Diplomazia e compromesso: in che modo il Consiglio ha raggiunto un accordo storico
a cura di Denise Campaniello
“Deal!” scrive Charles Michel su Twitter alle 5.31 della mattina del 21 luglio. Una sola parola, per la quale sono state necessarie novanta ore di negoziato. Uno dei negoziati più serrati mai affrontati dai leader europei, il più lungo dopo Nizza. Quel tipo di negoziato che, piaccia oppure no, segna un nuovo tassello della storia dell’Unione Europea.
Dallo scorso maggio, i ventisette leader dei Paesi dell’Unione sono stati impegnati nei negoziati sullo stanziamento del pacchetto di recupero proposto dalla Commissione per la ripresa delle economie degli Stati membri dopo la crisi causata dalla COVID-19. La trattativa non è stata un’impresa facile. Ha sollevato questioni politiche fondamentali, (im)prevedibili alleanze e sostanziali differenze di vedute che hanno mostrato le evidenti lacune dell’Unione, dovute sicuramente all’assenza di unità in materia fiscale, ma anche alla poca fiducia reciproca tra certi Stati. Il dibattito è iniziato il 18 maggio, data in cui la Commissione ha presentato la proposta per il Recovery Fund, un piano di ripresa di origine franco-tedesca rinominato “Next Generation EU”. Si tratta di uno strumento di recupero d’emergenza per sostenere i Paesi nella riparazione immediata dei danni economici e sociali causati dalla pandemia di coronavirus.
L’ammontare del fondo è stato il principale oggetto di dibattito nel corso delle trattative. La proposta iniziale della Commissione europea è stata quella di raccogliere 750 miliardi di euro sul mercato tra il 2021 e 2024, di cui 500 miliardi da trasferire agli Stati membri dell’UE sotto forma di sovvenzioni e 250 miliardi sotto forma di prestiti a basso costo. In totale, il fondo ammonterebbe al 5,4% del PIL dell’UE-27 e al 7% del debito dell’UE-27 nel 2019. Questo fondo si inserirebbe all’interno del Multiannual Financial Framework (MFF) 2021-27, il cui budget è di 1.100 miliardi di euro, e pertanto al MFF si andranno ad aggiungere i 750 miliardi del Next Generation e i 540 miliardi di strumenti a sostegno dell’occupazione[1], per un totale di 1,85 trilioni di euro.
Con grande sorpresa, l’accordo finale raggiunto dagli Stati membri all’unanimità non ha modificato questa cifra, che rimane di 750 miliardi. Ha modificato però le sue componenti: 390 miliardi saranno distribuiti sotto forma di sovvenzioni, molto meno dei 500 miliardi raccomandati dalla Commissione e suggeriti da Germania e Francia, mentre i restanti 360 miliardi saranno erogati sotto forma di prestiti, così da facilitare il recupero. La componente principale di queste sovvenzioni – per un valore di 312,5 miliardi di euro – è stata soprannominata “Recovery and Resilience Facility” ed è su questa che gli Stati membri si sono maggiormente concentrati. Queste sovvenzioni sono legate ai nuovi piani di ripresa nazionali, e quindi alle riforme. Di conseguenza, i ventisette Stati dovranno ora impegnarsi a riformare le proprie economie per sbloccare la quota di questi finanziamenti, che sarà distribuita dal 2021 al 2023. Infine, i restanti 77,5 miliardi di euro di sovvenzioni saranno utilizzati per integrare i normali programmi di bilancio dell’UE.
Next Generation EU potrà reperire le risorse sui mercati finanziari: la Commissione, forte del suo rating creditizio Tripla A (il più elevato possibile), potrà prendere in prestito dal mercato la cifra prevista e il rimborso sarà poi spalmato nei futuri bilanci UE nell’arco di un lungo periodo. Inoltre, al fine di rendere disponibili quanto prima i fondi per rispondere alle esigenze più urgenti, la Commissione aveva già proposto di modificare l’attuale Multiannual Financial Framework 2014-2020 per rendere disponibili ulteriori 11,5 miliardi di euro di finanziamenti già nel 2020. Secondo la proposta, le obbligazioni maturerebbero tra il 2028 ed entro e non oltre il 2058. Per limitare la necessità di maggiori contributi nazionali nel prossimo bilancio pluriennale a partire dal 2028, la Commissione europea aveva proposto di introdurre nuovi flussi di entrate, le cosiddette risorse proprie. In particolare, la proposta prevedeva l’introduzione di una tassa di adeguamento alle frontiere del carbonio; una tassa digitale sui grandi giganti della tecnologia; e risorse basate sull’allargamento del sistema di scambio di quote di emissione (ETS) al settore marittimo e aereo e al funzionamento delle grandi imprese. Ma su questo l’accordo del 21 luglio offre solo pochi spiragli di speranza. Il maggiore impegno dei leader, infatti, è stato quello verso una nuova tassa sui rifiuti di plastica, mentre sul resto ci sono stati solo alcuni accenni e la richiesta alla Commissione di redigere una bozza di piano per un meccanismo di aggiustamento delle frontiere del carbonio e la tassa digitale. La conseguenza è che, senza alcun tipo di risorse proprie, i costi del servizio del debito potrebbero finire per pesare sul MFF nelle prossime tornate di bilancio.
