Indice : La Guerra di Corea – La Domino Theory – John Fitzgerald Kennedy – La guerra in Vietnam – Nixon e la distensione
[sta_anchor id=”la-guerra-di-corea” unsan=”La Guerra di Corea”]La Guerra di Corea[/sta_anchor] – La teoria del containment alla prima prova della Storia
“In these circumstances it is clear that the main element of any United States policy toward the Soviet Union must be that of long-term, patient but firm and vigilant containment of Russian expansive tendencies. It is important to note, however, that such a policy has nothing to do with outward histrionics: with threats or blustering or superfluous gestures of outward “toughness.”
(George Kennan, The Sources of Soviet Conduct pubblicato su Foreign Affairs, Luglio 1947)
Con l’avvento di Harry Truman alla Casa Bianca e la conclusione della Seconda Guerra Mondiale si arrivò allo stallo tra le due superpotenze uscite vittoriose dal conflitto. Soltanto da un punto di vista meramente formale infatti potevano essere coinvolte anche nazioni quali la Francia, il Regno Unito e la Cina: nessuna delle tre allora era infatti capace di contrastare il dominio tecnologico, economico e militare degli Stati Uniti d’America e successivamente, caduto il monopolio di Washington sulla bomba atomica, dell’Unione Sovietica. Come anticipato nella precedente panoramica (qui il link), il primo vero “banco di prova” della politica del containment teorizzata da George Kennan con il supporto di Truman stesso (sarebbe divenuta elemento fondante dell’omonima Dottrina Truman) fu la Guerra di Corea.
Superati agilmente infatti i primissimi segnali rappresentati dalla guerra civile greca (1946-1949), nella quale gli statunitensi scalzarono i sempre più marginali britannici nel sostegno alle truppe elleniche (nonostante le previsioni profetiche dell’anziano Winston Churchill), fu la Corea il luogo in cui la politica e l’enclave militare statunitense concentrarono la loro attenzione per contrastare la minaccia comunista rappresentata dall’Unione Sovietica e dalle nazioni limitrofe come la Repubblica Popolare Cinese o ideologicamente affini come la Corea del Nord.
La Guerra di Corea, terra per secoli ambita e conquistata dall’Impero Giapponese e quindi divisa nel secondo dopoguerra, ebbe luogo a seguito dell’aggressione da parte dei nord-coreani della neonata Repubblica Democratica Popolare di Corea di Kim Il-sung (1912-1994) nei confronti dei sud-coreani, alleati degli Stati Uniti d’America.
Le truppe nord-coreane, sostenute dalla Cina di Mao Tse-Tung (1893-1976) e dall’Unione Sovietica, erano arrivate a superare il 38° parallelo, linea di confine tra le due nazioni coreane sancita tra il 1945 ed il 1947 dalle trattative tra Washington e Mosca, fino ad occupare la capitale sud-coreana di Seoul. La reazione degli Stati Uniti d’America non si fece attendere.
“As soon as word of the attack was received, Secretary of State Acheson called me at Independence, Mo., and informed me that, with my approval, he would ask for an immediate meeting of the United Nations Security Council. The Security Council met just 24 hours after the Communist invasion began. [..]
It recommended that members of the United Nations help the Republic of Korea repel the attack and help restore peace and security in that area. [..]
The principal effort to help the Koreans preserve their independence, and to help the United Nations restore peace, has been made by the United States. We have sent land, sea, and air forces to assist in these operations. We have done this because we know that what is at stake here is nothing less than our own national security and the peace of the world. [..]
Under the flag of the United Nations a unified command has been established for all forces of the members of the United Nations fighting in Korea. Gen. Douglas MacArthur is the commander of this combined force. The prompt action of the United Nations to put down lawless aggression, and the prompt response to this action by free peoples all over the world, will stand as a landmark in mankind’s long search for a rule of law among nations. [..]
For our part, we shall continue to support the United Nations action to restore peace in the world. [..]
Our country stands before the world as an example of how free men, under God, can build a community of neighbors, working together for the good of all.That is the goal we seek not only for ourselves, but for all people. We believe that freedom and peace are essential if men are to live as our Creator intended us to live. It is this faith that has guided us in the past, and it is this faith that will fortify us in the stern days ahead.”
(Harry S.Truman, Radio And Television Address to the American People on the Situation in Korea, 19 Luglio 1950.
N.B. Per la lettura integrale del discorso si rimanda alla consultazione di questo link)
Vista come una piena e aperta violazione della Carta delle Nazioni Unite, gli Stati Uniti d’America e il presidente Truman si mossero tra il Luglio e l’Ottobre del 1950 per avere il sostegno del Congresso e dell’organizzazione stessa nella guida di una forza internazionale da inviare in Corea per contrastare le truppe comuniste. Vi riuscirono, nonostante l’opposizione dell’Unione Sovietica.
A guida del contingente prevalentemente statunitense venne nominato il generale ed ex-Governatore delle Filippine Douglas MacArthur (1880-1964), l’uomo che aveva contribuito alla riscossa americana contro l’Impero Giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale. Dopo alcune iniziali difficoltà nell’interfacciarsi con un territorio la cui conformazione geografica era sconosciuta ai soldati statunitensi, MacArthur guidò brillantemente le truppe a sostegno delle forze sudcoreane – come avvenuto nella battaglia di Incheon tra il 10 ed il 19 Settembre 1950. Riconquistò così Seoul, ricacciando le truppe nord coreane al confine del 38° Parallelo. Forte del momento favorevole, MacArthur volle insistere con l’offensiva oltrepassando il Parallelo ed avanzando con l’esercito delle Nazioni Unite fino alle porte della capitale nord-coreana di Pyongyang che cadde il 19 Ottobre 1950. La caduta della capitale della Corea del Nord innescò una serie di eventi che gli Stati Uniti d’America sottovalutarono e ai quali non seppero rispondere con prontezza alcuna, di fatto dilapidando il vantaggio militare di un esercito ottenuto grazie alle abilità militari del generale MacArthur: sinteticamente, l’entrata in scena della Cina comunista.
