Molto si potrebbe dire in merito alla politica interna e ai movimenti socioculturali di riferimento dei cittadini inglesi che hanno consentito – seppur per una modesta maggioranza – di intraprendere quell’inesorabile e faticosissima separazione del Regno Unito dalla membership europea. È storia ben nota quella della singhiozzante partecipazione inglese al processo di integrazione europea, specialmente se si considerano le materie più sensibili, come quelle legate alla moneta, al mercato unico e alla difesa.
D’altronde, il Regno Unito, che comprende Inghilterra, Scozia e Irlanda del Nord, è anche geograficamente slegato dal continente. In più, la peculiare storia e la postura geopolitica non consentono di classificare il Paese come pienamente europeo. È dovuto forse a tali aspetti il fatto che questo sia stato il primo Stato membro dell’UE ad auspicare un cambiamento di rotta: recedere, come previsto dall’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea, e come emerso dal referendum consultivo del 23 giugno 2016 indetto dal partito conservatore e dall’allora premier David Cameron.
L’accordo di recesso è entrato in vigore il 1º febbraio 2020, accompagnato da un protocollo su Irlanda e Irlanda del Nord[1], insieme alla dichiarazione politica che definisce un generico quadro delle future relazioni tra UE e Regno Unito. Tuttavia, nonostante le numerose riunioni ai più alti livelli di rappresentanza e circa nove cicli negoziali, non è stata ancora definita in modo specifico la natura del nuovo rapporto tra i due.
Gli effetti che la Brexit porta in dote alla City di Londra e all’intero Paese toccano inevitabilmente diversi aspetti: economici, finanziari, sociali, culturali, amministrativi, finanche strutturali e costituzionali. Nel presente contributo si cercherà di delineare i principali cambiamenti che si prospettano per il Regno Unito nel panorama urbano, nel contesto economico e nell’assetto geopolitico del Paese in relazione alle altre nazioni europee.
Le incertezze economiche delle città inglesi
Una più specifica analisi[2] del voto del referendum rileva come a votare per il leave siano stati per lo più i grandi centri urbani delle Midlands e i vecchi distretti industriali delle Midlands Occidentali (59,3%) e Orientali (58,5%). Queste aree geografiche hanno infatti vissuto negli anni degli intensi processi di deindustrializzazione e smantellamento di grandi comparti produttivi, conseguenza delle politiche neoliberiste di origine thatcheriana, che pure la stessa UE ha negli anni sostenuto. Tali ricette economiche hanno comportato alti tassi di disoccupazione e povertà rispetto alla media nazionale.
Con l’inizio del nuovo secolo queste stesse città hanno lavorato faticosamente per ovviare al problema e affinché venissero creati nuovi e numerosi posti di lavoro, sebbene la natura di questo lavoro si sia rivelata poco qualificata. Ciò, presumibilmente, ha esacerbato la sensazione che tali centri siano rimasti esclusi dalla globalizzazione. Oggi, tuttavia, proprio le città con alti livelli di occupazione nel settore privato dei servizi ad alta professionalizzazione e qualifiche – come Reading, Londra e Edimburgo, che vantano i maggiori settori economici e finanziari – rischiano di essere più di altre penalizzate dalla Brexit[3].
Infatti, è opinione diffusa tra i politologi e gli economisti che proprio la Brexit peggiorerà la situazione, poiché tali città dovranno amministrare le proprie risorse facendo meno affidamento sulle entrate del governo, e dunque sulla sua capacità di spesa, a fronte di una minore crescita economica complessiva. A ciò si aggiunga la necessità che molte città periferiche lavorino per un aumento qualitativo delle competenze e dell’istruzione, al fine di diminuire il deficit educativo presente tra le regioni del Paese. È noto infatti come la forza lavoro qualificata sia fondamentale per il successo economico di uno Stato, nonostante mostri i suoi effetti in un lasso di tempo medio-lungo.
Un altro elemento da considerare è la diminuzione dei flussi migratori dall’Unione Europea al Regno Unito, i quali potrebbero subire una flessione ancora maggiore con la fine dell’emergenza sanitaria. Questo comporterebbe una ulteriore riduzione della forza lavoro qualificata – statisticamente maggiore tra i migranti rispetto a quella garantita dalla popolazione residente – specialmente in città come Londra e in quelle del Greater South East. Un problema sottolineato dal fatto che già in seguito al referendum del 2016 si è assistito a un significativo calo degli investimenti delle imprese nello sviluppo di forza lavoro[4].
