Policlic 13
Gianni Vacchelli è un saggista, romanziere e contrattista presso l’Università degli Studi di Milano e l’Uniciels. È, inoltre, docente d’italiano, latino, storia e geografia presso il Liceo “C. Rebora” di Rho (MI), ma si è sempre considerato più uno scrittore prestato al mondo dell’insegnamento. Co-fondatore della Comunità di Ricerca “Colligite Fragmenta”, collabora col quotidiano “L’Avvenire”. Conosciuto soprattutto come dantista, ha dedicato saggi anche alla Bibbia e al pensiero del filosofo e teologo Raimon Panikkar, che fu anche suo amico personale. L’anno scorso ha pubblicato Dante e l’iniziazione femminile: Beatrice, Maria e altre ‘dee’ e L’inconscio è il mondo là fuori. Dieci tesi sul capitalocene: pratiche di liberazione. È noto inoltre come conferenziere, in Italia e all’estero, e per le sue letture dialogate di Dante, Manzoni e altri grandi protagonisti della letteratura. Ha conseguito un Dottorato di ricerca in Scienze della Cooperazione Internazionale presso l’Università degli Studi di Bergamo nel 2013, con una tesi sul pluralismo inter-intraculturale e la Bibbia.
Durante un suo recente incontro col pubblico, citando l’accademico Gianfranco Contini, lei ha evidenziato la profonda influenza di Francesco Petrarca, sino all’Ottocento, sulla cultura europea. Proprio il peso di Petrarca, tuttavia, ha forse spinto parte della critica a interpretare la letteratura con gli occhi dell’autore. Un aristocratico del suo tempo, che tende a considerate la cultura come qualcosa di elevato, esclusivo, separato dal popolo.
Petrarca aveva indubbiamente una visione aristocratica, per certi versi classista, della letteratura. La stessa lingua italiana, per secoli, è stata aristocratica e ha escluso il popolo. Pietro Bembo, e tutto il filone della successiva critica, hanno contribuito a dogmatizzare questa visione. Basti ricordare che i primi romanzi inglesi o spagnoli sono del Seicento. Il primo esempio italiano, I Promessi Sposi, è dell’Ottocento. Manzoni ebbe enormi difficoltà nel trovare una lingua universalmente accessibile. Non a caso riprese Dante che, pur contrario come Petrarca a una mercificazione della letteratura, voleva arrivare a tutti. È chiaro che stiamo comunque generalizzando e questo processo avvenne non per colpa di Petrarca, ma nonostante Petrarca, che fu un intellettuale impegnato, oltre che un eccelso poeta. Tuttavia, è vero che, per come molti petrarchisti hanno lavorato, la “Linea Petrarca” possa aver contribuito a plasmare il modello di un intellettuale, ad esempio in ambito accademico, parzialmente distaccato dalla concretezza, autoreferenziale. Oggi, tuttavia, ritengo che la realtà sia più complessa.
In che modo?
A quel modello, pur ancora presente, oggi si affianca l’estremo opposto, che ha totalmente trasformato il ruolo dell’intellettuale. Un letterato talmente poco interessato a quel tipo di cultura elevata, o aristocratica, da essere totalmente integrato al mercato. Un intellettuale che, per timore di perdere popolarità, non dice più “la verità al principe”. Rinuncia a essere il tafano socratico che punge e pone domande scomode. A quel punto, ben venga un po’ di aristocrazia petrarchesca, se significa dimostrare senso critico. Più in generale, oggi viene a essere negato il dissenso. Non c’è dialettica, la proposta di un modello alternativo a quello dominante porta al rifiuto e all’insulto, anziché alla discussione che ne confuti, o confermi la validità. Ad esempio, oggi sembra diventato impossibile criticare la società di mercato. Eppure, è un tema attualissimo anche per chi, come me, pur riconoscendo la grande filosofica di Marx, non ha certo una formazione marxista.
Ampliando il discorso, sembra che la società stia perdendo l’abitudine a contestualizzare, da un punto sia storico e culturale, sia interpersonale. Perché, a suo parere, oggi sembra sempre più difficile immedesimarsi nel diverso?
Perché siamo in un’epoca di astrazione. Pensiamo solo al virtuale, un mondo per sua stessa natura astratto, decontestualizzato. La modernità seicentesca è nata sull’astrazione. “Cogito ergo sum” è una formula geniale, ma avulsa da qualsiasi contesto. Penso, ma in che forme e su quali temi? Penso, ma da uomo del Primo, del Secondo, o del Terzo Mondo? L’astrazione è indubbiamente positiva, se la intendiamo quale possibilità del pensiero. È ciò che ci permette, ad esempio, di provare a immaginare cosa provasse e come pensasse Dante nel Trecento. Al contrario, penso che la modernità sia, invece, nata su una cattiva astrazione. Che la scienza sia cattiva astrazione, se diventa dogma, se pretende di matematizzare la realtà come sognava Galileo. Heidegger fece impazzire il mondo scientifico con l’affermazione “La scienza non pensa”. Essa non va, ovviamente demonizzata, ma va considerata per quello che è. Uno strumento utile, ma che ha dei limiti, e come tale va usato.