La necessità di fronteggiare la imprevista crisi post-COVID comporta il sacrificio di alcune priorità del budget EU per i prossimi anni, andando a tangere ad esempio il fortemente voluto Green Deal. I fondi di Next Generation EU, però, dovrebbero comunque essere impiegati per una ripresa green e digitale e questo ora sarà (almeno in parte) nelle mani degli Stati membri. Tuttavia, oltre all’ammontare del fondo, i punti focali della discussione in Consiglio sono stati la condizionalità per accedere al denaro e i criteri per stabilire quali Paesi avranno maggiore accesso al fondo.
La condizionalità per l’accesso al fondo
Negli scorsi mesi i Paesi più colpiti, come l’Italia e la Spagna, hanno aspirato a una condizionalità minima, mentre altri, tra cui soprattutto i frugal four (Paesi Bassi, Austria, Svezia e Danimarca) pretendevano aggiustamenti e riforme più severe. Questi ultimi hanno presentato il 23 maggio una dichiarazione in cui sostenevano che il denaro del fondo di recupero sarebbe dovuto arrivare sotto forma di prestiti a basso costo piuttosto che di sovvenzioni. Inoltre, la procedura di erogazione avrebbe dovuto richiedere forti impegni di riforma da parte delle nazioni riceventi, in particolar modo in merito alle riforme pensionistiche e del lavoro. Il documento infine sottolineava come l’aumento dei contributi nazionali al bilancio dell’UE sarebbe dovuto durare al massimo due anni.
Bisogna tenere presente che i frugal four rappresentano solo il 10% del PIL dell’UE. Se si considera tale quota anche come un indicatore del loro peso politico, si poteva mettere in dubbio sin dall’inizio il loro potere di bloccare una politica che avesse il sostegno della maggioranza. Considerando poi gli effetti a medio termine della loro posizione, questa avrebbe danneggiato profondamente la buona volontà e il potere negoziale dei quattro Paesi nei futuri negoziati, soprattutto per i Paesi Bassi, capo informale dell’alleanza dei quattro frugali. I Paesi Bassi sono già tenuti d’occhio per i regimi fiscali agevolati (che fanno parlare di “paradisi fiscali”) e gli scontri sulla condizionalità stavano mettendo ulteriormente alla prova i loro rapporti con gli altri Stati dell’Eurozona. Il premier olandese Mark Rutte era l’uomo da convincere, dopo che aveva incessantemente fatto presente che “niente si ottiene gratuitamente”. Il clima in Olanda era molto teso, pertanto nelle scorse settimane Rutte ha incontrato singolarmente il presidente Macron, Charles Michel, Angela Merkel e Giuseppe Conte. Tra l’altro, proprio durante il meeting tra Conte e Rutte, il leader sovranista olandese Geert Wilders ha protestato davanti al Palazzo Binnehof dove stava avvenendo l’incontro tra i due capi di Stato, chiedendo di “non dare un solo centesimo all’Italia”. Se la posizione olandese sembrava irremovibile, sul fronte dei frugali il primo ministro austriaco Sebastian Kurz aveva già lasciato trapelare volontà di discussione e questo aveva isolato gli olandesi come unico Stato membro dell’Eurozona (tra l’altro anche co-fondatore) che continuava a far deragliare i progressi.