È indubbio che a seguito del referendum sulla Brexit sono state molte le economie regionali in subbuglio. Se le grandi città non hanno immediatamente subìto tale problematica, molti centri urbani e distretti più periferici hanno sofferto un’importante diminuzione degli investimenti economici. È stato così previsto un nuovo ciclo di strategie industriali locali per portare a un riequilibrio dell’economia del Regno Unito con un focus importante sugli investimenti nei nuovi settori in crescita nei prossimi decenni.
Approfittando di una amministrazione meno legata a vincoli e normative esterne, molte città aspirano ora a un’economia più forte, più territoriale, focalizzata sull’economia verde a basse emissioni di carbonio e su quella circolare. Altre ancora vorrebbero che gli investimenti, diretti a un miglioramento dell’economia nel suo complesso, si concentrassero su un incremento di competenze e infrastrutture[5].
A dispetto di qualunque analisi specifica, la Brexit pone quattro sfide dirette alle questioni subnazionali, regionali e urbane[6]. La sfida economica riguarda le diseguaglianze interregionali del Regno Unito, che si prospettano ancora maggiori di quanto non siano attualmente, qualora la politica di decentramento amministrativo in favore delle realtà locali non venga gestita in modo virtuoso. La sfida politica è, in questo senso, evidente: la corretta gestione delle risorse da parte delle forze politiche in campo. Così come lo è la sfida relativa alla governance, poiché porta alla luce la difficoltà di coniugare la politica di devolution con la gestione centralizzata del potere e delle decisioni più sensibili per l’economia e la tenuta sociale del Paese. L’ultima sfida – una sintesi delle due precedenti – è quella istituzionale, dal momento che l’assetto governativo nazionale e subnazionale del Regno Unito è mal progettato e scarsamente attrezzato per affrontare le problematiche locali e regionali determinate dalla Brexit.
Un’altra conseguenza di questa evoluzione del contesto urbano è lo spostamento del potere amministrativo dal centro, Westminster, alle realtà più periferiche. Si può notare come ciò stia già avvenendo per ragioni squisitamente economiche: le casse del Comune di Londra, infatti, si sono notevolmente impoverite, a giudicare dalla decisione del sindaco laburista Sadiq Khan di alleggerire la spesa pubblica, trasferendo il quartier generale del Municipio dal famoso edificio in vetro e acciaio a forma di vela, opera del noto architetto Norman Foster e simbolo di modernità e innovazione. Il Municipio, commissionato venti anni fa e situato vicino al Tower Bridge, sulla sponda sud del Tamigi, ora è destinato a spostarsi più in periferia, assieme agli oltre mille impiegati della struttura amministrativa. Il trasloco è previsto per la fine del 2021 nella struttura Crystal, precedentemente sede londinese di Siemens, nell’East End.
L’edificio dove attualmente opera il Municipio è di proprietà di un fondo del Kuwait, a cui viene versato un canone annuale di 11 milioni di sterline in base a un contratto in scadenza proprio l’anno prossimo. Secondo un portavoce di Khan, il risparmio per il Comune ammonterà a sessanta milioni di sterline nei prossimi cinque anni. Di questo risparmio si avrà certamente bisogno per far fronte alla crisi conseguente all’emergenza pandemica, che ha investito il Regno Unito non meno di altri Paesi. Una sfida, quella della più corretta amministrazione locale sotto il profilo gestionale ed economico, portata avanti da un partito antagonista a quello che guida il Paese con Boris Johnson, e che tenta di far valere dinamiche che rispondano in modo differente alla crisi rispetto a quelle adottate dal premier conservatore.
Mercati finanziari e assicurativi
Anche la City di Londra ha vissuto negli ultimi anni un cambiamento strutturale che investe tanto le grandi compagnie, la grande finanza e gli interessi che questa muove, quanto la città in sé, il suo mercato del lavoro nel settore finanziario e i singoli uffici che, prima della Brexit, erano operanti nel Regno Unito. Ancor prima del referendum, infatti, la possibilità di un voto per la Brexit ha creato sconvolgimenti nel mondo della finanza. Molti si sono chiesti, in preda a dubbi e incertezze, cosa ne sarebbe stato della City, centro finanziario della città sin dal XIX secolo – nonché tra i più importanti a livello globale, insieme alla Borsa di New York, di Francoforte, di Singapore – e cuore pulsante del commercio di obbligazioni europee, del mercato valutario e di quello assicurativo.