È un tema molto attuale. La pandemia ha portato la stessa comunità scientifica, e il giornalismo di settore, a criticare una visione dogmatica, ed errata, della scienza.
La vera scienza, infatti, è degna di lode. È creativa, mette continuamente in discussione se stessa, riconosce di avere dei limiti nel capire la realtà. La scienza non è scientismo. Quando viene dogmatizzata, ipostatizzata, ecco che la scienza diventa un’astrazione dagli effetti devastanti. Ritorno al discorso sul rifiuto del dissenso. Ho letto con interesse alcuni articoli del filosofo Giorgio Agamben, che ha espresso critiche nei confronti della gestione della pandemia. È stato demonizzato e insultato per questo, neanche fosse un blogger improvvisato. Invece parliamo di un accademico che ha insegnato in America e alla Ca’ Foscari di Venezia, di un intellettuale con una bibliografia sterminata. Io posso anche non essere d’accordo con le sue tesi, ma trovo che abbia svolto in pieno il suo ruolo di filosofo, ponendo domande legittime sul culto dei morti, sul rapporto tra scienza e religione, sulla medicina come nuova religione. La discussione sulla pandemia, in questo senso, è cruciale non solo per la pandemia in sé, ma per tutto ciò che ha comportato. Pensiamo ai bollettini delle vittime, un esempio di astrazione totale. Come si chiamavano quelle persone? Qual era la loro età? Quali malattie avevano? Quello è stato un modo sbrigativo e, mi si perdoni, violento di comunicare. A me, ad esempio, interesserebbe poter approfondire il legame tra pandemia e disastro ecologico. Da umanista lo intuisco, ma vorrei poter sentire a riguardo il parere di un climatologo o di un altro esperto di settore. Eppure, in questo caso, la scienza non è stata interpellata.
Altro esempio, la prevedibilità di questa pandemia. Ha sorpreso molti, me compreso. Eppure, ora mi rendo conto di come crisi del genere fossero, invece, annunciate da anni. Basti pensare a certi metodi di trattamento degli animali destinati all’alimentazione. Mio errore, come intellettuale, non accorgermene prima. È questo che intendo per cattiva astrazione. Una visione limitata della realtà, che non consideri l’intero. Cogliere l’intero è indubbiamente complesso, ma è il ruolo dell’essere umano, ancor prima che dell’intellettuale. Per questo Hegel criticava l’intelletto astratto, il positivismo, la scienza che perde l’intero, che perde la dialettica. Ecco, dunque, che le critiche hegeliane tornano di straordinaria attualità in un’epoca che rifiuta la dialettica, che ci propone sempre e solo la nostra idea attraverso un algoritmo. In passato, peraltro, non c’era una cesura così netta tra scienziato e umanista. Prima ho citato Galileo, che fu anche un umanista eccelso. Personalmente, osservo con orrore il neopositivismo in cui siamo piombati. Possibile che la medicina sia la nuova religione? Se i decadenti, già a fine Ottocento, hanno messo in discussione il positivismo, davvero vogliamo tornare, nel 2021, a quel tipo di pensiero? Non siamo nemmeno originali. Peraltro, è un positivismo più aggressivo rispetto a quella di Comte, poiché informatico, digitalizzato, algoritmico appunto. Davvero non riusciamo a scorgere quanto sia miserrima l’antropologia dietro a tutto questo?
Storicamente, però, non sono mai mancate visioni cupe sul presente, da parte dei contemporanei. Non è lecito pensare che anche quella attuale saprà sviluppare degli anticorpi?
A mio parere, no. L’habitus della critica al proprio tempo è certamente un topos, un luogo comune non solo tra gli intellettuali. Lo stereotipo, peraltro è doppio, perché si può invece essere convinti che la propria epoca sia la migliore possibile. Umberto Eco parlava degli apocalittici e degli integrati. Come detto in precedenza, però, bisogna anche saper contestualizzare. L’essere umano, ancor prima dell’intellettuale, dev’essere in grado d’individuare le novità di ogni tempo. I due totalitarismi del Novecento, ad esempio, sono stati un inedito nella storia del genere umano, così come le bombe atomiche.
Anche in questo caso, tuttavia, si potrebbe obiettare che già in passato vi furono massacri tali da scatenare un senso di orrore simile a quello provocato dalle armi atomiche. Lei stesso ricorda come le mostruose bestie mitologiche citate nella Bibbia, quali il Leviatano o il Behemot, secondo alcune interpretazioni, rappresenterebbero l’aggressivo espansionismo dell’Assiria e degli altri imperi dell’antichità.