“The Chinese people absolutely will not tolerate foreign aggression, nor will they supinely tolerate seeing their neighbors being savagely invaded by the imperialists.“
(Zhou Enlai, messaggio del 30 Settembre 1950 citato in James F. Schnabel, United States Army In The Korean War, 1961)
Tra il 1950 ed il 1951 infatti, incurante delle minacce dell’allora Primo Ministro della Repubblica Popolare Cinese Zhou Enlai (1898-1976), MacArthur volle andare ancora oltre e rivolse le proprie mire verso il fiume Yalu, confine naturale tra Corea del Nord e Cina. Nella mente del generale, l’ampliamento del fronte sul territorio cinese avrebbe garantito la messa in sicurezza della Corea dalla minaccia dei nordcoreani sconfitti, anche perché era certo che la Cina non sarebbe entrata nel conflitto. Tuttavia l’incertezza di Washington su una strategia militare condivisa da tutti al fine di contrastare il fronte comunista sino-coreano contribuì a creare ulteriore instabilità al fronte: il presidente Truman maldigeriva, rispetto al suo predecessore Roosevelt, la personalità egocentrica di MacArthur e aveva intenzioni differenti (nonchè alquanto variabili) rispetto al proprio generale riguardo lo svolgimento del conflitto e l’impiego dell’esercito. Era in questo consigliato dal suo Segretario di Stato Dean Acheson e dallo stesso Kennan.
“What would suit the ambitions of the Kremlin better than for our military forces to be committed to a full-scale war with Red China? It may well be that, in spite of our best efforts, the Communists may spread the war. But it would be wrong -tragically wrong – for us to take the initiative in extending the war. Our aim is to avoid the spread of the conflict. [..]
I have thought long and hard about this question of extending the war in Asia.
I have discussed it many times with the ablest military advisers in the country.
I believe with all my heart that the course we are following is the best course.”
(Harry Truman, Radio Report to the American People on Korea and on U.S. Policy in the Far East, 11 Aprile 1951.
N.B. Per la lettura integrale del messaggio si rimanda alla consultazione di questo link)
La scarsa sopportazione di Truman nei confronti di MacArthur era condivisa anche da quest’ultimo, totalmente contrario ad una guerra a bassa intensità contro il nemico e del tutto opposto ad uno stallo militare e politico contro i nordcoreani ed i cinesi. Determinato a risolvere la questione nordcoreana una volta per tutte, nell’addentrarsi nel territorio di confine sino-coreano non fece i conti con l’impreparazione dell’Ottava Armata nonchè delle forze d’occupazione statunitensi in Giappone inviate nel territorio coreano. Inoltre il supporto logistico alle truppe venne severamente ridotto per un altro errore di valutazione da parte di MacArthur circa le insidie del territorio e le tattiche dei cinesi e dei nordcoreani incentrate sulla guerriglia. Tattiche che avrebbero gradualmente logorato il contingente delle Nazioni Unite a guida statunitense.
La battaglia del fiume Ch’ongch’on (25 Novembre – 2 Dicembre 1950) fu l’inizio della disfatta: le truppe cinesi, forti di 230.000 uomini e a conoscenza del territorio montuoso attorno al fiume, sbaragliarono il fronte dell’Ottava Armata statunitense, già indebolito in ulteriori incursioni e privato del supporto della Turkish Brigade che venne decimata e messa in rotta. Inflissero pesantissime perdite all’esercito guidato da MacArthur che battè in ritirata mentre veniva falcidiato dall’incessante bombardamento d’artiglieria cinese.
Nel giro di un mese, dopo la sconfitta sul fiume Ch’ongch’on, le truppe statunitensi vennero ricacciate indietro fino al 38° Parallelo. Il 4 Gennaio 1951 Seoul cadde nuovamente in mano dei cinesi e dei nordcoreani: ciò che ne rimase sarebbe stato riconquistata per una quarta volta nell’Aprile del 1951 dalle forze delle Nazioni Unite. L’11 Aprile 1951 il presidente Truman, con il sostegno del Segretario di Stato Acheson, chiuse i conti con il “ribelle” MacArthur rimuovendolo dal comando del contingente delle Nazioni Unite in Corea per “grave insubordinazione”. Un fatto che ebbe enorme risalto e impatto negli Stati Uniti d’America visto che MacArthur era visto dal Paese come un vero e proprio eroe, al pari di Dwight D. Eisenhower o George S. Patton, e che Truman motivò in questo secondo estratto del messaggio precedentemente sopra menzionato:
“A number of events have made it evident that General MacArthur did not agree with that policy. I have therefore considered it essential to relieve General MacArthur so that there would be no doubt or confusion as to the real purpose and aim of our policy. It was with the deepest personal regret that I found myself compelled to take this action. General MacArthur is one of our greatest military commanders. But the cause of world peace is much more important than any individual.”
(Harry Truman, Radio Report to the American People on Korea and on U.S. Policy in the Far East, 11 Aprile 1951)
Infine, due anni e mezzo dopo quella battaglia, si giunse all’Armistizio di Panmunjeom (27 luglio 1953) che sancì il ritorno ad una situazione status quo ante tra le due Coree.
In tre anni di guerra il contingente delle Nazioni Unite guidato dagli Stati Uniti d’America contò oltre duecentodiecimila tra soldati morti e dispersi e oltre cinquecentosessantamila feriti con Washington che a sua volta pianse oltre trentaseimila caduti, più di centotremila feriti, quasi ottomila dispersi e oltre quattromilasettecento prigionieri di guerra.
In poche parole, una guerra inutile tramutatasi in una disfatta non tanto per l’effettiva minaccia nord-coreana, anche se supportata da Cina e Unione Sovietica, ma per la condotta statunitense della stessa in quanto incapace di sfruttare appieno il proprio dominio militare per vincere la guerra.
