Con la fine del lungo lockdown, i progressivi allentamenti dei divieti di circolazione e la riapertura di buona parte delle attività professionali, resta aperta sui media e nel mondo politico la discussione sul ruolo assunto nella vita pubblica dai virologi e dalle autorità sanitarie. Luca Fazzi, docente di Sociologia presso l’Università di Trento, su ilfattoquotidiano.it ha usato il termine “virocrazia”, scrivendo:
Nelle fasi di grande incertezza, gli esseri umani hanno da sempre bisogno di guide a cui affidare le spiegazioni di cosa sta accadendo. Nelle società tradizionali queste figure erano i religiosi. Oggi in piena secolarizzazione e nel bel mezzo della “pandemia del secolo” il soggetto che ha preso il loro posto è il virologo.
La specializzazione professionale che richiede la medicina, le dimensioni di una pandemia spiazzante e la mancanza di firme specializzate all’interno delle testate generaliste hanno catapultato per mesi gli esperti di settore al centro della vita degli italiani, affamati di risposte. Oggi il virologo, l’epidemiologo, l’infettivologo, è un soggetto dotato di peso politico. Un personaggio che, con le proprie dichiarazioni, è potenzialmente in grado d’influenzare il pensiero e i comportamenti delle persone, nonché la stessa politica.
L’attuale momento storico richiama per certi aspetti l’epoca vissuta dall’Italia negli anni di Tangentopoli, durante i quali una situazione emergenziale ha favorito la sovraesposizione mediatica di una figura tecnica e la sua conseguente ascesa ad attore politico. La presente analisi intende scoprire se ci siano davvero punti di contatto tra il magistrato di allora e lo scienziato di oggi, se si possa davvero parlare di politicizzazione di una professione e quali forme questa eventualmente prenda.
Quale politicizzazione?
Già negli anni della “tempesta” era in corso una riflessione sul concetto di “politicizzazione” di un potere neutrale, in quel caso della magistratura.
Maria Stella Righettini, oggi professore associato di Analisi e valutazione delle Politiche pubbliche per l’Università degli Studi di Padova, nel 1995 analizzava le diverse declinazioni del termine: letterale, nel caso di un controllo diretto o indiretto di uno o più partiti sulle attività dei giudici e/o della magistratura di un Paese; più sottile, se inteso come decadenza della neutralità da parte del giudice e dei corpi deputati al controllo e all’interpretazione coattiva della legge, a causa del ruolo di supplenza politica da essi ricoperto a seguito di una grave crisi governativa. È su quest’ultimo caso che l’accademica si focalizzava, trattando l’ancora fresca vicenda Tangentopoli. Una prima applicazione di tale modello configurerebbe l’alleanza tra élite giudiziaria e politica, ad esempio con una decisa discesa nell’arena politica di esponenti della prima. Ma non sembrava questo l’identikit giusto per descrivere lo scenario italiano. Come detto, era il ‘95; non era ancora il tempo di Italia dei Valori e delle altre formazioni guidate da ex magistrati, e la vocazione politica di singoli giuristi non appariva una reale novità:
Nella storia politica del nostro Paese, la partecipazione personale di giudici alle competizioni elettorali nelle file dei partiti è una costante che ha caratterizzato anche le elezioni politiche del 27 marzo 1994. La presenza di magistrati in parlamento e nelle compagini di governo è anch’essa pressoché costante nel secondo dopoguerra, pur se limitata nelle dimensioni. Questi fenomeni non possono pertanto costituire degli indicatori della recente crisi italiana, salvo l’implicita ammissione che la crisi si protrae dalle origini della democrazia.[1]
Più attinente alla situazione del Paese appariva alla politologa un altro modello, quello della politicizzazione della magistratura attraverso una ridefinizione del suo ruolo. La categoria si proponeva un obiettivo politico e sociale da perseguire, la moralizzazione della politica, e presentava il suo “manifesto” attraverso quello che oggi potremmo chiamare “riposizionamento del brand”:
Non è tuttavia nel numero dei processi giudiziari, né nella natura delle imputazioni, né tanto meno nei soggetti imputati che si sostanzia la “politicizzazione” della magistratura italiana. Oltre agli effetti sistemici, inevitabili sul funzionamento delle istituzioni, indotti dai procedimenti giudiziari penali, i magistrati hanno dato vita, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, a nuove modalità di comunicazione con altri poteri costituzionali, con la classe politica e con l’opinione pubblica che di fatto si sono configurati come l’emergere di una nuova leadership nell’ambito del regime democratico. La politicizzazione consiste nel fatto che la magistratura penale, soprattutto quella inquirente, ha ridefinito il proprio ruolo e le proprie funzioni nel sistema politico, rivalutando agli occhi dei cittadini il circuito giudiziario come circuito di rilegittimazione del potere politico, tutto ciò proprio mentre esso stesso stava procedendo ad una massiccia, quanto indiretta, delegittimazione della vecchia classe politica. L’anomalia del caso italiano risiede nella rilegittimazione del sistema democratico da parte di un potere neutrale in nome della legalità e del principio di legalità.[2]
Un punto di vista doppiamente interessante, perché temporalmente prossimo agli eventi e perché esula dalla più comune declinazione di “politicizzazione della magistratura” negli anni di Tangentopoli, quale presunto trattamento di favore del pool di Mani Pulite nei confronti di alcuni partiti, in particolare il PCI/PDS.
