È fermo al Senato da ben sette mesi il disegno di legge (ddl) recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”. Il ddl è stato oggetto di numerosissimi emendamenti da parte della Camera dei Deputati, che lo ha infine approvato il 20 aprile scorso.
Recentemente sul fine vita si è espresso anche Papa Francesco, che in una lettera indirizzata al Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, Monsignor Paglia, afferma: “Gli interventi sul corpo umano diventano sempre più efficaci, ma non sempre sono risolutivi: possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute. Occorre quindi un supplemento di saggezza, perché oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona”.
È doveroso premettere che quella di Papa Francesco non è una dichiarazione di apertura all’eutanasia, ma di sensibilizzazione all’utilizzo di un “supplemento di saggezza” nel valutare la proporzionalità dei trattamenti medici al fine di evitare un accanimento terapeutico restituendo dignità al malato e umanità alla morte. Infatti, lo stesso continua dicendo che: “È una scelta che assume responsabilmente il limite della condizione umana mortale, nel momento in cui prende atto di non poterlo più contrastare. «Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire», come specifica il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 2278). Questa differenza di prospettiva restituisce umanità all’accompagnamento del morire, senza aprire giustificazioni alla soppressione del vivere. Vediamo bene, infatti, che non attivare mezzi sproporzionati o sospenderne l’uso, equivale a evitare l’accanimento terapeutico, cioè compiere un’azione che ha un significato etico completamente diverso dall’eutanasia, che rimane sempre illecita, in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte”.
Il principale riferimento è all’accanimento terapeutico. Ma cosa si intende? L’accanimento terapeutico si verifica quando il medico si ostina ad eseguire sul paziente trattamenti terapeutici di documentata inefficienza, che producono soltanto sofferenze ulteriori ed inutili, da cui non ci si possa aspettare un beneficio per la salute del paziente.
Dopo le parole di Papa Francesco alcuni senatori a vita (Renzo Piano, Mario Monti, Elena Cattaneo, Carlo Rubbia) ne hanno approfittato per lanciare un appello e sollecitare lo sblocco della discussione per un’immediata approvazione del ddl. La necessità di una legge che disciplini la materia è avvertita anche da molti sindaci, rappresentanti di numerose città italiane, che hanno condiviso la campagna di raccolta firme dell’Associazione Luca Coscioni, per sollecitare una discussione immediata in aula.
Che cos’è il consenso informato?
Va detto, anzitutto, che il consenso informato ha origini millenarie, risalenti al tempo degli antichi egizi e delle civiltà greche e romane. È presente anche in scritti di Platone e, ancor prima di lui, di Ippocrate di Cos, che sosteneva la cooperazione tra medico e paziente per affrontare al meglio la malattia (anticipando quella che oggi chiameremmo “alleanza terapeutica”), il quale in un passo dell’“Epidemie”, considerato uno dei testi più antichi del Corpus Hippocraticum e risalente al 410 a.C. circa, scrive: “tendere nelle malattie a due scopi, giovare o non essere di danno”.
Oggi, per consenso informato si intende la manifestazione di volontà attraverso cui il paziente esprime l’intenzione di sottoporsi o meno ad un dato trattamento sanitario, dopo esser stato adeguatamente ed esaustivamente informato dal suo medico in merito alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico.
Il consenso informato nel ddl
L’art.1, co.3, del ddl, definendo il consenso informato, afferma che: “Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefìci e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi (…)”.
Al comma 5 continua dichiarando: “Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte (…), qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha, inoltre, il diritto di revocare in qualsiasi momento, (…), il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento. Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici. Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica”.
L’elemento centrale del ddl è che si riconosce al malato l’autonomia decisionale su aspetti relativi al trattamento della sua patologia, compresa la possibilità di interruzione delle cure. Libertà a cui si affianca la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico, in una relazione di cura e di fiducia tra medico e paziente promossa e valorizzata nello stesso ddl (art.1, comma 2).