In generale, le compagnie finanziarie con sede nel Regno Unito hanno finora operato nel resto dell’UE attraverso il passaporto, un sistema legale che consente alle istituzioni finanziarie con sede in una nazione europea di operare anche in tutte le altre, svolgendo le proprie attività all’interno del mercato unico. Il sistema del passaporto è però legato a un accordo tra Paesi facenti parte dell’Area Economica Europea (EEA), accordo che dà la possibilità di rimanere membro pur recedendo dai trattati europei. Quest’ultimo rimane tuttavia legato alla sottoscrizione delle quattro libertà fondamentali (circolazione di merci, capitali, servizi e persone) su cui si basa l’intero sistema dell’UE. Di conseguenza, rimanere all’interno del solo accordo EEA senza condividere anche la membership europea diminuisce sensibilmente il potere di interdizione del Regno Unito, specialmente nell’emanazione di leggi e standard comuni[7]. L’alternativa che si profila nel settore dei mercati finanziari potrebbe essere un patto bilaterale UE-Regno Unito che regolamenti la relazione tra i due partner economici. O, ancora, un altro espediente legale, quello del sistema di equivalenza negli standard.
Al netto di ciò, e date le premesse fin qui esplicate, molte società finanziarie stanno prendendo provvedimenti sulla gestione futura dei propri uffici. Infatti, stando al Brexit Tracker della società di consulenza EY, queste hanno già trasferito in altri Paesi UE oltre 7.500 posti di lavoro e asset dei clienti europei, per un valore di 1,2 trilioni di sterline; inoltre, secondo il report di EY, che monitora 222 società finanziarie tra quelle che hanno significative attività in Gran Bretagna, solo nel mese di ottobre sono stati annunciati 400 trasferimenti.
Com’è noto, Londra è anche un importante punto di riferimento globale per il settore assicurativo, tra i più grandi d’Europa e di poco distante dalle performance dei mercati assicurativi presenti in USA, Giappone e Cina. Questo settore è di grande importanza per le prestazioni economiche inglesi, contribuendo per 1,9 trilioni di sterline in investimenti (25% del reddito totale del Regno Unito). Inoltre, genera entrate per circa 13 miliardi di sterline e impatta sul PIL britannico per un totale di 25 miliardi annui[8].
Non essendoci allo stato attuale alcuna garanzia sulla tenuta del sistema – per come fino ad oggi questo ha operato – le compagnie assicurative si stanno premurando di organizzarsi in altri Paesi europei per evitare di perdere i propri clienti e asset strategici.
Si noti, a tal riguardo, che la grande Lloyd’s of London, che opera come mercato assicurativo, ha dichiarato la volontà di convertire la propria sede di Berlino in una sede sussidiaria di quella inglese, come molte altre compagnie, proprio in risposta alla Brexit. Anche la compagnia di assicurazione AIG (American International Group), che ha sede a New York e opera in Europa dai suoi uffici inglesi, dopo la Brexit avrebbe valutato di trasferire in Lussemburgo gli uffici operativi in UE, così da ovviare al rischio di perdere i propri partner commerciali nel continente[9]. Questo ha ricadute in termini strategici sul fatturato, sull’attrattività economica del Regno Unito e sui posti di lavoro potenzialmente a rischio.
La conclusione cui si giunge è dunque incerta, e le sorti della finanza e del mercato assicurativo inglese dipenderanno da come si concluderanno i negoziati: con il sistema passaporto, con quello di equivalenza o, in mancanza di un accordo bilaterale, con le regole poste dall’Organizzazione mondiale del commercio. È tuttavia evidente come, nell’incertezza dei mercati, le compagnie si stiano adoperando per spostare sedi, uffici e personale in Europa[10].
Aziende e think tank lasciano il Regno Unito
La realtà imprenditoriale del Paese rileva che un gran numero di aziende, a partire dal referendum del 2016, ha valutato di trasferire i propri uffici o potenziare le sedi sussidiarie in Europa – o ben oltre il continente – annunciando inoltre piani per tagliare posti di lavoro nel Regno Unito. La lista è lunga e articolata e riguarda anche colossi dell’economia inglese pur apertamente schierati a favore della Brexit, come la compagnia Dyson di Sir James Dyson.