Fondamentalmente, non sostenere gli Stati membri meridionali avrebbe messo a repentaglio il futuro dell’Eurozona, danneggiando in modo significativo anche le prospettive dell’economia olandese. Le preoccupazioni dei frugal four non vanno sottovalutate, ma in questo momento storico, a livello sia politico sia economico, prendere le distanze dal blocco europeo non sarebbe stata la scelta più saggia. In una classica situazione da teoria dei giochi, questi Paesi hanno spinto finché hanno potuto e sono stati concessi alcuni cambiamenti sulla condizionalità. È stato infatti previsto un meccanismo di governance (il noto “freno di emergenza”) fortemente voluto da Rutte, in base al quale un singolo Stato potrà sollevare obiezioni se ritiene che un altro Stato non stia rispettando le promesse di riforma in cambio del denaro che riceve dalla Commissione. Il meccanismo permetterebbe quindi a qualsiasi governo nazionale di porre il veto e bloccare temporaneamente i trasferimenti finanziari chiedendo alla Commissione di verificare se gli impegni sono stati davvero rispettati. I dettagli sono ancora da stabilire, ma si parla di un processo di revisione che dovrebbe avere un limite di tempo di tre mesi e la Commissione manterrebbe comunque formalmente l’ultima parola.
I leader si sono anche battuti per un nuovo meccanismo che costringerebbe gli Stati membri a rispettare i valori democratici fondamentali dell’UE e i principi dello stato di diritto per mantenere il flusso di denaro. Il primo ministro ungherese Viktor Orban si è opposto a queste proposte, con il risultato che i leader hanno passato la responsabilità alla Commissione per progettare nuove salvaguardie di bilancio, pur concordando sul fatto che una maggioranza qualificata di governi può bloccare i pagamenti a un Paese per motivi di Stato di diritto.
I criteri di assegnazione del fondo
Per quanto riguarda invece i criteri di assegnazione, anche qui i punti di rottura sono stati molti. Prima della riunione del Consiglio la chiave di distribuzione ufficiale non era stata ancora ufficialmente proposta, ma l’idea era di basarla su quanto duramente le economie sono state colpite dalla pandemia. Inoltre, una piccola parte delle sovvenzioni sarebbe andata a beneficio dei Paesi che si trovano ad affrontare grandi sfide con la transizione verde. Dalle proposte era emerso in sostanza che ogni strumento poteva essere assegnato in modo diverso o che avrebbe potuto anche non esserci alcuno schema di ripartizione per Paese. Tra chi sosteneva che l’Unione doveva dare priorità ai Paesi o alle regioni più colpiti dall’epidemia, non veniva chiarito in base a quali criteri (numero di vittime, impatto economico, ecc.) tale assegnazione sarebbe dovuta avvenire. Ricordiamo infatti che l’epidemia ha avuto impatti molto diversi nelle regioni dell’UE, con tassi di mortalità che variavano da 800 per milione di abitanti in Belgio a meno di 50 in molti Paesi dell’Europa orientale. Questi numeri a loro volta sono poco affidabili perché influenzati sia dalle modalità di conteggio delle vittime, spesso differente in molti Stati membri, sia dalle differenze all’interno di ciascun Paese[2]. Questo implica che anche l’impatto economico del COVID è stato molto variabile.
Questo problema è stato presentato soprattutto da vari rappresentanti dei Paesi dell’Europa orientale, che hanno riposto molta attenzione sulla chiave di distribuzione. Molti Stati membri, infatti, avrebbero ricevuto meno se il metodo di distribuzione si fosse basato sulle prospettive economiche per il 2020. Erano stati in particolare i Paesi del blocco di Visegrad a far valere le proprie posizioni durante il meeting dell’11 giugno scorso, quando i quattro primi ministri avevano chiesto una distribuzione “equa” del massiccio fondo di recupero dell’UE. La Slovacchia, ad esempio, ha sottolineato la volontà di evitare una situazione in cui un Paese con all’incirca la stessa popolazione e lo stesso PIL pro capite situato nel sud dell’Europa potesse trarre dal programma molto più profitto rispetto a un Paese dell’Europa centrale. Tuttavia, Slovacchia e Polonia si sono rivelate più concilianti sul fondo rispetto a Ungheria e Repubblica Ceca. Secondo Andrej Babiš, infatti, il criterio doveva essere proprio il crollo del PIL per il 2020, e andrebbe quindi stabilito all’inizio del prossimo anno. L’ungherese Viktor Orban aveva mostrato una grande chiusura, anche se aveva affermato che l’Ungheria sarebbe stata disposta ad accettare il fondo imponendo modifiche sostanziali alla iniziale proposta della Commissione.
