C’è chi la chiama “libertà di espressione”, io la chiamo inciviltà

C’è chi la chiama “libertà di espressione”, io la chiamo inciviltà

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La recente pandemia ha sconvolto le nostre vite e condizionato la nostra quotidianità, facendoci scoprire come abitudini apparentemente scontate fossero invece profondamente necessarie. Socializzare, andare a scuola, improvvisare incontri e chiacchierate, portare i bimbi al parco, muoversi liberamente: tutte cose messe in discussione da una situazione improvvisa che ha evidenziato come le diseguaglianze economiche e sociali ci costringano a vivere in modo differente.

Questo tempo ha suggerito soluzioni non alla portata di tutti e tutte: non tutto il personale scolastico (docenti e studenti) ha una connessione internet per seguire le lezioni in DAD; non tutte le famiglie hanno a disposizione una macchina per raggiungere i luoghi di lavoro senza dover necessariamente prendere autobus affollati; non tutti gli anziani vivono vicini ai propri cari.

E questo tempo, oltre alle difficoltà, ci ha consegnato anche molta sofferenza. La sofferenza legata alla malattia, alla perdita di persone care, ma anche la sofferenza di chi si è trovato costretto/a a vivere in situazioni in cui avrebbe voluto stare il minor tempo possibile.

È stato il tempo dell’impennata dei casi di violenze sulle donne, violenze fisiche e psicologiche, spesso culminate in efferati femminicidi.

Questo tempo ci ha consegnato un paese patriarcale e misogino in cui le donne sono quelle che hanno pagato il prezzo più alto. Molte donne e madri sono state costrette a lasciare il lavoro per seguire i figli in DAD o si sono ritrovate a lavorare in un regime di smart working che ha di fatto cancellato orari e pause; quello stesso smart working che le ha viste lavorare anche durante le ore notturne, pur di poter seguire i figli e le figlie durante le attività scolastiche.

È stato il tempo in cui molte giovani persone LGBT+ si sono ritrovate a dover vivere ventiquattr’ore su ventiquattro con una famiglia non accogliente, limitate nell’espressione del proprio sentire o costrette a subire pressioni e violenze. La DAD ha costretto molte di loro a stare lontane dalla scuola, dalle associazioni di riferimento e da tutti quei luoghi di socializzazione e confronto, necessari e indispensabili per chi vive una situazione familiare non serena. Quella stessa didattica ha segnato solchi profondi e distanze abissali per chi ha difficoltà a mostrarsi attraverso uno schermo o per chi non riesce a mantenere alta la concentrazione sullo studio senza un contatto fisico costante.

Questi mesi hanno evidenziato anche le ipocrisie di un Paese in cui ai congiunti e ai legami parentali è stata riconosciuta più dignità e possibilità di movimento rispetto ai tanti legami affettivi stabili non sanciti da contratti o da relazioni di sangue.

In questo scenario hanno trovato posto anche le famiglie arcobaleno. Famiglie non riconosciute dalle leggi di questo Stato, costrette a inventarsi soluzioni, spesso al limite della “disobbedienza civile”, per continuare a tenere in vita legami fisici e rapporti affettivi che non dovrebbero essere mai messi in discussione.

In Italia è madre chi partorisce ed è padre chi semplicemente dichiara, senza doverlo dimostrare, di avere un legame con quel/la bambino/a. Nelle famiglie arcobaleno ci sono di fatto due mamme o due papà non riconosciute/i dalle leggi di questo Stato. Così, se due genitori dello stesso si separano o non vivono, per qualsiasi motivazione, nella stessa casa, viene loro cancellata di colpo la possibilità di mantenere un legame fisico e costante con i propri figli e le proprie figlie. Genitori nella realtà, ma non riconosciuti giuridicamente, tenuti lontani da un confine regionale o da un divieto di movimento, che sfidano la sorte pur di incontrare i propri figli.

Purtroppo, in Italia, spesso una situazione si affronta solo quando esplode. Così, ad esempio, il coronavirus ha fatto riscoprire che la sanità e la scuola pubbliche sono elementi centrali e strategici del Paese e delle nostre comunità.

Il nostro Paese ha un problema di fondo: l’azione politica manca di prospettiva e spesso non si riesce a tracciare una via, indicando una direzione ben precisa che ci possa consegnare una società migliore. Una società che guardi al futuro, con l’obiettivo di essere quel luogo giusto, accogliente, inclusivo e democratico in cui tutti e tutte possano ritrovarsi e avere garantita pari dignità.