L’implementazione della dottrina Truman – Dwight D.Eisenhower tra [sta_anchor id=”la-domino-theory” unsan=”La Domino Theory”]la Domino Theory[/sta_anchor] asiatica e gli impegni tra Egitto ed Ungheria
“Finally, you have broader considerations that might follow what you would call the “falling domino” principle. You have a row of dominoes set up, you knock over the first one, and what will happen to the last one is the certainty that it will go over very quickly.
So you could have a beginning of a disintegration that would have the most profound influences.”
(Dwight T. Eisenhower illustra la “Domino Theory” durante una conferenza stampa del 7 Aprile 1954)
Una volta concluso il mandato di Truman, dalle elezioni presidenziali del 1952 emerse vittoriosa la figura del generale repubblicano Dwight D. Eisenhower (1890-1969).
Veterano nonché Comandante Supremo delle Forze Alleate in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale, Eisenhower era stato riconosciuto eroe della Nazione per il contributo offerto durante la Campagna d’Italia e, soprattutto, durante lo sbarco in Normandia del 6 Giugno 1944 (il D-Day). Al termine del conflitto si era trattenuto temporaneamente in Europa in qualità di Governatore della Germania occupata prima di fare ritorno negli Stati Uniti d’America dove dapprima fu Presidente della Columbia University ed in seguito Comandante Supremo della NATO (1952). Ritiratosi dal servizio militare attivo con tutti gli onori (31 Maggio 1952), aveva fatto ritorno alla Columbia University dove aveva mantenuto l’incarico fino alla sua entrata ufficiale alla Casa Bianca.
Il coinvolgimento politico fu opera e merito del suo predecessore Harry Truman che già dal 1951 volle sostenere la candidatura di Eisenhower alla guida del Partito Repubblicano, evento che ebbe luogo dopo una lunga riflessione e fase di convincimento di Eisenhower da parte del partito stesso. L’allora sessantaduenne Eisenhower, conosciuto anche con il nomignolo di Ike, ottenne la vittoria alle elezioni presidenziali del 1952 e si insediò alla Casa Bianca il 20 Gennaio 1953 mantenendo l’incarico per due mandati fino al 1961.
All’arrivo di Eisenhower alla Casa Bianca, gli Stati Uniti d’America si trovavano nei primi anni del periodo storico che sarebbe passato alla storia come Maccartismo (dal nome del senatore repubblicano Joseph McCarthy), ovvero la lotta senza quartiere all’infiltrazione comunista nel Paese che, pur essendo già attiva e presente dagli anni Trenta durante l’amministrazione Hoover, si tramutò in una vera e propria psicosi di massa con il supporto dell’anticomunista viscerale Harry Truman e della sempre più rilevante figura del Direttore dell’FBI John Edgar Hoover (1875-1972), al punto di sovrastare lo stesso senatore McCarthy.
Il filone giudiziario scatenato dal Maccartismo ebbe spazio e manovra d’azione anche durante l’amministrazione Eisenhower, non senza velate critiche da parte del Presidente stesso. Fu in quegli anni che nacque la Red Scare paventata dal senatore McCarthy durante le proprie audizioni: la paura della minaccia comunista sovietica che, anche grazie alla disfatta statunitense in Corea e la propaganda anticomunista orchestrata dall’FBI, spaccò il paese, le comunità e le famiglie statunitensi all’isterica ricerca di una possibile avanzata rossa. Una ricerca che divenne isterica e che in molti casi non era surrogata da prove ma che ciononostante ebbe un impatto devastante, soprattutto nel mondo artistico statunitense: Hollywood , ad esempio, “procurò” numerosi nomi da iscrivere alle liste di proscrizione portate avanti tanto da McCarthy quanto da J. Edgar Hoover, contribuendo volente o nolente alla morte artistica (concreta in alcuni casi) di figure di rilievo del mondo del cinema, della musica e della letteratura statunitense.
In termini di politica estera invece, a seguito della disfatta della guerra di Corea gli Stati Uniti d’America osservarono preoccupati il prosieguo del nuovo ciclo dell’Unione Sovietica.
Destalinizzata dal famoso “rapporto segreto” presentato dal nuovo Segretario Nikita Krusciov (1894-1971) durante il Ventesimo Congresso del Partito Comunista del 1956, gelida nei rapporti logori con la Cina di Mao Tse-Tung (accusò Krusciov di revisionismo storico) e infine azzerata da una vera e propria faida fratricida che coinvolse tutto il quadro burocratico-amministrativo sovietico (una “nuova purga staliniana” che venne ordinata da Krusciov), l’Unione Sovietica guidata da Krusciov portò in varie occasioni la Guerra Fredda al punto di non ritorno e ad una possibile escalation di portata globale.
“Stalin’s successors were riven by the inevitable contest for power that followed. In the desperate war of all against all in which each tried to line up factions to support his own claim to authority, no one would accept responsibility for making concessions to the capitalists.”
(Henry Kissinger, Diplomacy)
Lo scontro tra Eisenhower e Krusciov si sviluppò in tre fronti differenti: il sud-est asiatico, l’Egitto e l’Ungheria.
Per analizzare l’impatto della Domino Theory implementata da Eisenhower a partire dal 1954 nell’area del sud-est asiatico si deve fare un breve passo indietro per contestualizzare la dottrina politica all’interno di dinamiche che coinvolsero in primo luogo il suo predecessore Truman ma, ancor prima degli Stati Uniti d’America, la Francia e le sue colonie asiatiche.
Già a partire dal 1946 infatti, le truppe francesi (in parte legate al retaggio del decaduto protettorato di Vichy) erano impegnate a combattere contro i vietcong di Ho Chi Minh (1890-1969), i quali avevano proclamato la propria indipendenza dopo aver combattuto contro l’invasore giapponese. Dopo un’iniziale avanzata dell’esercito francese volta alla riconquista dei territori coloniali, la Guerra d’Indocina (23 Novembre 1946-12 Luglio 1954) vide prevalere i soldati vietnamiti per i motivi che gli statunitensi avrebbero compreso dapprima in Corea e quindi nello stesso Vietnam: la perfetta conoscenza del territorio e il sostegno di buona parte della popolazione locale, elementi determinanti per la guerriglia messa in atto dai vietnamiti.