La figura del magistrato si faceva più visibile, oggetto di studio non solo per le sue attività, ma anche per la sua storia e il suo stile di vita. Ne è esempio principe Antonio Di Pietro, che è stato analizzato persino nel linguaggio, ribattezzato “dipietrese”. Tale apertura al pubblico passa, naturalmente, attraverso il rapporto con i mass media; non tanto, o non solo, per una questione di visibilità personale, quanto per la costruzione di un ponte diretto con l’opinione pubblica:
[I magistrati] costituiscono un importante canale di comunicazione tra società civile e politica svolgendo anche un importante ruolo di leadership attraverso l’opinion- making. In questo caso il giudice è un attore visibile, personalmente identificabile dall’opinione pubblica, che ricorre attivamente al mezzo d’informazione attraverso articoli, interviste, dichiarazioni o comunicati ed esercita un impatto diretto con la propria attività sull’opinione e sui comportamenti dei cittadini in relazione a determinati fatti, atti normativi o comportamenti istituzionali.[3]
“Sto già facendo politica”: il caso Burioni
Tenendo ben presenti queste caratteristiche, si porta all’attenzione del lettore un post pubblicato dal virologo Roberto Burioni sul proprio profilo Facebook il 22 gennaio 2018. All’epoca già noto al grande pubblico per le sue battaglie contro i No Vax, con quel messaggio declinò l’offerta di Matteo Renzi a candidarlo nelle liste del PD per le elezioni politiche. Per l’argomento qui trattato, tuttavia, è un altro stralcio di quel post che si intende analizzare:
D’altra parte, sto già facendo politica. Quando vi racconto che il vaccino contro il morbillo è sicuro ed efficace al 98% vi riporto dati scientifici, ma nel momento in cui dico che la vaccinazione dovrebbe essere obbligatoria per lavorare in ospedale, o che chi racconta la bugia del legame tra questo vaccino e l’autismo non dovrebbe avere spazio nei programmi televisivi e sui giornali non sto parlando più di scienza: parlo di politica.
Una dichiarazione che funge da premessa a quello che si potrebbe definire un manifesto ideologico, ancor prima che politico:
Ormai politica e scienza camminano appaiate: il tema dei vaccini si accompagna a quello della gestione dei malati gravi, della disponibilità delle cure più innovative; è vicino alla necessità di contrastare gli avvoltoi che sfruttano il dolore dei malati instillandogli false speranze. Infine, scienza e politica dovranno allearsi nel riuscire a mantenere intatto il livello della nostra sanità pubblica in modo da potere continuare a curare tutti nel migliore dei modi, ma senza sprechi.
È dunque necessaria una contaminazione tra i due mondi, con ruoli prefissati per l’uno in relazione all’altro – ma non una sovrapposizione, come indicato dall’incipit di un articolo pubblicato da Burioni il 2 maggio scorso sul sito da lui stesso creato, “Medical Facts”, mentre si avvicinava il delicato momento della Fase 2 nella crisi COVID:
È in questi momenti che la Politica deve riappropriarsi di spazi che spesso ha colpevolmente trascurato o demandato ad altri. Le conoscenze scientifiche sono fondamentali nel contribuire ad arrivare a decisioni quali la riapertura parziale delle attività, ma non possono essere l’unico aspetto da prendere in considerazione.