Anche lo European Council on Foreign Relations, noto think tank dalle prospettive paneuropee fondato nel 2007, sta ridimensionando le sue operazioni a Londra, ‘’in quanto rimanere nel Regno Unito non è più ‘opportuno’ a causa della Brexit’’. In Europa, il più grande ufficio dell’Istituto aveva sede proprio a Londra ma, stando alle nuove direttive, si trasferirà in una sede più piccola; saranno inoltre potenziati gli uffici di Berlino e Parigi e il senior management team verrà diviso tra Berlino e Londra. Al fine di svolgere le proprie analisi sulle relazioni dell’UE con Cina e Medio Oriente, il think tank punta a espandere la propria presenza in particolar modo in Germania, prospettando che questa possa essere il perno della politica estera e di sicurezza europea.
Pare dunque Berlino il nuovo polo di attrazione degli investimenti (economici, finanziari e culturali) da parte degli attori che prima della Brexit, ma anche prima degli USA di Trump, si lasciavano attrarre dal fascino atlantista. Curioso come proprio il 1° luglio 2020 sia stata la data di inizio della presidenza tedesca del Consiglio dell’Unione Europea, che terminerà il 1° luglio del 2021: un lasso di tempo che ingloba proprio le incerte trattative per la chiusura delle relazioni tra UE e Regno Unito e che vedrà Berlino presiedere l’organo che, precisamente, voterà per l’atteso accordo conclusivo della Brexit.
Brexit e devolution: quale sarà la nuova governance post-europea?
Diversi sono i rapporti pubblicati sull’impatto economico della Brexit. Si considerino ad esempio le analisi prodotte dal National Institute of Economic and Social Research, dall’iniziativa The UK in a Changing Europe o dall’Institute for Government. Tutte giungono alla stessa conclusione: sebbene attraverso scenari diversi, negli anni che verranno è previsto un significativo calo del PIL del Regno Unito. Procedere alla separazione con un no-deal, come si prospetta, avrebbe ricadute molto più gravi in termini economici di quelle che il Regno Unito sta subendo e subirà a causa delle restrizioni anti-COVID. Secondo un modello realizzato dalla London School of Economics (LSE), il Paese dovrà fronteggiare una riduzione pari a circa l’8% del proprio PIL per quindici anni,
mentre il raggiungimento dell’accordo di libero scambio con l’Unione Europea porterebbe la Gran Bretagna a una perdita del 4,9%[11].
Tuttavia, solo lo studio condotto dall’Institute for Government assume una prospettiva geografica, esaminando come l’impatto della Brexit potrebbe variare nelle diverse regioni del Regno Unito, data la diversa concentrazione di alcune industrie. A tal proposito, le città che stavano lottando prima della Brexit non avranno giovamento. I luoghi che hanno sofferto negli ultimi venti o trent’anni non diventeranno più attraenti a seguito della Brexit, poiché ci sono questioni economiche più ampie che queste città dovranno affrontare indipendentemente dal fatto che il Regno Unito sia dentro o fuori dall’UE. Questo è particolarmente importante in relazione allo Shared Prosperity Fund, che sostituirà i finanziamenti dell’UE dopo la Brexit. Attraverso il fondo, i deputati all’amministrazione delle città potranno godere di una maggiore flessibilità nella gestione delle finanze pubbliche affinché queste rispecchino realmente le necessità locali[12].
Subito dopo la Brexit, infatti, le prime proposte politiche per sostituire i finanziamenti dell’UE al Regno Unito sono state delineate da James Brokenshire, membro del partito conservatore, con i piani per lo UK Shared Prosperity Fund. Questo meccanismo di finanziamento si rivelerebbe un’utile opportunità per agire in modo da ridurre le disuguaglianze tra le comunità, e ciò è particolarmente significativo per il futuro dei centri urbani. Infatti, circa due quinti della popolazione britannica vive in città, e proprio queste ultime appaiono notevolmente trascurate dalla politica pubblica degli ultimi decenni[13]. Un elemento che porta con sé un legame con il voto della Brexit, definibile come “voto di malcontento”. A tal proposito, i dati OCSE rivelano come il Regno Unito sia la quinta società con più diseguaglianze in termini di reddito in Europa[14]. Le disuguaglianze interregionali del Regno Unito sono infatti tra le peggiori nel mondo industrializzato e la maggior parte degli studi pubblicati suggerisce che dopo la Brexit queste disparità siano destinate ad aumentare[15]. In più, è probabile che le città che maggiormente hanno espresso il proprio voto di malcontento contro questo genere di negligenze siano quelle che maggiormente subiranno gli effetti della Brexit, soprattutto nel settore turistico, commerciale e agricolo[16].