Gli Stati Uniti dapprima videro in Truman un sostenitore delle truppe francesi che ebbe modo di finanziare e supportare in termini logistici (personale inviato per l’addestramento, attrezzature e armamenti). Fu però successivamente, sotto la presidenza Eisenhower, che gli statunitensi vollero attivarsi maggiormente nell’area indocinese: stretta tra una visione strategica dell’assetto territoriale asiatico in chiave anti-comunista, ma pur sempre legata al dogma anti-colonialista ed anti-imperialista di Wilson (formalmente mantennero sempre la propria neutralità) gli Stati Uniti riunirono, sotto la mente diplomatica del Segretario di Stato John Foster Dulles (1888-1959), un piano denominato United Action nel quale, assieme ad una coalizione di altri paesi tra i quali il Regno Unito e l’Australia, gli americani acconsentivano ad un massiccio supporto logistico alle truppe francesi impegnate nello scontro con la sola condizione che venisse concessa l’indipendenza ai territori del Vietnam, del Laos e della Cambogia (riunite sotto il titolo di Unione Indocinese) una volta concluso il conflitto.
Con la sconfitta francese e la conferenza di Ginevra del 1954, gli Stati Uniti d’America trovarono in Ngo Dihn Diem (1901-1963) un politico da sostenere nel neonato governo del Vietnam del Sud. Alla fine tuttavia il problema all’interno della visione politica statunitense dell’area geografica considerata si dimostrò essere proprio Diem: egli infatti, di formazione confuciana e fede cattolica, non era manovrabile nei modi conosciuti alla politica degli Stati Uniti e non era interessato ai valori democratici statunitensi, cosa che, negli anni successivi, avrebbe dimostrato nei confronti del successore di Eisenhower, il democratico John Fitzgerald Kennedy.
Il fronte egiziano invece vide direttamente coinvolti tanto gli statunitensi quanto i sovietici all’interno della scalata verso il potere del rais d’Egitto, il colonnello Gamal Abdel Nasser (1918-1970). Dopo aver guidato un colpo di stato contro la famiglia reale egiziana (22-23 Luglio 1952), Nasser prese il potere nella ex-colonia britannica destituendo uno dei propri compagni d’arme (14 Novembre 1956) e facendosi guida dell’omonimo movimento che avrebbe destabilizzato l’area mediorientale allora ancora lambita dagli interessi commerciali di Regno Unito e Francia. Già segnato dalla nascita unilaterale dello stato d’Israele nel 1948, Nasser guidò non soltanto l’Egitto ma la maggioranza del mondo arabo attorno ad una visione pan-arabista del Medio Oriente e contribuì alla creazione di un terzo polo nell’ambito delle relazioni internazionali del tempo, il blocco dei non-allineati (al quale avrebbero preso parte anche paesi come la Jugoslavia di Tito e l’India di Nehru).
Uno degli errori della politica americana fu quello di non comprendere come i movimenti indipendentisti nel Medio Oriente non fossero legati o ispirati all’esperienza storica degli Stati Uniti, pur essendo entrambi gli attori contro le pretese imperialiste del Regno Unito e della Francia (che nella Crisi di Suez videro il definitivo declino del loro ruolo di superpotenze). Washington infatti credeva che Nasser potesse essere persuaso, secondo le logiche del Wilsonismo, ad abbracciare la causa americana in chiave anti-sovietica.
Eppure nulla di tutto questo avvenne, non tanto perché in principio i paesi mediorientali fossero stati generalmente anti-americani (lo sarebbero diventati successivamente), ma perchè l’Unione Sovietica era stata apparentemente in grado di dare loro maggiori garanzie e sicurezze rispetto agli Stati Uniti. Come riporta Kissinger in Diplomacy, “il non allineamento fu per questi una questione più legata a interessi interni che ad una precisa politca estera”. A ben poco valsero gli sforzi statunitensi di creare un’intesa militare simile a quella della NATO nella regione mediorientale per contenere l’espansione sovietica: le forti divisioni interne tra i paesi firmatari del Patto di Baghdad (24 febbraio 1955) portarono infatti l’accordo ad un punto morto.
Infine, la querelle riguardante la costruzione della diga di Aswan fu il coup de grâce per gli intenti dei paesi occidentali: dinnanzi alle ulteriori ingerenze dei governi di USA, Regno Unito e Francia, il 26 luglio 1956 Nasser guidò, con un messaggio in codice via radio, l’occupazione militare del canale di Suez e la sua nazionalizzazione. Gli interessi commerciali, nonché il prestigio della Gran Bretagna e della Francia erano stati messi in discussione, e per Londra e Parigi l’indisponenza del Rais era giunta al termine. Dall’altra parte però gli Stati Uniti persistettero nel condannare l’accaduto sotto il solo punto di vista legale-procedurale, non essendo determinati in alcun modo ad agire militarmente né tantomeno a dare adito alle politiche coloniali anglo-francesi. Per entrambi la questione egiziana non comportava una minaccia tale, seppur esistente, da approvare l’uso della forza per risolverla e pertanto si applicarono per trovare soluzioni alternative con le quali obbligare Nasser a desistere dal piano da lui attuato, ognuna delle quali venne di lì a poco rispedita al mittente.
Tale condotta creò il precedente al quale in seguito i paesi non allineati si sarebbero aggrappati nei confronti degli Stati Uniti e della successiva guerra in Vietnam, ma soprattutto generò la rabbia nei governi anglo-francesi che decisero di agire per conto proprio.