Con questo articolo, il virologo marchigiano (a sinistra, NdR) prendeva le distanze dalle accuse di tecnocrazia e sospensione della democrazia che, non solo dall’opposizione, piovevano contro la categoria e contro le decisioni prese dal Governo sulla base delle indicazioni della commissione tecnico-scientifica. Tuttavia, è proprio della politica genericamente intesa che in questa premessa sottolinea le colpe, oltretutto alla vigilia di un’importante decisione che il Governo si apprestava a dover prendere.
Pertanto il messaggio, pur ricordando il grado di separazione che deve esistere tra politica e scienza, risulta paradossalmente esso stesso politico. Si lega ancora una volta a quella “missione”, perfettamente esplicitata in quel post di due anni fa, che per Burioni la scienza avrebbe nei confronti della politica: non più moralizzatrice, com’era per il pool di Mani Pulite, ma educatrice. Del resto, se non si può parlare di un preciso imprinting sociale e politico paragonabile, ad esempio, a Magistratura Democratica, esistono comunque dei punti programmatici che parte del mondo scientifico chiama la politica a sottoscrivere, ossia il Patto Trasversale per la Scienza, che si vedrà meglio in seguito.
Oggi non sarebbe certo una novità vedere uno scienziato, al pari del giurista pre-Tangentopoli, intraprendere una carriera politica vera e propria (ne è un esempio illustre Margherita Hack). Ma, ancora una volta, la differenza va cercata nel momento storico in corso, nei mutamenti della comunicazione dello scienziato, della sua percezione da parte dell’opinione pubblica e del suo stesso ruolo, sempre meno limitato al proprio ambito e calato in una dimensione pubblica.
Dallo scienziato al pubblico, un’informazione con poco filtro
Occorre, però, fare prima un passo indietro e riflettere anzitutto su come sia cambiata oggi la notizia scientifica e su chi la racconti sui media generalisti. Tra gli anni Settanta e Ottanta il giornalismo scientifico era vivo e ben radicato all’interno dei grandi giornali, con supplementi curati da giornalisti di formazione specifica, come lo storico Tuttoscienze de “La Stampa”, ancora in attività, all’epoca diretto da Piero Bianucci.
Con la progressiva crisi economica subita dai quotidiani, tali inserti sono stati progressivamente eliminati e le notizie scientifiche sono passate alle pagine di cronaca. Da una parte, spiega lo stesso Bianucci in un’intervista per “Physis”, questo ha permesso loro di uscire dal “ghetto” e di aprirsi a un pubblico più ampio, ma dall’altra hanno dovuto confrontarsi con la fortissima concorrenza rappresentata da sport, spettacolo, gossip e altri temi. Per trovare spazio, sono state via via privilegiate notizie a carattere sensazionalistico o con argomenti legati a contenuti pubblicitari attinenti. Contemporaneamente, la figura del giornalista scientifico è gradualmente scomparsa dai quotidiani, che oggi, nel migliore dei casi, possono servirsi di freelance sì preparati, ma senza una redazione stabile a supportarli. Per lo più, le notizie sono invece affidate a redattori non specializzati e attenti, al limite, a riportare con precisione le informazioni raccolte o i comunicati stampa ricevuti, ma senza la capacità per interpretarli. I giovani science writers ben formati non mancano, come ricordava nel gennaio 2019 la giornalista Gianna Milano[4], ma oggi non trovano praticamente più spazio sui giornali generalisti, lì dove invece servirebbero maggiormente.
Non va molto meglio tra le trasmissioni televisive di divulgazione scientifica, anch’esse sempre più propense al sensazionalismo o alla proposta di teorie alternative, anziché quelle accettate dalla comunità scientifica, sebbene l’anno passato abbia visto il lancio nel palinsesto digitale RaiPlay del programma SuperQuark+, che concede spazio a giovani ricercatori.