La politica tende a rispondere solo quando le richieste della cittadinanza diventano pressanti. La storia più recente ce lo insegna. Quando si toccano temi che riguardano la vita reale e la dignità delle persone, spesso le risposte della politica sono timide, impacciate e intrise di ideologia. E quando questo accade, i risultati, se ci sono, sono parziali e pieni di quei compromessi che rendono difficoltosa, se non impossibile, l’applicazione reale di quelle leggi. Fanno parte della nostra Storia l’obiezione di coscienza per l’interruzione volontaria di gravidanza, la possibilità di accedere alle tecniche di Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) solo per le coppie eterosessuali sposate o conviventi, una legge sul fine vita parziale e non chiara e, per ultima, una legge sulle Unioni Civili nata vecchia e lontana dalla realtà. Si pensi, ad esempio, che il matrimonio egualitario esiste dal 2001 in Olanda e dal 2003 in Belgio.

La legge n. 76 del 2016 (“Legge Cirinnà”) è un caso emblematico: pur nella sua importanza, non è riuscita a rispondere in modo adeguato alle esigenze di vita reale delle persone LGBT+ di questo Paese. Si tratta di una legge che è arrivata solo dopo i continui richiami dell’Unione Europea e le continue istanze testimoniate da piazze e Pride straripanti di persone.

Una legge come quella sulle Unioni Civili, nata con l’intento di colmare un gap giuridico, ha finito col creare un istituto giuridico di apartheid per le coppie dello stesso sesso, sancendo a livello normativo che le persone LGBT+ non sono “degne” di poter accedere al matrimonio. Questo perché, evidentemente, nel nostro Paese si continua a sovrapporre il matrimonio civile a quello religioso, e così quel contratto, quell’impegno, quella scelta devono restare a esclusivo appannaggio delle coppie formate da un uomo e da una donna.

I diritti e i doveri previsti per le persone unite civilmente possono apparire quasi identici a quelli dei coniugi di un matrimonio, ma non è così. Non solo le parole sono importanti, soprattutto quando riguardano i nostri sogni e le nostre aspirazioni, ma le differenze tra le persone sposate e quelle unite civilmente rappresentano un solco che non sappiamo ancora quando verrà colmato. In quel solco sono caduti centinaia di bambini e bambine che in Italia hanno due genitori dello stesso sesso.

Come presidente dell’Associazione “Famiglie Arcobaleno” all’epoca della discussione parlamentare della legge Cirinnà, nei miei interventi ho sempre ripetuto un concetto ben preciso:

Anche se la politica continua ad ignorarci, noi persone LGBT+ siamo ormai uscite dal cassetto con su scritto “sterilità” dove la società ci aveva relegato per anni, e ci siamo date la possibilità di scegliere se e come diventare genitori. Da quel momento non abbiamo mai smesso di lottare per veder riconosciuti i nostri doveri di genitori e i diritti dei nostri figli e figlie di veder riconosciute le proprie realtà familiari.

I nostri figli e le nostre figlie esistono. Sono bambini e bambine in carne e ossa, cittadini e cittadine di questo Paese che la politica ha il dovere di tutelare senza sconti né compromessi. Il dovere del Parlamento è rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena uguaglianza della cittadinanza, invece di continuare a ratificarli. La legge sulle Unioni Civili ha di fatto sacrificato i figli e le figlie delle famiglie arcobaleno, stralciando la stepchild adoption.

È per questo che ancora oggi le famiglie omogenitoriali sono costrette a far ricorso ai tribunali dei minori per poter adottare i propri stessi figli, dovendo affrontare percorsi giudiziari lunghi, costosi e dall’esito incerto per poter assumersi quelle responsabilità genitoriali che dovrebbero essere scontate. E così, in Italia accade che i cosiddetti “difensori della Famiglia”, che si riempiono la bocca di slogan come “Difendiamo i nostri figli”, in realtà si battano con forza per privare dei loro diritti bambini e bambine con due padri o due madri, e lo Stato si rende complice di questo scempio mantenendoli di fatto orfani di uno dei genitori.

Con l’Associazione “Famiglie Arcobaleno” lotto dal 2005 per portare avanti una battaglia chiara: il riconoscimento di entrambi i genitori per i nostri figli e per le nostre figlie è una responsabilità a cui la politica non può più sottrarsi. Siamo fuori tempo massimo. I nostri figli più grandi sono ormai diciottenni e la più piccola sta nascendo mentre scrivo queste righe. È impossibile spiegare a un/a bambino/a che una delle sue due mamme deve avere una delega per poterlo/a prendere a scuola, che uno dei suoi due papà non può stargli/le accanto in un letto di ospedale, che se muore una mamma rischia di non poter rimanere con l’altra, e così via.