L’Unione Sovietica di Krusciov invece si mostrò ancora più devota alla causa di Nasser, continuando a rifornire indirettamente l’Egitto di armi e munizioni, aggirando di fatto il containment statunitense (le armi arrivavano dalla Cecoslovacchia) e ricevendo anche il placet e l’apprezzamento dello stesso Nasser. Non solo: i sovietici applicarono il proprio diritto di veto alle Nazioni Unite durante le sessioni di voto dei “Sei Principi per il futuro del Canale”, portando quindi la Gran Bretagna di Sir Anthony Eden e il primo ministro francese Guy Mollet a studiare una strategia combinata con la quale Israele, avuto l’appoggio logistico anglo-francese, potesse dare il perfetto casus belli per attaccare l’Egitto di Nasser. Nel giro di una settimana, tra il 29 ottobre ed il 5 novembre 1956, l’invasione israeliana raggiunse tutti gli obiettivi prefissati con gli inglesi e i francesi, le Nazioni Unite si attivarono per chiedere la fine delle ostilità e contemporaneamente la Gran Bretagna e la Francia bombardarono l’Egitto, che bloccò a sua volta l’accesso a Porto Said.
Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica a quel punto, “per la prima ed unica volta” – come sottolinea Kissinger – “agirono di comune intento contro le due potenze europee alleate degli americani” – dietro la minaccia sovietica concreta dell’uso di testate nucleari nei confronti di Eden, Mollet e David Ben-Gurion. Come menzionato precedentemente, a seguito della fine della crisi di Suez la Francia e la Gran Bretagna persero il ruolo di superpotenze: gli inglesi in particolar modo divennero sempre più dipendenti e comprimari rispetto ai partner statunitensi. L’intervento “wilsonista” degli Stati Uniti spinse ancor di più il blocco dei non-allineati ad assumere posizioni, pur nella loro imparzialità rispetto ai due blocchi continentali, vicine a quelle dell’Unione Sovietica e tendenzialmente anti-americane.
L’Egitto continuò a gravitare attorno all’orbita sovietica, pur mantendo l’interesse prioritario del Nasserimo nonché del panarabismo contro Israele, fino al 1972 (anno in cui Anwar Al Sadat cambiò schieramento e si legò agli Stati Uniti). Il vincitore morale della crisi di Suez, oltre allo stesso Nasser, fu senza dubbio Krusciov, anche perchè era riuscito contemporaneamente a mettere in secondo piano, nel panorama internazionale, la repressione che il suo paese stava avviando nelle Repubbliche popolari dell’Europa orientale, la sovietizzazione ovvero dei regimi comunisti che avevano “osato” distanziarsi dalle linee del Comitato centrale di Mosca.
Nello stesso anno infatti, mentre le truppe anglo-francesi sostenevano l’invasione dei carri armati israeliani lungo il Sinai, i mezzi cingolati sovietici avanzarono verso i territori della Repubblica popolare polacca, salvo poi trovare una soluzione con la quale Krusciov, il 23 ottobre 1956, diede il placet per la nomina di Wladyslaw Gomulka (1905-1982) a Primo Segretario del Partito Operaio Unificato Polacco (POUP), dando quindi alla Polonia la possibilità di perseguire la propria “via nazionale al socialismo”.
Ultimate le prove generali in Polonia, Krusciov si concentrò sull’Ungheria: nella Repubblica popolare ungherese infatti, le truppe sovietiche repressero nel sangue la rivolta popolare guidata da Imre Nagy (1896-1958) che chiedeva libere elezioni con un sistema multipartitico, la fuoriuscita delle truppe sovietiche dal Paese e l’uscita dal Patto di Varsavia. Il 4 novembre 1956, Budapest venne assediata, i rivoluzionari processati sommariamente e giustiziati e il popolo ungherese venne nuovamente schiacciato dal peso della Cortina di Ferro.
Quale fu l’intervento statunitense, così impegnato nel redimere la crisi di Suez che coinvolse due potenze alleate dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, per salvare il popolo ungherese? Ma soprattutto, ci fu un intervento statunitense per salvare il popolo ungherese? Kissinger, e la storia, rispondono complessivamente in maniera negativa: va detto in effetti gli Stati Uniti, con Dulles ed Eisenhower, agirono in favore della sollevazione ungherese che si stava sviluppando in quei giorni. Ciò su cui si deve riflettere fu il modo in cui lo fecero: un’azione tardiva, sbrigativa ma soprattutto, spinta ancora una volta in virtù dei principi procedurali, umanitari e apparentemente pacifisti insiti nella loro natura e mentalità dovuta al Wilsonismo, con il Segretario di Stato Dulles che risultò essere maestro nel non comprendere la drammatica situazione in atto al tempo nei territori magiari.
In poche parole, non agirono. Pertanto il sostanziale immobilismo statunitense, che si limitò a dei messaggi di dura condanna da parte della presidenza Eisenhower o a delle risoluzioni presentate e poste al voto presso le Nazioni Unite (prontamente bloccate dal veto sovietico, con il supporto – o “non supporto” – del blocco dei paesi non allineati), andò unicamente a vantaggio di Krusciov, il quale si sentì libero di poter reprimere con brutalità e fermezza il tentativo di distacco dalla “madre Russia”. Dulles, come riporta Kissinger nel citare un estratto di una conferenza stampa australiana del 13 marzo 1957, rimase stolido nel giustificare la posizione passiva statunitense alla luce dell’assenza di un obbligo di natura legale, al punto che lo stesso Kissinger (correttamente anche a mio parere) ebbe modo in Diplomacy di definire le parole di Dulles come “degne di un avvocato”.
“There was no basis for our giving military aid to Hungary. We had no commitment to do so, and we did not think that to do so would either assist the people of Hungary or the people of Europe or the rest of the world” (John Foster Dulles)
Risulta necessaria una breve menzione sulla figura di John Foster Dulles in quanto caratterizzò indubbiamente la politica estera statunitense durante la presidenza Eisenhower (che servì fino al 1959, anno della sua morte). Tale menzione è importante per via del suo approccio pesantemente influenzato dalla carica morale del Wilsonismo: anti-comunista dichiarato, di fede presbiteriana e collaboratore di Thomas Woodrow Wilson ai tempi della Conferenza di Pace di Parigi, Dulles fu critico nei confronti del containment di Truman mentre sposò appieno la successiva implementazione di Eisenhower.