Contemporaneamente, è cambiata, da parte degli scienziati stessi, la modalità di comunicazione e, in un certo senso, il suo scopo. Sempre nell’articolo di Gianna Milano, si legge come tra gli anni Settanta e Ottanta si affermi
l’idea della scienza come business, della ricerca fortemente proiettata sul mercato. E i mass media fanno da volano. Apparire sui mezzi di comunicazione aumenta per gli scienziati le chances di ricevere finanziamenti, e per i giornalisti proporre storie interessanti aumenta l’audience. Il sistema di comunicazione conferisce una forte dinamica al processo/progresso scientifico, rispecchiando le attese della società ma anche gli interessi del mondo della scienza.[5]
E questa, si dirà, non è certo una scoperta. Più interessante, per la presente analisi, rilevare come il rischio di questo gioco di squadra sia portare a una spettacolarizzazione dell’informazione scientifica e dello scienziato stesso, elevato a star:
il sensazionalismo che spesso ruota attorno alle notizie della scienza medica sarebbe il riprovevole coprodotto del compiacente rapporto tra giornalisti e scienziati: se i giornalisti riescono a catturare l’attenzione del pubblico, gli scienziati vedono nell’attenzione dei media un trampolino per il successo. E gli interessi delle due professioni sembrano influenzarsi l’una con l’altra.[6]
Virologi televisivi
Da un lato, dunque, si ha un personaggio pubblico dotato di sufficiente fama e autorevolezza da influenzare le opinioni degli spettatori, e, dall’altro, vi è un’impossibilità di filtrare le sue dichiarazioni, o persino un interesse a promuoverle. La combinazione di questi due fattori porterebbe così, quasi naturalmente, all’investitura a “televangelisti”.
Che i virologi televisivi siano consapevoli della loro nuova dimensione, si può ritenere assodato. “Panorama” ha rivelato come Roberto Burioni e Ilaria Capua abbiano ricevuto gettoni di presenza quali ospiti fissi di trasmissioni televisive, rispettivamente Che tempo che fa su Rai2 e DiMartedì su La7 (una prassi del resto normale in televisione, come spiega il settimanale stesso)[7]. I virologi televisivi acquisiscono così un valore persino commerciale, tale da giustificare un investimento su di essi non tanto in quanto scienziati, quanto nella funzione di comunicatori e divulgatori. Si ricorda a tal proposito il ruolo di Burioni quale consulente sanitario, annunciato l’aprile scorso da Gucci, per assicurare il completo rispetto delle norme anti-contagio in vista della riapertura delle attività del noto marchio. Ma più interessante per il nostro discorso risulta un altro aspetto messo in luce da “Panorama”, cioè che l’accademico si appoggi a una società di comunicazione, Elastica. Segno di una piena cognizione, da parte di Burioni, che le sue dichiarazioni oggi assumono una dimensione compiutamente pubblica; non più limitata al puro terreno di confronto medico-scientifico, ma estesa al campo della comunicazione tout court. Campo spesso minato che, come per un politico, richiede l’ausilio di professionisti del settore.
La stessa Ilaria Capua (a destra, NdR), direttrice di un dipartimento dell’Emerging Pathogens Institute dell’Università della Florida, non è nuova alla dimensione pubblica. Nel 2006, ebbero risalto la sua iniziativa d’inserimento su un database open source delle sequenze del virus H5N1 e la sua esortazione a mettere in comune i dati scientifici per favorire la crescita della virologia. Nel 2013 fece il suo ingresso in politica, con l’elezione alla Camera dei deputati per Scelta Civica. Tre anni dopo, tuttavia, rassegnò le dimissioni e si trasferì negli Stati Uniti, prosciolta da un’accusa di traffico illecito di virus, che l’aveva vista indagata dalla Procura di Verona, e con il suo nome pubblicato dal settimanale “L’Espresso”, che dedicò alla vicenda la copertina del numero di aprile 2014. La virologa querelò il settimanale per diffamazione (il procedimento fu archiviato nel 2018) e nel 2017 pubblicò il libro Io, trafficante di virus. Una storia di scienza e di amara giustizia. Eppure, nulla di ciò sarebbe paragonabile all’attuale visibilità (il 2 maggio, da un sondaggio di Noto Sondaggi e My Pr, risultava che il 77% degli italiani la giudicava l’esperto più credibile); visibilità che, ha dichiarato al settimanale “Sette”, teme le si possa ritorcere contro[8].