Nel corso dei negoziati del 17-20 luglio, i leader dei Paesi membri hanno deciso che l’assegnazione dei fondi sarà strettamente legata ai danni economici provocati dalla pandemia. In questo modo Italia e Spagna riceveranno grandi somme di denaro (l’Italia riceverà infatti il 28%), ma in teoria ogni Paese dell’Unione ne beneficerà. Questa redistribuzione sarà poi tenuta sotto controllo dai meccanismi di governance sopracitati, basati sulle promesse di riforma e sul rispetto della rule of law.
Il futuro dopo il compromesso
Nonostante le opposizioni, il piano per il Recovery Fund è stato un’offerta di apertura di importanza storica, che rappresenta una profonda rottura con il passato; soprattutto per la Germania, che ha la reputazione di essere contraria ai trasferimenti incondizionati verso le regioni meno abbienti. Angela Merkel con questa proposta ha fatto un salto di fiducia, forse stimolata anche dalla recente sentenza sulla BCE, ma il CDU sta andando forte nei sondaggi e sembra non aver perso alcun sostegno dopo la proposta franco-tedesca. Al contrario, i più euroscettici (AfD e FDP) sono addirittura scivolati. Per quanto riguarda l’opinione pubblica, la cancelliera Merkel sembra essere in una posizione comoda per sostenere tale piano, anzi, i voti di approvazione sono aumentati dall’inizio della pandemia.
In generale, considerando le differenze di vedute dei frugali e dei Paesi di Visegrad, il compromesso si è rivelato essere raggiungibile e la maggior parte dei leader europei sembra uscirne almeno in parte soddisfatto. Lo stesso Rutte ha detto su Twitter che si tratta di un buon accordo che tutela gli interessi olandesi. Tutti gli Stati membri concordano sul fatto che la crisi attuale giustifica le misure straordinarie per combattere le ricadute economiche, e i meccanismi di governance tanto voluti dai Paesi Bassi potrebbero rivelarsi un beneficio per tutti gli Stati membri e anche per noi italiani, se usati nel modo giusto.
Per quanto riguarda la restituzione del denaro, questo argomento sembra essere stato il meno dibattuto rispetto agli altri in sede di Consiglio. Del totale, 360 miliardi di euro devono essere rimborsati individualmente dagli Stati in base all’importo dei prestiti ricevuti e i restanti 390 miliardi di euro saranno rimborsati collettivamente dall’UE. Per garantire un accordo, però, sono stati fatti dei compromessi e dei tagli alle proposte originali. Come detto, parte del piano era l’introduzione di nuove risorse proprie, che potrebbero generare entrate sufficienti per pagare i costi degli interessi e parte dei rimborsi del capitale. Chiaramente si tratta di un argomento controverso, dato che già da anni si discute su queste risorse proprie, ma un’imposta comune dell’UE sul reddito delle imprese ha incontrato la resistenza di diversi Stati membri. Oltre alla tassa sui rifiuti di plastica, ci sono impegni a considerare ulteriori nuove risorse proprie, come una carbon tax e una tassa digitale, ma questi non sono stati concordati e quindi al momento non si può contare su alcun finanziamento. Inoltre, poiché il fondo è stato negoziato insieme al bilancio settennale, ai quattro frugali e alla Germania sono stati concessi degli “sconti” sui loro contributi annuali al bilancio UE. Ciò contribuisce a far sì che questo accordo, pur essendo potenzialmente favorevole alla ripresa delle economie dell’UE nel momento del loro grande bisogno, sarà probabilmente anche un grosso onere per i bilanci futuri.
Ora che è stato assicurato l’accordo politico, il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali dovranno dare la loro benedizione all’accordo. Il primo, infatti, ha potere di veto sul bilancio dell’UE, mentre i secondi devono firmare le garanzie date al bilancio dell’UE per raccogliere fondi sui mercati finanziari per il fondo di recupero, processo che potrebbe richiedere anche un anno. Di conseguenza, i funzionari della Commissione e del Consiglio si affretteranno a fare pressione sugli eurodeputati per dare il via libera al bilancio e procedere con i negoziati sui regolamenti che regolano i programmi di bilancio. Le probabilità di un veto assoluto ad oggi sembrano molto basse, considerando che la maggior parte dei membri del Parlamento non vuole ritardare l’erogazione dei finanziamenti. Ma l’assemblea è determinata ad avere voce in capitolo sul fondo di recupero per garantire un chiaro legame tra il denaro dell’UE e il rispetto dello Stato di diritto.