Organizzatore dell’assetto giuridico della NATO, John Foster Dulles non venne ben visto dalle parti di Londra perchè tendente a sfruttare un’oratoria quasi sermonica e inconcludente rispetto alle proprie capacità diplomatiche. Winston Churchill definì l’avvocato di Washington come “un puritano austero, una grossa faccia bianca ed occhialuta con una traccia di bocca”, mentre Sir Anthony Eden, Primo Ministro del Regno Unito, sentiva “di non essere in grado di lavorare in sua presenza”.
[sta_anchor id=”john-fitzgerald-kennedy” unsan=”John Fitzgerald Kennedy”]John Fitzgerald Kennedy[/sta_anchor] tra Cuba, Berlino ed il Vietnam
Passando dalla presidenza Eisenhower a quella del democratico John Fitzgerald Kennedy (dal 1961 al 1963) non può non essere anzitutto menzionato un altro episodio in netta contraddizione con il Wilsonismo dilagante in America: l’assalto fallimentare alla Baia dei Porci (17-19 aprile 1961) per sovvertire il regime cubano comunista di Fidel Castro ed Ernesto “Che” Guevara, frutto dei gravi errori di valutazione da parte della CIA (sotto segreto fino al 1998).
Contemporaneamente al disastro della Baia dei Porci, Kennedy dovette affrontare le minacce di Krusciov, dapprima nella crisi di Berlino (1958-1963) e successivamente nella cosìddetta “crisi dei missili” di Cuba nel 1962. In entrambi i casi, le crisi create da Krusciov, che avrebbero potuto concretamente causare l’escalation dei due blocchi continentali e l’inizio di una Terza Guerra Mondiale nucleare, non vennero concretizzate appieno dal leader sovietico se non per la costruzione del Muro di Berlino, con cui la città venne divisa fino al 1989 per bloccare il flusso di cittadini che da Berlino Est fuggivano diretti verso il settore occidentale della città.
Infine, intraprese un altro rischioso piano prima della sua morte prematura, che risultò determinante non solo per il corso della storia recente statunitense, quanto per l’intera umanità: la guerra in Vietnam, un conflitto che avrebbe coinvolto tre presidenze diverse (Kennedy, Johnson e Nixon) in un periodo storico nel quale avrebbero avuto un enorme impatto la contestazione giovanile del ’68 e la radicalizzazione dei movimenti pacifisti.
Durante l’amministrazione Kennedy e la “presidenza” di Diem nel Vietnam del Sud, gli Stati Uniti si dedicarono molto a guidare il paese sudvietnamita in un processo di nation-building tale da poter creare un’entità politica solida, basata sui principi democratici e sulla libertà di mercato e capace di poter sconfiggere i nord-vietnamiti di Ho Chi Minh riducendo al minimo (se non evitando del tutto) le perdite per Washington.
Tale progetto venne sostenuto tramite l’erogazione di fondi, con la creazione di infrastrutture nel territorio sud-vietnamita grazie all’ausilio di personale tecnico statunitense presente sul posto e, infine, tramite l’invio di armamenti e l’addestramento militare dell’esercito locale.
“Like his predecessors, Kennedy considered Vietnam a crucial link in America’s overall geopolitical position. He believed, as had Truman and Eisenhower, that preventing a communist victory [..] was a vital American interest. [..] In short, Kennedy agreed with the two previous administrations that defending South Vietnam was essential to the overall strategy of global containment.” (Henry Kissinger, Diplomacy)
Il problema in questo ambizioso e importante piano di Kennedy, analizzabile con l’ausilio di Kissinger, si può sintetizzare constatando “come il Vietnam non fosse l’Europa”: l’Europa impiegò secoli per creare, solidificare e cementificare le proprie tradizioni storiche, culturali e politiche e, anche a seguito di due conflitti mondiali, l’intervento del Piano Marshall e della NATO da parte degli americani permisero ad un continente comunque abituato a tali aspetti di risollevarsi in modo graduale. Diversamente il Vietnam del Sud era privo di taluno degli aspetti finora menzionati e non avevano lo stesso tempo a disposizione per essere “americanizzati”.
Nemmeno Kennedy, nonostante la premessa kissingeriana, dedicò abbastanza tempo per gestire passo dopo passo il processo di nation-building del Vietnam del Sud. La sua attenzione era infatti rivolta quello che stava avvenendo a Berlino, al punto che la stabilità del paese, ad un certo punto, venne messa in discussione sia dalla guerriglia messa in atto dal Vietnam del Nord che dallo stesso Diem, l’uomo che gli Stati Uniti avevano sostenuto attivamente negli anni precedenti. Nel 1963, l’atteggiamento sprezzante e del tutto estraneo ai “valori democratici” di Diem assunse toni e modi dittatoriali nel reprimere con spietatezza le richieste religiose della comunità buddista locale, un atteggiamento che non venne tollerato dalla politica statunitense. Il 29 Agosto 1963, in un telegramma che l’ambasciatore statunitense nel Vietnam del Sud Henry Cabot Lodge Jr. (1902-1985) inviò al Segretario di Stato della presidenza Kennedy Dean Rusk in riferimento allo stato di crescente instabilità politica sudvietnamita, egli disse:
“[..] In a more fundamental sense, there is no turning back because there is no possibility in my view, that the war can be won under the Diem administration”
(Henry Cabot Lodge Jr., 26 Agosto 1963 , tratto da Mike Gravel, The Pentagon Papers: The Defense Department History of United States decision-making on Vietnam, 1971)
Kennedy quindi lasciò Diem al proprio destino, culminato con il colpo di stato del 1 Novembre 1963 e la sua successiva esecuzione. L’uccisione di Diem tuttavia non fece altro che peggiorare la situazione: con la sua rimozione, infatti, erano stati eliminati quei pochi progressi ottenuti nello sforzo congiunto della politica statunitense e del dittatore sudvietnamita, gettando il paese nel caos:
“The coup destroyed the structure that had been built up over a decade, leaving in its place a group of competing generals without political experience or political following”
(Henry Kissinger, Diplomacy)
[sta_anchor id=”la-guerra-in-vietnam” unsan=”La guerra in Vietnam”]La guerra in Vietnam[/sta_anchor] tra Lyndon Johnson e Richard Nixon
A seguito dell’assassinio a Dallas di Kennedy, la guida degli Stati Uniti d’America passò al nuovo Presidente Lyndon B. Johnson (1908-1973), la cui presidenza avrebbe visto un ruolo più attivo degli Stati Uniti (con tragiche conseguenze) nella guerra in Vietnam.