Un aspetto altrettanto rilevante è che la nutrizione e l’idratazione artificiale non sono considerate mere forme di sostentamento ma trattamenti sanitari, ed in quanto tali possono essere rifiutati dal paziente.
Il comma 6 afferma successivamente: “Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale”.
È opportuno notare infatti che il consenso informato non tutela solo il paziente ma è essenziale anche per il legittimo operato del medico per evitare che questo incorra nella responsabilità penale o civile (che si avrebbe anche nel caso in cui l’operazione avvenisse in modo impeccabile e con successo ma senza il consenso del paziente). Si addiverrebbe, quindi, ad una maggiore certezza del diritto e del quadro di responsabilità che circonda l’operato del medico. Infatti, dal 1992 in poi (anno della prima sentenza che si è occupata di consenso informato – “caso Massimo”, sentenza n.5639/1992, Cass. pen., Sez. V), si sono susseguite una serie di sentenze che hanno condannato alcuni medici per reati (quali omicidio preterintenzionale, omicidio colposo, lesioni colpose, etc.) poiché sono intervenuti con operazioni invasive in assenza del consenso del paziente, cagionandone in alcuni casi la morte.
Compreso il significato del consenso informato, soffermiamoci su un altro aspetto altrettanto importante relativo alle diverse terapie del dolore, così come prospettato dall’art.2 del ddl. Tale articolo prevede che il medico deve adoperarsi per alleviare le sofferenze del malato, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato, e deve assicurare al paziente un’appropriata “terapia del dolore”, come previsto dalla normativa n.38/2010 che disciplina le cure palliative. Queste, sono destinate ad alleviare le sofferenze del malato e necessitano del consenso del paziente. Inclusa nelle cure palliative, e inserita nel ddl ai commi 2 e 3 dello stesso articolo, è la sedazione profonda e continua, che consiste nella somministrazione di un farmaco, previo consenso del paziente, per ridurre fino ad annullare la coscienza del paziente allo scopo di alleviare sintomi fisici o psichici intollerabili e refrattari a qualsiasi trattamento, nelle condizioni di imminenza della morte, con prognosi di ore o pochi giorni, per malattia inguaribile in stato avanzato.
Una indispensabile differenziazione
È necessario sottolineare che il consenso informato e l’eventuale interruzione delle cure non vanno confusi con altri tipi di pratiche. Dobbiamo, infatti, distinguere tra:
– Eutanasia attiva, con cui si intende l’azione del soggetto che procura anticipatamente la morte di un malato (consenziente e capace di intendere e di volere), allo scopo di alleviarne le sofferenze. L’operazione, che di solito avviene mediante la somministrazione di un farmaco letale, nel nostro ordinamento è considerato reato ai sensi dell’art.579 c.p., rubricato “Omicidio del consenziente”;
– Eutanasia passiva, termine con cui si indica l’astensione del medico dall’eseguire ulteriori interventi o dal somministrare cure dirette a tenere in vita il malato. Se la legge sul consenso informato dovesse essere approvata questa forma di eutanasia potrà essere considerata legittima anche in Italia. Ma, a tal fine, occorre precisare che la parola eutanasia non viene mai citata nel testo del disegno di legge.
È dunque di fondamentale importanza distinguere tra eutanasia (attiva) e interruzione delle cure. Quest’ultima è espressione dell’autodeterminazione del paziente che consapevolmente decide di non sottoporsi a (o di interrompere) un determinato trattamento terapeutico, anche salva-vita.
Dopo aver provato a chiarire il significato e l’importanza del consenso informato, passiamo ora all’analisi di un altro istituto, anch’esso previsto nel disegno di legge in esame.
Il testamento biologico nel ddl
Le disposizioni anticipate di trattamento (DAT – anche conosciute come “Testamento biologico”) sono un indispensabile strumento per tutti quei soggetti che, in previsione di una possibile futura incapacità di intendere e di volere, desiderino rendere note le proprie volontà in ordine a decisioni su trattamenti terapeutici. In merito, l’art.4, comma 1, del ddl afferma che “Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari (…)”.