Indubbiamente. I Romani sparsero sale sulle rovine di Cartagine. La novità di oggi sta, però, nell’inedita capacità del genere umano di auto-distruggersi. I Romani non potevano raggiungere il potenziale distruttivo di un’atomica. Può sembrare una considerazione da Guerra Fredda, ma le tematiche del Novecento oggi sono le stesse, seppur in forme differenti. La storia è piena di massacri, ma non furono mai organizzati su scala industriale come nella Shoah. In futuro, forse, l’Olocausto si pianificherà al computer. Anche la tecnologia è un inedito. La ruota non è tecnologia, è tecnica. La tecnologia è un’altra cosa, è un prodotto della civiltà industriale. Si pensi, poi, al tema ecologico. Quando mai i segni di un disastro climatico soni stati talmente evidenti da essere denunciati da scienziati, artisti, filosofi, teologi, persone comuni? D’altro canto, può darsi che la nostra epoca offra maggiori possibilità trasformative. Secondo l’antropologo René Girard, la nostra è contemporaneamente l’epoca peggiore e migliore possibile, perché alle inedite possibilità di distruzione si contrappone una altrettanto inedita sensibilità alle vittime, alle disabilità, ecc. Io non dico che dobbiamo essere apocalittici, ma dobbiamo confrontarci con urgenze nuove e molto preoccupanti. Insegno da venticinque anni, scrivo libri da anni, lavoro da anni. Personalmente vedo che il mondo della scuola diventa sempre più alienante e burocratizzato. Vedo che il mondo del lavoro peggiora progressivamente, è sempre più faticoso, mal pagato e poco tutelato. Vedo che ai giovani viene rubato il presente, ancor prima del futuro. Vedo che stanno scomparendo le librerie cittadine, dove poter avere un rapporto personale con i gestori, organizzare cicli di lettura dove coinvolgere attivamente il lettore, stimolarlo a riflettere e fare domande. I moderni “supermercati del libro” non hanno nulla a che fare con tutto ciò. Questi sono grandi temi che andrebbero affrontati.
Prima dicevo di come, al giorno d’oggi, sembri diventato impossibile criticare la società del mercato. Nella critica dantesca si sta facendo largo una linea di studi, che l’Italia ho inaugurato, che vede nelle durissime critiche di Dante a Firenze, all’usura, al fiorino, la consapevolezza di una cesura storica, di un cambiamento culturale, di una nuova realtà proto-capitalista. La cupiditas, ovviamente, esiste sin da Caino o dal re Mida. Ma che il capitale sia entrato al centro della realtà, che sia diventato il sistema dominante, che tutto sia considerato mercato, non è un fatto naturale. È stato un cambiamento avvenuto in un preciso momento storico. Si può discutere sul quando e sul dove, se nella Firenze del Trecento, nella conquista dell’America, nella diffusione del calvinismo, ma non sul fatto che a un certo punto l’umanità prese questa direzione. Lo stesso Francesco d’Assisi non era certo un ingenuo. Era il figlio di un mercante, capì che un altro modello di vita era possibile, e lo mise in pratica. È una figura attualissima. Se oggi un individuo volesse vivere, ad esempio, senza essere produttivo o tecnologico, dovrebbe avere l’opportunità di proporre la sua alternativa, senza per questo essere considerato un pazzo o un troglodita.
Ha citato Dante che, non lo ha mai nascosto, considera il suo maestro. Cosa può insegnare, invece, Raimon Panikkar (a destra, NdR), in special modo a chi si avvicini per la prima volta al suo pensiero?
Aveva un’intelligenza folgorante e un centro emozionale sviluppatissimo. Si commuoveva, letteralmente, citando Pico della Mirandola, un passo del Vangelo, Gandhi… Panikkar credeva nel pluralismo, criticava la globalizzazione, la cultura unica di una visione del mondo limitata al solo capitalismo, alla sola tecnologia, al solo virtuale. L’ultimo libro della sua opera omnia, “Spazio, tempo e scienza”, è di un’attualità sconvolgente. Era un eccelso oratore, infatti consiglio di approcciarlo attraverso i video, prima ancora dei libri. Aveva molto da dire sulla mistica, ma era capace di renderla accessibile e comprensibile a chiunque. Era anche un eccellente poliglotta, perché anche la lingua dev’essere pluralista. Non posso dire di essere stato un suo studente, ma ne sono stato un libero allievo, oltre che amico. Panikkar mi ha salato il sangue, ho un debito incolmabile con lui, fu un maestro di vita e di studio. Panikkar, Francesco, Dante, il “Discorso della Montagna”, la sapienza ebraico-cristiana, ma anche sapienze laiche e spirituali di tutto il mondo ci dicono che un cambio di coscienza è necessario, che stiamo in un passaggio d’epoca. Ha vinto Francesco? No, si dirà, ha vinto suo padre. Ma se quest’epoca non cambia, temo che perderà se stessa.
Francesco Moscarella per www.policlic.it