Quei 209 miliardi che preoccupano e rallegrano: l’Italia e un futuro tutto da scrivere
a cura di Alessandro Lugli
L’inno al compromesso del Consiglio europeo del 17-20 luglio
Quando lo scorso 27 maggio la Commissione Europea ha presentato il piano da 750 miliardi di euro per far fronte alla crisi economica scatenata dalla pandemia di COVID-19, in Italia si è assistito al solito coro di voci contrastanti. Gli europeisti più convinti hanno scorto nei finanziamenti del piano Von Der Leyen il cavallo di Troia di Bruxelles per concretizzare il processo di integrazione europea – molti sono arrivati a equiparare i vari Merkel, Macron e Conte ai padri del progetto europeista Schumann, Spinelli e Adenauer. Altri, invece, hanno bollato fin da subito il piano partorito dall’asse franco-tedesco come l’ennesimo tentativo di imporre agli Stati del Sud un progetto di riforme utile a disciplinare la scellerata amministrazione delle finanze dei PIIGS.
Di sicuro il piano rappresenta una novità assoluta nel panorama comunitario. Mai prima d’ora si era assistito a un progetto tanto ambizioso per far fronte all’ennesima recessione economica in terra europea. L’idea di istituire un fondo garantito dal bilancio a lungo termine dell’UE, tramite l’emissione di titoli comuni e la mutualizzazione del debito, è una questione che potrebbe dare un impulso decisivo al processo di integrazione europea come mai era accaduto in precedenza. Si tratta, perciò, di un fatto eccezionale che sottolinea la drammaticità di un’emergenza sanitaria che, da oltre quattro mesi, stava corrodendo gli interstizi della già fragile impalcatura politica dell’Unione.
Il piano, frutto della collaborazione tra Francia e Germania – rispettivamente braccio politico ed economico dell’UE – rappresenta un compromesso tra le esigenze degli Stati meridionali, portavoce della necessità di ricorrere all’emissione di bond comunitari, e quelli settentrionali, più favorevoli alla sola emissione di prestiti da risarcire nel tempo. Il fondo di recupero, perciò, non è altro che l’ennesimo tentativo di far coincidere la visione rigorista degli Stati che gravitano attorno a Berlino e quella delle nazioni meridionali vicine alla duttilità di Parigi.
La maratona negoziale di 92 ore andata in scena tra il 17 e il 21 luglio ha visto trionfare proprio questo: il compromesso. Dopo un weekend e più di schermaglie, insulti, pugni sul tavolo e accuse, i ventisette membri dell’Unione Europea sono riusciti ad accordarsi su un piano da 750 miliardi, con il quale si è tentato di accontentare gli Stati del Nord – Olanda, Austria, Danimarca e Svezia – e quelli del Sud – capitanati da Italia e Spagna. Il gruppo dei frugali è uscito dal Consiglio europeo con un risultato piuttosto significativo: un aumento degli sconti sui contributi al bilancio UE di circa 7,8 punti percentuali in più rispetto all’ultimo bilancio – 322 milioni all’anno per la Danimarca, 1,06 miliardi per la Svezia, 565 milioni per l’Austria e 1,9 miliardi per i Paesi Bassi. L’Olanda, oltretutto, vede “aumentare il margine sulle attività doganali […] fino al 25%”. Un risultato eccezionale per un Paese che vanta la principale attività portuale del continente.
A gioire sono anche gli Stati meridionali, e in particolar modo l’Italia. L’accordo sfornato dal summit porta in dote al Belpaese ben 209 miliardi di euro – 82 sotto forma di sussidi e 127 di prestiti. Molto di più rispetto ai 170 miliardi inizialmente previsti per Roma. A uscire vittorioso da questa maratona negoziale è soprattutto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, uno dei principali protagonisti del Consiglio europeo. Il Premier, infatti, dopo un aspro scontro con il suo omologo olandese Mark Rutte, torna a Roma con un aumento delle sovvenzioni tale da permettergli di rimanere, almeno nel breve periodo, ben saldo al comando del Paese e di scacciare, per il momento, gli spettri che aleggiavano da settimane su Montecitorio.