Nell’Agosto 1964, un incidente navale presso il golfo di Tonchino scaturì nel perfetto casus belli per l’entrata in guerra degli Stati Uniti a fianco del governo sudvietnamita. Una guerra che in undici anni e sotto due diverse amministrazioni (Johnson e Nixon) mostrò come la nazione avesse imparato ben poco dalla disastrosa esperienza in Corea del 1950: la guerra di logoramento infatti si ripresentò all’apparato militare statunitense che si ritrovò, di nuovo, non abbastanza preparato ad affrontare, nella vastissima giungla che caratterizzava il territorio, le tattiche dei guerriglieri vietcong.
I bombardamenti a tappeto con il napalm degli aerei statunitensi non piegarono la tempra dei nord-vietnamiti, pronti anche a pagare un prezzo enorme in termini di vite umane (tre milioni e centomila le vittime tra soldati e civili). Gli Stati Uniti avrebbero perso infatti oltre cinquantottomila uomini, con oltre trecentotremila feriti ed oltre millesettecento soldati dispersi trasformando il Vietnam nella più grande disfatta della storia dell’esercito degli Stati Uniti d’America.
Ma la guerra non venne decisa unicamente sul fronte vietnamita: lo scontro infatti si giocò anche sul suolo statunitense ed ebbe un ruolo altrettanto determinante per gli esiti del conflitto. Per la prima volta, ad esempio, i mass media ebbero un ruolo fondamentale nel coinvolgere, informare e probabilmente sconvolgere l’opinione pubblica mondiale con la quotidiana trasmissione dei reportages bellici dal Vietnam: i servizi presentati da anchormen televisivi come Walter Cronkite (1916-2009) resero la guerra del Vietnam uno dei primi conflitti ad essere trasmessi in televisione dai tempi del dopoguerra e rappresentarono uno dei primi casi di spettacolarizzazione del male.
Anche la politica giocò un altro ruolo fondamentale: il presidente Johnson infatti si ritrovò a dover fare i conti con numerose defezioni all’interno della propria squadra di governo, con funzionari e collaboratori di grande esperienza e competenza provenienti dalla precedente amministrazione Kennedy, quella che creò le condizioni per l’intervento bellico statunitense, che abbandonarono le loro posizioni iniziali per unirsi alla intelligentsia delle università e dei colleges (Walter Lippmann fu un esempio lampante).
Infine, come combinazione finale o trait d’ union dei due elementi precedentemente menzionati, l’intervento delle nuove generazioni, lontane o toccate marginalmente tanto dal secondo dopoguerra quanto dalla guerra di Corea e legate alle contestazioni studentesche del 1968, ai movimenti pacifisti e per i diritti civili (la questione della segregazione razziale si sarebbe tramutata con un approccio ancor più radicale con il Black Panther Party), che chiedevano a gran voce di riportare i propri soldati a casa.
Fu quindi l’insieme di tutti i fattori ivi menzionati che portarono gli Stati Uniti d’America alla sconfitta e la resa con il Vietnam del Nord. Un insieme che a sua volta deve però prendere in considerazione anche gli anni delle amministrazioni da Truman a Kennedy: considerando soltanto l’intero periodo storico dal 1946 al 1975 si può giungere alla conclusione che, ancora una volta, fu l’approccio “wilsonista” a risultare, l’errore più grave degli Stati Uniti d’America perchè privò la Nazione, in nome di supposti principi morali e di una discutibile superiorità ideale (o ideologica), di una concreta e pragmatica soluzione di un conflitto causato dalle scelte a loro volta viziate dal solito sensazionalismo statunitense.
La fase finale della guerra in Vietnam, con il conseguente ritiro delle truppe statunitensi dal Vietnam del Sud a seguito degli Accordi di Parigi del 1972, vide il passaggio di testimone tra Lyndon Johnson, che nel 1969 non si ricandidò per un secondo mandato, al repubblicano Richard Nixon. Nelle mani di Nixon passò la parte ancor più difficile, tragica e traumatica della guerra in Vietnam, che contribuì a renderlo ancora più inviso alla popolazione (anche oggi risulta uno dei Presidenti più odiati dell’intera storia statunitense): la resa, la consapevolezza cioè che persino l’esercito degli Stati Uniti potesse essere sconfitto.
[sta_anchor id=”richard-nixon” unsan=”Richard Nixon”]Richard Nixon[/sta_anchor], ovvero l’uomo della distensione
“Incongruously the president most admired by Nixon – whose own maxims were anything but Wilsonian – was Woodrow Wilson himself.” (Henry Kissinger su Richard Nixon, Diplomacy)
Un unicuum nella storia politica statunitense (almeno fino all’arrivo di Donald Trump) in quanto parzialmente capace di distaccarsi dal pensiero Wilsonista, il neoeletto Presidente degli Stati Uniti Richard Nixon (1913-1994) si ritrovò, a partire dal 1969, nella scomoda situazione di dover gestire le manovre militari compiute dal proprio predecessore nella disastrosa campagna militare vietnamita mentre da un anno lo scoppio delle contestazioni giovanili e del mondo degli studenti universitari (nonchè la nascita del movimento pacifista) vide l’attacco violento dei manifestanti nei confronti di Nixon stesso.