Lo Shared Prosperity Fund è un’occasione per l’intero Paese di realizzare meccanismi di finanziamento che avvicinino le esigenze economiche regionali alle comunità di riferimento e incentivino la partecipazione attiva di queste ultime nello sviluppo di nuove strategie di sostegno all’economia urbana, con il supporto del governo e delle amministrazioni locali.
La politica di devolution, la cui prima attuazione risale al 1998 con le riforme costituzionali dello Scotland Act, il Government of Wales Act e altre riforme per Irlanda del Nord e la “Grande Londra”, è una “formula di ampio spettro istituzionale che pone in discussione la tradizionale concezione dello Stato unitario”. Questa si concretizza in un “sistema di trasferimento di poteri costituzionali alle aree substatali che instaura un processo altamente dinamico suscettibile di molti sviluppi nei rapporti tra istituzioni centrali e istituzioni devolute, le cui evoluzioni possono sconfinare nella federalizzazione o confondersi con il regionalismo”[17].
Il tema della devolution e delle “competenze di ritorno” è rilevante anche da un punto di vista costituzionale, oltre che da quello delle relazioni intergovernative e dell’assetto territoriale del Regno Unito. L’attuale Paese è profondamente diverso dallo Stato unitario che nel 1973 fece il suo ingresso nell’Unione Europea, soprattutto se si considerano gli intensi anni di “influenza normativa” europea. Il Regno Unito è infatti definito uno “‘Union State’ composto da quattro ‘Nations’, tre delle quali si caratterizzano per un forte decentramento di poteri secondo il modello asimmetrico”[18]. A seguito del referendum del 2016, oltre che dalla perdita dei benefici dati dai fondi europei e dal mercato unico, il dibattito è stato esacerbato anche dalle tensioni con nordirlandesi e scozzesi, molto più propensi a continuare l’esperienza europea.
In più, la discussione ha riguardato l’allocazione delle materie fino ad allora di competenza dell’UE (sul piano esterno) e delle entità decentrate (su quello interno), come commercio, agricoltura, pesca e ambiente[19]. Si capisce bene come sia urgente la necessità di sostituire il “common framework europeo” con un “British common framework” che salvaguardi il mercato interno del Paese, l’opportunità di introdurre delle regole condivise tra governo centrale e governi delegati e la possibile ridefinizione delle norme per la distribuzione delle risorse[20].
Un tale accordo, tuttavia, oggi pare non solo assente ma anche particolarmente complicato da raggiungere; la forma costituzionale stessa del Regno Unito non è d’aiuto, essendo quella inglese una costituzione non scritta e, quindi, non rigida.
La nuova geopolitica del Regno Unito
Il fatto che il Regno Unito lasci l’UE, e al netto dei cambiamenti strutturali che il Paese sta vivendo e con i quali si interfaccerà ancor di più a partire dal 2021, ha delle conseguenze particolarmente rilevanti anche sulla geopolitica del Paese e sulle relazioni internazionali nella loro più ampia accezione.
Va anzitutto sottolineato come la Brexit sia un’esperienza senza precedenti: l’UE non ha mai negoziato il recesso di un suo membro prima d’ora. Questo già di per sé rappresenta una sfida all’intera idea di integrazione europea, specialmente nell’ottica di un processo inarrestabile. Un fatto che indebolisce il soft power europeo, che è da sempre un perno inattaccabile della propria azione esterna. A questo punto, tra le varie conseguenze si profila proprio il dubbio sulla tenuta dell’unità europea, che è stata minata ancor di più, almeno inizialmente, dalla pandemia di coronavirus. Tuttavia, tra negoziati e trattative, quest’unità sembrerebbe oggi divenire sempre più una condizione irrinunciabile per la stabilità delle economie e delle buone relazioni sociopolitiche tra Paesi membri.