Tuttavia, trattandosi di un programma che fornisce più domande che risposte, è bene considerare quali conseguenze potrebbe avere il ricorso al Next Generation EU per un Paese come l’Italia: il più indebitato dell’eurozona, quello ad aver subito, durante la pandemia, le maggiori perdite in termini umani ed economici e, allo stesso tempo, quello che beneficerà, assieme alla Spagna, del maggior numero di risorse stanziate dal Recovery Fund.
Next Generation EU: un’occasione irripetibile per l’Italia
In apparenza, il fondo di recupero appare, per Roma, un’occasione imperdibile. Stando alle premesse su cui si fonda il Next Generation EU, è difficile intravedere potenziali effetti negativi per l’Italia. Una nazione così indebitata, uscita con le ossa rotte dopo tre mesi di sospensione delle attività lavorative e del tutto incapace di ricucire la ferita della Grande recessione può scorgere nel Recovery Fund una vera e propria opportunità di rinascita, oltre che un attestato di fiducia da parte dei partner di maggioranza del progetto europeo.
Il fatto che Francia, Germania e Commissione Europea abbiano deciso di destinare il boccone più prelibato del Recovery Fund al Belpaese fa emergere due importanti questioni. La prima: per quanto disastrata, l’Italia resta pur sempre la settima economia mondiale, il secondo Paese esportatore e la seconda manifattura in Europa; lasciare sprofondare Roma nel baratro del default avrebbe conseguenze inimmaginabili per tutto l’Occidente e, con buone probabilità, decreterebbe la fine del progetto europeo.
La seconda: la mutualizzazione del debito e l’ingente quantità di miliardi a fondo perduto da destinare ai Paesi che hanno subito le conseguenze più gravi della crisi sanitaria rappresentano la presa di coscienza, da parte delle istituzioni europee, che l’austerity non può più essere l’unica soluzione ai problemi dell’Unione.
Esistono, poi, una lunga serie di motivazioni aggiuntive che rendono l’Italia un partner insostituibile per Bruxelles, Parigi e Berlino, come il fatto di essere un alleato fondamentale per l’egemonia politica della Francia, un potenziale Paese leader nel settore green e in quello delle rinnovabili, il principale fornitore di componentistica per le automobili tedesche e, soprattutto, uno dei principali contributori netti dell’UE – vale a dire che garantisce al budget comunitario più soldi di quanti ne riceve. Too big to fail, insomma. Oltretutto, in un mondo così globalizzato, quello dell’Unione Europea è l’unico contesto in cui Roma potrebbe giocare un ruolo di primissimo piano nello scacchiere internazionale.
In definitiva, il Recovery Fund sembrerebbe avere come scopo ultimo quello di sollevare i Paesi più colpiti dalla crisi economica e di diminuire le disuguaglianze strutturali tra i ventisette membri per incanalarli lungo un processo di rinnovamento di cui beneficerebbe tutta l’Unione Europea. Le parole chiave del Next Generation EU sembrano essere proprio digitalizzazione, ecologizzazione e rinnovamento. Tutti termini di cui una nazione come l’Italia ha un disperato bisogno.
In effetti, se ben spese, le risorse messe a disposizione per Roma potrebbero essere uno strumento fondamentale per scardinare le ultime resistenze sistemiche della penisola nei confronti del rinnovamento. Gli investimenti nel settore ecologico potrebbero fare dell’Italia una nazione all’avanguardia in ambito green; il potenziamento del sistema sanitario potrebbe finalmente dare lustro al capitale umano che le università italiane continuano a sfornare; ma, soprattutto, che si tratti di sussidi o prestiti, i soldi stanziati dal Recovery Fund permetterebbero all’Italia di rafforzare la propria capacità produttiva attraverso investimenti tecnologici e infrastrutturali che nel lungo periodo assorbirebbero lo spaventoso debito pubblico italiano. Una situazione che darebbe modo all’Italia di riemergere dalle sabbie mobili della recessione e che tranquillizzerebbe gli implacabili sostenitori del rigorismo finanziario.
Il Recovery Fund e l’incubo della troika
Tuttavia, conoscendo la storia dell’Unione Europea, non è consigliabile abbandonarsi a facili entusiasmi. La proposta della Commissione Von Der Leyen è, senza alcun dubbio, un traguardo inimmaginabile fino a quattro mesi fa. Guardando alla recente storia dell’Unione Europea, l’idea di sostituire il leitmotiv dell’austerity con quello della solidarietà è, di per sé, una vittoria. Ciononostante, è impensabile che, in un’entità sovrannazionale che ha fatto del compromesso la propria cifra stilistica, i Paesi che gravitano attorno all’orbita tedesca siano disposti a bombardare di liquidità le casse dei PIIGS senza avere in cambio alcun tipo di garanzia. Ed è per questo che, quando in Italia si parla di Recovery Fund, è inevitabile scorgere l’ombra della troika.
