande muraglia verde del Sahel, la quale è stata ideata contro la desertificazione e per combattere i cambiamenti climatici. Ma la gara è truccata e gli effetti per l’intero pianeta devono essere ancora valutati. Se l’Amazzonia è uno dei polmoni del mondo, l’Africa è scuramente l’altro, e i danni che il sistema economico e politico mondiale sta compiendo in Africa hanno già ripercussioni visibili su tutto il pianeta. I cambiamenti climatici non miglioreranno la situazione: le zone già in difficoltà ambientale o economica vedranno dei forti peggioramenti dovuti al clima che muta. Se attualmente sono circa dieci milioni i rifugiati e i migranti africani a causa di guerra e povertà, quasi tutti ospitati da altri Paesi africani, si stimano in sessanta o cento milioni quelli che saranno causati dai cambiamenti climatici indotti dall’uomo.
Il mio timore, per quello che vedo e conosco dell’Africa, è che l’intromissione dei Paesi europei sta assumendo i caratteri della vecchia colonizzazione. Truppe francesi e italiane sono sempre più presenti, e non in ambito ONU, in Niger, in Libia, in Somalia e in Gibuti.[7] Ufficialmente, per contrastare l’immigrazione e dare sicurezza in quelle aree, ma la loro sola presenza è causa di insicurezza. Sicuramente tali missioni militari costano di più che prevenire l’immigrazione con progetti concreti di aiuto; sarebbe utile anche smettere di interferire nelle politiche interne e nell’economia africana.
La colonizzazione iniziata nel 1800 prevedeva un’appropriazione di risorse volta ad arricchire il continente europeo. Quella dopo la Seconda guerra mondiale serviva a sostenere un sistema economico industriale non sostenibile sulle spalle delle popolazioni e della natura dell’Africa. Temo che la colonizzazione del futuro potrebbe tramutarsi in appropriazione di risorse per far fronte alla distruzione dell’ambiente e delle società civili che le prime colonizzazioni hanno causato. Ma, questa volta, si parla di sopravvivenza e non solo di arricchimento; questa volta le tensioni tra le popolazioni potrebbero essere più forti e le popolazioni africane potrebbero non essere disposte a morire per la sopravvivenza altrui. I Paesi ricchi lo sono a spese delle risorse del pianeta, e causano povertà, guerre e distruzione dell’ambiente. I cittadini di queste nazioni sono abituati a vivere al di sopra delle proprie possibilità, preferendo non sapere da dove arriva la ricchezza. I poteri economici e politici non hanno interesse a far conoscere la provenienza di tali beni ed erigono muri, inviano truppe, creano ideologie razziste e, più le risorse naturali vengono meno più i muri dovranno essere alti, ma un muro – per quanto alto – non regge alla prova del tempo e della natura. Lo stesso Pentagono americano, in uno studio, parlava dell’insostenibilità dei costi militari per far fronte alle tensioni internazionali per l’accaparramento delle risorse naturali, e suggeriva una via più ecologica che tenga conto della giustizia tra i popoli. Bisogna trovare una strada nuova, perché le altre portano a guerre ad ampia scala e all’insicurezza globale.[8]
In Africa sono presenti forze interne innovative e democratiche, provenienti sia dai Paesi che, orgogliosamente e non senza sacrifici, hanno resistito alla colonizzazione europea e all’apartheid, sia dai Paesi che sono ancora sotto l’influenza straniera o sotto dittature locali. Si tratta di una grande energia che a volte sfocia in idee grandiose e a volte in lente ma profonde rivoluzioni. Alcuni esempi: le grandi opere di riforestazione, la difesa della natura dei grandi parchi africani, le pratiche di agroecologia portate avanti in alcuni dei luoghi più aridi del pianeta, la capacità di introspezione filosofica e culturale di molti pensatori e politici africani. Che la strada dell’ecologia e della solidarietà stia nascendo in Africa e negli altri territori sfruttati? Queste realtà africane potrebbero essere di esempio per le altre nazioni, se solo ci sforzassimo di vedere oltre gli stereotipi e oltre la coltre di violenza seminata nel corso dei secoli, se solo intavolassimo serie ed eque trattative politiche e commerciali con quella che è stata la culla dell’intera umanità. Forse, se salvassimo l’Africa, se ci alleassimo equamente e secondo giustizia con i Paesi africani, potremmo ricreare una nuova umanità e trovare una soluzione pacifica per un futuro prospero e solidale.
[1] N. Scavo, Caso Congo, Eni patteggia un risarcimento da 11 milioni, in “Avvenire”, https://www.avvenire.it/attualita/pagine/caso-congo-eni-patteggiamento-11-milioni (ultima consultazione: 26 marzo 2021).
Redazione, Eni e Shell in Nigeria: che cosa abbiamo imparato dal processo contro le multinazionali, in “Altraeconomia”, https://altreconomia.it/eni-e-shell-in-nigeria-che-cosa-abbiamo-imparato-dal-processo-contro-le-multinazionali/ (ultima consultazione: 16 marzo 2021).
A. Giannì, Shell dovrà risarcire gli agricoltori nigeriani: i signori del petrolio non sono più al sicuro, in “Il Fatto quotidiano”, https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/02/01/shell-dovra-risarcire-gli-agricoltori-nigeriani-i-signori-del-petrolio-non-sono-piu-al-sicuro/6085968/ (ultima consultazione: 1 febbraio 2021).
Vedi anche ENI and the Nigerian Ikebiri case, Press briefing Friend of the Earth 4 maggio 2017, https://www.greenpeace.org/static/planet4-italy-stateless/2018/11/85d5f1e8-85d5f1e8-foee-eni-ikebiri-case-briefing-040517.pdf
[2] A. Sinopoli, Il made in Italy che uccide, in “Nigrizia”, https://www.nigrizia.it/notizia/il-made-in-italy-che-uccide (ultima consultazione: 14 luglio 2020).
[3] “Rapporto Western Sahara”, SMACO UNMAS 2020, https://unmas.org/en/programmes/westernsahara
[4] “Water for Agriculture and Energy in Africa”, FAO report 2008, http://www.fao.org/3/i2345e/i2345e.pdf
[5] G. Cadalanu, Ghana, il pomodoro italiano soffoca i contadini locali, Repubblica, https://www.repubblica.it/online/esteri/ghana/ghana/ghana.html 17 marzo 2003, (ultima consultazione 28 maggio 2021)
[6] Ibid.
[7] Deliberazione del Consiglio dei ministri in merito alla partecipazione dell’Italia a ulteriori missioni internazionali per l’anno 2020, adottata il 21 maggio 2020, http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/1154792.pdf
[8] National Security Implications of Climate-Related, U.S.A. Department of Defense 23 luglio 2015, https://climateandsecurity.org/wp-content/uploads/2014/01/15_07_24-dod_gcc_congressional-report-on-national-security-implications-of-climate-change.pdf