Dinnanzi a questo contesto “di partenza”, Nixon da una parte dichiarò pubblicamente in più occasioni come sarebbe stato suo compito quello di “raggiungere una pace onorevole“ contro il nemico vietcong guidato da Ho Chi Minh (un altro adepto della Realpolitik che, come Stalin, “non era disposto a cedere e fare concessioni ad un tavolo di trattative quando sapeva di poter ottenere i risultati di proprio interesse minacciando lo spargimento di sangue e l’uso della forza sul campo di battaglia“).
Contemporaneamente a ciò tuttavia, in sede privata protrasse la durata della guerra in Vietnam pianificando assieme al proprio Segretario di Stato Henry Kissinger, come ultima disperata mossa per cercare di risollevare le sorti della guerra vietnamita, l’espansione del conflitto nei territori del Laos e della Cambogia di Pol Pot, guida dei khmer rossi.
Pur rimanendo ispirato infatti dagli ideali del Wilsonismo, Nixon ritenne necessario agire negli interessi degli Stati Uniti, in un clima così politicamente instabile come quello della Guerra Fredda dove il pensiero comunista stava facendo proseliti in tutto il mondo.
“For Nixon the world was divided between friends and antagonists: between arenas for cooperation and those in which interests clashed. [..]
Nixon sought to navigate according to a concept of America’s national interest – repugnant as that idea was to many traditional idealists.
If the major powers [..] pursued their self-interests nationally and predictably, Nixon believed [..] that an equilibrium would emerge from the clash of competing interests.” (Henry Kissinger, Diplomacy)
Dopo aver raggiunto “la pace onorevole (per lui)” a lungo cercata con gli Accordi di Parigi del 1972 (che valsero il Premio Nobel per la Pace a Kissinger e l’omonimo nordvietnamita Le Duc Tho) e dopo aver saputo della caduta di Saigon (30 Aprile 1975), Nixon intraprese una linea d’azione politica nuova rispetto al passato: volle infatti rompere, anche alla luce dell’umiliante sconfitta subita in Vietnam, con la teoria del containment.
Approfittando della crisi sino-sovietica, giunta ad un punto critico nel quale l’escalation di un conflitto tra Mosca e Pechino poteva essere imminente, Nixon cercò di inserirsi per creare un clima disteso e normalizzato dapprima con il paese di Mao Tse-Tung (per questo si possono comprendere alcuni atti di natura unilaterale che gli Stati Uniti stipularono a favore della Cina) e successivamente con l’Unione Sovietica del Segretario Leonid Breznev.
Fu l’inizio del detente, la politica di distensione e graduale normalizzazione dei rapporti diplomatici tra gli Stati Uniti, la Cina e l’Unione Sovietica che caratterizzò la presidenza Nixon. Tra il 1971, anno nel quale il Segretario di Stato Henry Kissinger venne inviato in missione diplomatica segreta a Pechino, al Febbraio 1973, in cui venne sancita l’alleanza de facto tra i due paesi “contro qualsiasi tentativo, da parte di qualsiasi paese, di dominare il mondo”, si assistette alla ripresa delle relazioni sino-statunitensi che risultavano interrotte dai tempi dell’insediamento del regime comunista di Mao Tse-Tung successivo alla guerra civile contro i nazionalisti di Chiang Hai-Shek (1887-1975), e dall’intervento delle truppe maoiste nella guerra di Corea.
Tale mossa si rivelò essere azzeccata per Nixon poichè di lì a poco, una volta normalizzati i rapporti con la Cina, l’Unione Sovietica si ritrovò costretta, per non rimanere isolata nel contesto internazionale, ad avviare negoziati distensivi con gli statunitensi.
Ma la dottrina Nixon venne applicata anche nel Medio Oriente, dove tra il 1969 ed il 1975 gli Stati Uniti agirono per ridurre l’influenza dell’Unione Sovietica nella regione (i sovietici erano i maggiori fornitori di armi di paesi arabi come l’Egitto e la Siria).
Allo scoppio della guerra del Kippur (6-25 ottobre 1973), dove le truppe israeliane sconfissero, dopo un’iniziale avanzata egiziana, la coalizione araba guidata da Egitto e Siria sostenuta dall’Unione Sovietica, seguirono i negoziati per il disarmo delle due forze combattenti (1975) e gli accordi di Camp David del 17 settembre 1978 che vennero moderati dal nuovo Presidente statunitense Gerald Ford, insediatosi alla Casa Bianca al posto del dimissionario Nixon, coinvolto nello scandalo Watergate.
Quale politica più contraddittoria di quella in cui Kissinger si erse ad indiscusso “mediatore” tra gli israeliani e gli arabi laddove il suo Paese aveva sostenuto economicamente e militarmente (come già accaduto in passato) lo stato ebraico nato nel 1948 dall’impeto autonomo di David Ben-Gurion e nell’indifferenza dell’opinione mondiale e delle Nazioni Unite?
Lo stesso Kissinger che, a coronamento dell’ipocrisia statunitense in riferimento ad una politica basata sui valori ideali e teorici del Wilsonismo ma applicata come il più conservatore degli Stati europei del tardo Ottocento, si rese responsabile assieme al Presidente Nixon (ma anche in seguito con Ford) di azioni di sabotaggio, sovversione e repressione nonchè del finanziamento e del supporto logistico di colpi di stato ad opera di organizzazioni stay-behind* con il placet della C.I.A e nel massimo riserbo dal far circolare informazioni all’opinione pubblica interna, come avvenne nell’ambito della pianificazione dell’Operazione Condor in America Latina o dell’invasione di Timor Est da parte dell’Indonesia di Suharto nel 1975 e nel sostegno ad organizzazioni come Gladio.
Guglielmo Vinci per www.policlic.it
Stay-behind = Nel gergo politico e d’intelligence, l’espressione intende la presenza di un’organizzazione paramilitare creata da un ente o da uno Stato stesso all’interno del proprio territorio per essere pronta ad entrare in azione in casi di emergenza.