La Commissione europea, tramite la voce del Commissario UE all’economia Paolo Gentiloni, ha fatto sapere che il Recovery Fund sarà scevro da condizionalità; Bruxelles non si intrometterà negli affari interni dei singoli Stati membri, ma ad essi spetta “la responsabilità della propria crescita” in linea con le “priorità identificate attraverso il Semestre europeo e […] con i paletti della transizione verde”. Il che potrebbe tradursi, anche, in una sospensione dei finanziamenti, qualora gli obiettivi di riforma stabiliti in accordo con l’Unione Europea non dovessero essere realizzati.
Nelle ultime settimane questa condizionalità ha assunto una valenza ancora più critica nel momento in cui il Presidente del Consiglio europeo – il belga Charles Michel – ha proposto che l’approvazione dei piani nazionali, fondamentali per l’erogazione delle sovvenzioni, venga sottoposta al voto del Consiglio e non a quello della Commissione, fatto che avrebbe rafforzato di molto il potere di veto dei Paesi frugali come Olanda, Danimarca, Austria e Svezia. Il Premier olandese, Mark Rutte, aveva inoltre proposto che l’erogazione dei fondi fosse sottoposta a una votazione all’unanimità, una decisione che avrebbe determinato importanti conseguenze sul processo decisionale comunitario.
Da questo punto di vista, la soluzione concordata dai 27 membri del Consiglio europeo attenua di molto la rigidità della proposta olandese. La governance, infatti, sarà vincolata a un “freno d’emergenza emendato”; vale a dire che “i piani presentati dagli Stati membri saranno approvati dal Consiglio a maggioranza qualificata, in base alle proposte presentate dalla Commissione”. Il monitoraggio dello stato di esecuzione dei piani nazionali sarà delegato al “Comitato economico e finanziario (CEF), gli sherpa dei ministri delle Finanze. Se in questa sede […] qualche Paese riterrà che ci siano problemi, potrà chiedere che la questione finisca sul tavolo del Consiglio Europeo prima che venga presa qualsiasi decisione”.
Stando così le cose, resta da capire cosa intenda la Commissione europea quando parla di “priorità” e “paletti”. È possibile che si tratti solo di frasi di circostanza volte a rassicurare i Paesi frugali; così come è altrettanto ipotizzabile che un mancato accordo sull’utilizzo dei fondi, tra l’Italia e l’Unione Europea, possa tradursi in un’interruzione dei finanziamenti, e, nel lungo periodo, dare vita a una situazione di precarietà finanziaria, a livello nazionale, tale da far scattare i tanto temuti meccanismi di salvataggio europei – specialmente dopo una contrazione del PIL così drammatica.
Roma, dal canto suo, non ha di certo rassicurato i partner dell’Unione. La delegazione italiana è stata l’unica a essersi presentata all’appuntamento del 17 luglio senza una bozza del piano nazionale, irrobustendo, ancora di più, le posizioni di tutti quei Paesi intimoriti dal fatto che l’Italia possa utilizzare le sovvenzioni del Next Generation EU in maniera scellerata o del tutto fallimentare.
And the winner is… Giuseppe Conte!
Vi è poi una questione che il Premier italiano, grazie alla macchina comunicativa messa in piedi dal suo staff in occasione del Consiglio europeo, non ha perso tempo a precisare, una volta giunto a conclusione il summit: l’aumento delle sovvenzioni in favore dell’Italia permetterà al Governo italiano di non accedere al MES.
Se in parte l’affermazione di Conte rispecchia la realtà – i 209 miliardi di euro che finiranno nelle casse italiane dovrebbero permettere al Paese di ridare slancio alla propria economia depressa dalla COVID-19, senza dover ricorrere a risorse suppletive come, appunto, il Meccanismo europeo di stabilità – è importante sottolineare come le risorse del Recovery Fund non saranno disponibili prima del 2021. Considerando che l’Italia è oramai sull’orlo di una crisi di liquidità, nei prossimi mesi il Presidente del Consiglio sarà chiamato a chiarire con che tipo di risorse il Governo intende far fronte, nel 2020, alla recessione del PIL scatenata dall’emergenza sanitaria. In questo senso, per quest’anno, a disposizione del Governo italiano, vi saranno solo le risorse nazionali e quelle disposte dal MES. Perciò, Giuseppe Conte ha sì ottenuto un grande risultato con l’approvazione del Next Generation EU, ma non ha di certo risolto i problemi dell’Italia.