È comunque possibile che l’UE, pur avendo perso un suo membro e malgrado i dubbi sulla propria unità, possa rafforzare la propria natura geopolitica. Infatti, nel momento in cui il Regno Unito opererà al di fuori dell’UE, i suoi appelli e le sue decisioni saranno verosimilmente limitati, andando così a rafforzare le posizioni europee. Gli stessi centri del potere europeo potrebbero cambiare: la posizione sempre più forte assunta da Berlino potrebbe rinsaldare anche la relazione tra Francia e Germania, le quali operano congiuntamente e sinergicamente sin dagli anni Sessanta, con la firma del Trattato dell’Eliseo, e ancora oggi con il Trattato di Aquisgrana (2019) che ne ribadisce obiettivi e strategie. Da sottolineare, a tal riguardo, come il Regno Unito abbia sempre agito da calmiere nel rapporto tra le due nazioni.
Si potrebbe però obiettare che una Germania che vede il ritiro di un convinto partner nella tenuta del libero mercato, nonché storico fautore di quest’ultimo, sarebbe un Paese indebolito e circondato da nazioni meno legate alla difesa di tali ricette economiche. Così, il centro politico e geografico dell’UE potrebbe spostarsi verso est e verso sud[21]. Senza contare che l’UE perderà un contributore netto al bilancio comunitario per 8-9 miliardi di euro; questo porterà le istituzioni europee a ridurre i fondi di coesione, il che avrà un forte impatto sulle regioni e i Paesi più poveri.
Inoltre, l’assenza di Londra dalle trattative europee allontana la possibilità che gli USA si interessino alle faccende d’oltreoceano. Un interesse, quello statunitense, che giova ad esempio all’Italia, specialmente per quanto concerne l’influenza nell’area del Mediterraneo, dati i non sempre felici rapporti con l’asse franco-tedesco. L’uscita del Regno Unito ridurrà inevitabilmente l’impegno statunitense per ciò che riguarda la sicurezza europea e questo porterà Londra a non ricoprire più il suo ruolo di “ponte” tra le due sponde dell’Atlantico. Al contrario, rafforzerà la sua storica “special relationship” con gli USA, mentre questi tratteranno probabilmente con più facilità con i singoli Paesi europei, e non già con l’UE nel suo complesso. Questo, tuttavia, è tutto da vedere in funzione dell’insediamento della nuova presidenza Biden e dell’impostazione che intenderà dare alla leadership della NATO. Si prospetta, comunque, una maggiore dipendenza strategica dell’UE dagli USA in tema di difesa.
I temi caldi, come in tutte le fasi storiche, sono molti: la Cina e la sua avanzata economica, i vari conflitti a carattere locale, l’emergere del ruolo di medie potenze – si pensi alla Turchia, a Israele, all’Iran, e poi ancora alla Russia. In un simile scenario, un’Europa che opera senza il Regno Unito è alquanto difficile da immaginare[22]. Senza considerare la necessità di includere Londra nelle discussioni più rilevanti in tema di politica di sicurezza, così da non far perdere all’Occidente nel suo insieme la sua identità e forza di interdizione verso altri attori internazionali. Ciò che infatti preoccupa, in un mondo così complesso e ulteriormente aggravato dalla pandemia ancora in atto, è l’assenza di un accordo politico, e poi commerciale, tra Londra e Bruxelles. Si necessita di un accordo su temi e valori fondamentali, quali sicurezza, diritti umani, libertà civili ed economiche. Tutti elementi che, a dispetto di un’assenza del Paese nel mercato unico, sigillerebbero un insieme di valori comuni imprescindibili e una connessione identitaria che trascende le istituzioni europee.
Senza il Regno Unito, in sostanza, l’Europa si impoverisce anche quando – come si è visto nei paragrafi precedenti – questa mantiene una certa attrattiva economica e culturale: verrebbe comunque a mancare quella vocazione atlantista che l’asse franco-tedesco non potrebbe certamente garantire. D’altro canto, si impoverisce per certi aspetti anche il Regno Unito, e non solo dal punto di vista delle relazioni economiche con i Paesi vicini, ma anche di quelle storiche, identitarie, culturali e relative alle risorse materiali e immateriali fino a poco tempo fa condivise.