Assume rilevanza in tale sede la figura del “fiduciario”, persona legata al malato da una relazione di fiducia, che ha il compito di rappresentare e fare le veci del paziente nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie. Una volta redatto il testamento biologico nelle forme prestabilite (atto pubblico, scrittura privata autenticata o, nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare) il medico è tenuto a rispettarlo.
Nonostante il testamento biologico rappresenti un valido mezzo per rendere note le proprie scelte in tema di trattamenti sanitari, si riscontrano due problematicità. La prima è legata alla sua vincolatività, in quanto le volontà espresse possono essere disattese in tutto o in parte dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie, non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita. La seconda è connessa alla sua attualità, poiché, non essendo prescritto un obbligo di rinnovo periodico, le volontà del soggetto al tempo della malattia potrebbero non corrispondere a quelle espresse al momento della sottoscrizione del testamento. Il rimedio a quest’ultima difficoltà viene individuato dal legislatore nella figura del fiduciario, finalizzata proprio ad attualizzare la volontà del paziente, superando, almeno in parte, tale problema.
Necessità di una regolamentazione in materia
Tutta l’Italia è stata toccata dalle storie di Piergiorgio Welby, Eluana Englaro, Dj Fabo, Terry Schiavo e tanti altri come loro. Abbiamo sentito e percepito, fino a farle nostre, la sofferenza, la disperazione, la forza e il coraggio, che ha pervaso le loro vite e quelle dei loro cari.
Tuttavia, una volta superato il clamore mediatico che ha diffuso compassione e indignazione, la questione, così come avviene per molti temi altrettanto sensibili, è sprofondata tristemente nell’oblio: i politici non sono più indignati dal vuoto normativo; i cittadini tornano indifferenti alla propria quotidianità; ma i malati restano sempre lì, nella loro indescrivibile sofferenza.
È bene precisare, che una regolamentazione della disciplina è importante non solo per i malati, ma per tutti noi, perché riafferma il diritto ad autodeterminarsi e ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte. È fondamentale per ribadire e tutelare il diritto alla salute costituzionalmente garantito dall’art.32, che al secondo comma afferma: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. In fondo la salute non è un bene che può essere imposto in modo coattivo. È un diritto fondamentale alla base del cui esercizio c’è una scelta sulla qualità della vita. Stiamo parlando di libertà di scelta, di libertà di decidere per la nostra esistenza, di diritto ad una morte dignitosa, di qualcosa che, dunque, nessuno potrebbe e dovrebbe sottrarci.
Conclusioni
È ormai chiaro che questa grave lacuna legislativa lascia ogni giorno il suo triste segno. Chi considera questa legge un subdolo mezzo per l’introduzione dell’eutanasia nel nostro paese, a quanto pare, non sa di cosa sta parlando. Si tratta di temi estremamente delicati.
Spesso è difficile decidere, o anche solo parlarne. Ma la peggiore cosa che
si possa fare è, in qualsiasi caso, non decidere e non parlarne
A tutti può capitare un incidente. Tutti possono contrarre una malattia. Allora chiediamoci: vogliamo essere padroni delle scelte che ci riguardano? Vogliamo avere l’ultima parola sulla qualità della nostra vita? Io credo di sì.
I titolari del diritto alla vita, alla salute, all’autodeterminazione e alla dignità, in fondo siamo noi. Senza una legge che regolamenti la materia del fine-vita non possiamo considerare questi diritti tutelati e protetti, almeno non come dovrebbero. Quindi possiamo solo sperare che la discussione della legge avvenga nel minor tempo possibile, superando definitivamente le misere tattiche politiche, ed i pregiudizi su cui si fondano, che ne impediscono la conclusiva approvazione. Nel frattempo mi auguro che tutte le sofferenze, i dolori e gli appelli delle persone malate, trovino presto risposta ma anche un po’ di solidarietà da parte di tutti noi.
Rosa Torromino per Policlic.it