Ecco perché è possibile affermare che l’esito dei negoziati sul Recovery Fund sorrida più a Conte che alla nazione intera. Il braccio di ferro con Mark Rutte (incarnazione mediatica dell’Europa rigorista tanto odiata dal grosso degli elettori italiani), l’aumento delle risorse messe a disposizione per l’Italia nel pacchetto finanziario stanziato dalla Commissione Europea, il fatto di aver placato il dissenso interno ed esterno alla maggioranza e, soprattutto, l’essere riuscito a togliere a Matteo Salvini ogni argomentazione antieuropeista, sono tutti elementi che rafforzano la posizione del Premier più apprezzato degli ultimi 25 anni.
Tuttavia, il risultato del summit del 17-20 luglio non schiarisce poi troppo il futuro dell’Italia. Next Generation EU è senz’altro un risultato storico che determina uno scarto di mentalità del quale i padri dell’Europa unità sarebbero di certo fieri. Malgrado ciò, Roma si ritrova a dover affrontare una sfida titanica priva di qualsivoglia strategia. Le risorse stanziate dalla Commissione europea rischiano, infatti, di tramutarsi in un onere, piuttosto che in un’opportunità, qualora il governo Conte non dovesse rivelarsi capace di mettere in piedi un programma di ripresa serio, ambizioso e intransigente, tale da permettere all’Italia di riemergere dal baratro della crisi e dell’immobilismo politico, economico e sociale in cui è piombata da trent’anni a questa parte.
Fermo restando la nebulosità delle condizionalità del Recovery Fund – su cui Bruxelles sarà chiamata a fare chiarezza nel minor tempo possibile – l’Italia si ritrova tra le mani la possibilità di trasformare il dramma dell’emergenza sanitaria in un’opportunità di rinascita. Da questo punto di vista, per Roma, l’unica ancora di salvezza sarà la formalizzazione di un complesso di riforme che possano ridare competitività al Paese, generare ricchezza e diminuire il debito pubblico: esattamente ciò che Bruxelles e i Paesi rigoristi si aspettano faccia l’Italia con le risorse del Recovery Fund.
È ancora presto per stabilire quali siano le reali intenzioni della Commissione europea dietro all’approvazione del Next Generation EU. L’istituzione del Recovery Fund potrebbe essere interpretata come il segnale di una rivoluzione culturale favorevole alla solidarietà tra i popoli dell’Unione, così come è altrettanto ipotizzabile che il piano per la ripresa possa essere, invece, l’ennesimo tentativo, da parte dei sostenitori dell’austerity, di disciplinare i Paesi del Sud Europa e di imbrigliarli nei gangli del pareggio di bilancio.
Qualunque sia lo scopo del Next Generation EU, l’Italia si ritrova in una situazione tale da non potersi permettere un ennesimo passo falso. Giuseppe Conte ha portato a casa un risultato per certi versi insperato. Ma la vera sfida, per lui stesso e il Governo di cui è a capo, sarà trasformare l’Italia da zavorra a motore dell’Europa. Qualora Conte dovesse riuscire a vincere questa sfida, nessuno sarebbe disposto a revocargli lo status di miglior Premier degli ultimi 25 anni.
Denise Campaniello e Alessandro Lugli per www.policlic.it
[1] Il 9 aprile 2020 l’Eurogruppo ha stabilito tre reti di sicurezza per imprese e lavoratori, un pacchetto del valore di 540 miliardi di euro approvato dal Consiglio europeo lo scorso 23 aprile: il meccanismo SURE, lo ESM Pandemic Crisis Support e il Fondo di Garanzia della BEI per business e lavoratori.
[2] Ad esempio, il 48% di tutti i decessi italiani si è verificato in Lombardia, con un tasso di 1.600 morti per milione di abitanti, mentre il Sud Italia ha registrato tassi di mortalità simili a quelli della Grecia. La stessa situazione è paragonabile in Francia e in Spagna se si confrontano le aree metropolitane di Parigi o di Madrid.