Il cambiamento in atto nel Regno Unito è indubbiamente frutto di una speranza di miglioramento. A un’analisi più approfondita, tuttavia, è possibile valutare come sarebbe stato proficuo ricercare tale miglioramento internamente, nelle istituzioni europee o tra le proprie fila, attribuendo le dovute responsabilità agli attori che hanno contribuito a creare un simile clima di malcontento.
E se per migliorare bisogna cambiare, allora il Regno Unito sarà un avanguardista e forse il Paese con la più giusta postura internazionale per poter risultare vincente in una sfida di così grande portata. Ma risulta difficile, ad oggi, pensare che l’Unione Europea e il Regno Unito possano affrancarsi dal percorso comune portato avanti sinora, e magari dirsi soddisfatti al riguardo, con la sola firma di un ultimo accordo di commiato.
Camilla Zecca per www.policlic.it
Note e riferimenti bibliografici
[1] Si è rivelato uno scoglio importante il confine tra Irlanda del Nord ed Éire, costato “la testa” dell’ex premier britannica Theresa May e negoziato dal nuovo primo ministro Boris Johnson con la sua controparte irlandese. Il negoziato ha di fatto spostato i controlli alle frontiere nel rispetto degli accordi del Venerdì Santo – che nel 1998 avevano posto fine ai conflitti tra le due Irlande – e ha ricevuto l’appoggio del partito conservatore dopo numerosi colloqui.
[2] Si fa riferimento a D. Guarascio et al., Brexit, effetto domino sulla UE, in “Sbilanciamoci!”, 29 giugno 2016; si veda anche S.O. Becker, T. Fetzer, D. Novy, The fundamental factors behind the Brexit vote, in “CAGE Background Briefing Series”, 2017, 64.
[3] N. Clayton, H.G. Overman, Brexit, trade and the economic impacts on UK cities, Centre for Cities, 2017, p. 4.
[4] J. Lindell, How will Brexit affect cities?, Centre for Cities, 20 dicembre 2018.
[5] Si veda P. McCann, R. Ortega Argiles, Brexit and the UK’s regional and urban challenges, UK in a Changing Europe, 16 aprile 2019.
[6] Ibidem.
[7] Un elemento, questo, chiaramente svantaggioso. Meno svantaggioso, però, dell’abbandono del sistema passaporto – e quindi del recesso dal Patto EEA.
[8] Dati aggiornati a una fase precedente alla Brexit da un report di ABI – Association of British Insurers.
[9] Si veda C. Cohn, U.S. insurer AIG makes Luxembourg its EU hub to cope with Brexit, “Reuters”, 8 marzo 2017.
[10] Per non mettere a repentaglio il sistema di equivalenza e le regole già conformate ai principi concordati a livello globale, le compagnie finanziarie chiedono alle autorità di regolamentazione del Regno Unito di avere un mandato formale per evitare nuove regole che mettano Londra in una posizione di svantaggio rispetto a New York o Francoforte. Queste ultime, inoltre, premono affinché il governo del Regno Unito allenti le tasse e i prelievi sul settore, chiedendo anche di realizzare un sistema di immigrazione che consenta un adeguato reclutamento di professionisti qualificati da tutto il mondo, proprio per mantenere gli standard operativi cui erano solite.
[11] T. Sampson, A no-deal Brexit may still be more costly than COVID-19, LSE, 26 agosto 2020, p. 3.
[12] J. Lindell, How will Brexit affect cities?, cit.
[13] Si veda P. Coutts, Could Brexit be a catalyst for change for towns?, Carnegie UK Trust, 19 settembre 2018.
[14] Ibidem.
[15] P. McCann, R. Ortega Argiles, Brexit and the UK’s regional and urban challenges, cit.
[16] Ibidem.
[17] A. Torre, voce Devolution, in Treccani.it.
[18] G. Saputelli, Brexit e devolution nel Regno Unito: il tema dell’allocazione delle competenze ‘di ritorno’ e non solo, ISSiRFA, 19 giugno 2019.
[19] Ibidem.
[20] Ibidem.
[21] Si veda T. Oliver, A European Union without the United Kingdom: the geopolitics of a British exit from the EU, LSE Ideas, Strategic updates, 2016, 1.
[22] Si veda G. Castellaneta, La Brexit peserà di più sul futuro della geopolitica che dell’economia, in “Il Foglio”, 3 giugno 2020.