Di esempi ce ne sono centinaia; tutti toccano la quotidianità delle nostre vite e le nostre relazioni affettive. Un viaggio di piacere, una partenza improvvisa, una separazione non prevista possono trasformarsi in esperienze difficili e dolorose, oltre a provocare traumi per la mancanza di quella che dovrebbe essere una certezza: la continuità affettiva tra genitori e figli/e.

Noi papà e mamme arcobaleno non ci sentiamo migliori di nessuno. Vogliamo solo essere inchiodati ai nostri doveri nei confronti di quei bambini e di quelle bambine che abbiamo desiderato, messo al mondo e di cui ci prendiamo cura ogni giorno. E vogliamo poterlo fare fin dal loro primo istante di vita.

Molti sindaci e molte sindache delle più grandi città italiane, ma non tutti/e, si sono schierati/e al nostro fianco, aggiornando i certificati di nascita dei nostri figli e figlie, inserendo i nomi di entrambi i genitori. Ma questo non è bastato. Il Parlamento è ancora sordo alle nostre richieste. A volte abbiamo la sensazione che i palazzi del potere, quelli in cui la politica sale di livello insieme alla possibilità di legiferare, rimangano a una distanza abissale dalla vita reale delle persone e dai bisogni della cittadinanza.

In attesa di una legge che restituisca dignità alle nostre famiglie, in questi anni abbiamo tessuto reti, creato relazioni, raccontato le nostre vite e le nostre esperienze a tutte/i coloro hanno avuto voglia di ascoltarci, e continueremo a farlo. La visibilità è l’arma più potente che abbiamo. Spesso le persone hanno paura di ciò che non conoscono, di ciò che può sembrare distante dalla propria esperienza di vita. Abbiamo quindi capito che il raccontarsi senza filtri e con orgoglio mette in moto quella “pura curiosità” che fa nascere empatia, scambio di pensieri, dialogo, tutte cose che spesso si trasformano in crescita e sostegno reciproco.

Facciamo parte di questo mondo e ne rivendichiamo il nostro ruolo sociale.

L’arrivo di una famiglia arcobaleno a scuola è dirompente perché mette a nudo delle verità che spesso non vengono affrontate né in famiglia né nel mondo scolastico. La storia di come i nostri figli e figlie vengano al mondo spesso aiuta anche quelle coppie eterosessuali che hanno avuto figli/e da un percorso di adozione, o grazie alle tecniche di PMA, a raccontare la propria storia. Possono così liberarsi dai “non detti” e dai condizionamenti, spesso frutto di pressioni sociali che suggeriscono silenzi e mezze verità, per sottrarsi al “giudizio altrui” ed evitare così assurdi sentimenti di vergogna. Con le nostre storie contribuiamo alla decostruzione di quegli stereotipi sociali e di genere che sono spesso fonti di bullismo e discriminazione per chi, seguendo il proprio naturale percorso, se ne allontana.

Per questo credo che il lavoro da fare nel nostro Paese sia soprattutto culturale, e sono sempre più convinta che il tutto debba partire dalla formazione e dalla scuola pubblica. Dobbiamo lavorare affinché le nuove generazioni possano costruirsi un proprio pensiero critico attraverso la formazione e progetti che promuovano l’educazione alle differenze e al rispetto. Abbiamo bisogno di una scuola pubblica, laica e inclusiva che lavori seriamente per eliminare le motivazioni che stanno alla base di discriminazioni ed episodi di bullismo.

Non è sufficiente lavorare a valle della violenza, fornendo case rifugio e finanziamenti a supporto di chi accompagnerà le persone (donne, LGBT+, ecc.) che escono da situazioni di violenza e discriminazione. Bisogna lavorare a monte di tutto questo, con una prospettiva ben chiara: fare crescere i nostri figli e le nostre figlie in un Paese laico, inclusivo, democratico e più giusto.

E se una scuola organizza un momento di riflessione sulla necessità di una legge contro l’omolesbobitransfobia, di un progetto per la parità di genere o di una legge per lo ius soli, non si può chiedere la presenza di un contraddittorio, perché è come se si dovesse necessariamente dare dignità di parola a persone omofobe, misogine o razziste.

Alcuni la chiamano “libertà di espressione”; io la chiamo inciviltà, e questo Paese non ne ha proprio bisogno.

Marilena Grassadonia per Policlic.it

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