Sulla bocca di tutti
Non esagerava la virologa romana, perché la pandemia e il lockdown hanno provocato una situazione straordinaria, nella quale il virus stesso è diventato giocoforza il tema di discussione principe, se non l’unico, a livello giornalistico e politico, rendendo necessario un confronto continuo con gli specialisti. Uno studio di Cedat85, pubblicato il 1° marzo da “La Stampa”, mostrava come nella sola prima settimana di contagio, dal 20 al 27 febbraio, la parola “coronavirus” fosse stata pronunciata ogni 90 secondi dalle 1.500 TV e radio monitorate. Il sito dell’Accademia della Crusca contava la stessa parola, al 21 marzo, 703.000.000 volte su Google, 1.097 volte sul “Corriere della Sera”, 8.344 volte su “la Repubblica”, 5.831 volte su “La Stampa”.
Anche in questo caso, si può fare un parallelo con gli anni di Tangentopoli. Finestra temporale tutto fuorché ordinaria, nella quale un singolo tema predominava nettamente sui media nazionali: la corruzione. Il solo quotidiano “la Repubblica”, tra il 1992 e il 1994, vide schizzare a 220 la media di casi di corruzione trattati, contro i 90 del triennio 1989-1991 e più del doppio rispetto al biennio 1987-1988[9].
Nell’aprile 2015, “Linkiesta” analizzò le rassegne stampa quotidiane dell’agenzia Ansa all’epoca di Tangentopoli, tramite una ricerca delle parole chiave inerenti al tema (“corruzione”, “concussione”, “tangenti”, ecc.), e constatò un’impennata senza precedenti dell’attenzione dedicata dai quotidiani all’argomento, in modo peraltro sproporzionato rispetto all’effettiva portata delle indagini:
Nell’estate del 1992, quando solo una manciata di parlamentari risultavano indagati, la copertura giornalistica delle inchieste aveva già raggiunto livelli altissimi, incomparabili rispetto al passato e raramente eguagliati negli anni successivi. Ricordiamo che questi dati non si riferiscono ai trafiletti sulle pagine interne dei giornali locali, ma alle prime pagine delle principali testate nazionali. Per fare un esempio, delle 31 prime pagine del Corriere della Sera del mese di luglio 1992 (o de la Repubblica, La Stampa ecc.), risulta che ben 22 – ovvero due su tre – menzionavano vicende di corruzione.
Non era l’epoca digitale, né ancora la società televisiva. Il “quarto potere”, quello dei grandi quotidiani, era più che mai tale. Certo, proprio in Tangentopoli si può scorgere il seme della futura potenza delle immagini propria della TV, con momenti che oggi definiremmo “virali”, come la trasmissione delle udienze, il j’accuse di Bettino Craxi in Parlamento o il lancio delle monetine contro lo stesso Craxi davanti all’Hotel Raphael di Roma il 30 aprile 1993. E il ciclone giudiziario che spazzò via formazioni storiche come il Partito Socialista o quello Repubblicano (per non parlare della DC) trascinò con sé anche relativi quotidiani di partito come “Avanti!”, del quale peraltro è stato recentemente annunciato il rilancio in forma cartacea, o “La Voce Repubblicana”. Lo stesso giornale “l’Unità”, in modo simile a quanto avveniva all’interno del partito, ribattezzato Partito Democratico della Sinistra, tentava un difficile rilancio parzialmente sganciato dall’esperienza politica comunista[10]. Tuttavia, ricorda Massimo Pini nella biografia Craxi. Una vita, un’era politica, “la stampa, solo la stampa aveva il potere di legittimare o delegittimare chiunque, nel biennio 1992-93. […] Chi contava? I giornali”. In quanto alle TV, “La tecnica era quella di far filtrare la notizia per precisarla poi in tarda serata: a quel punto i Tg dovevano rincorrere i giornali”[11].
Una narrazione plurale
Di certo – e qui invece emerge una differenza enorme tra i due periodi presi in esame – oggi non si assiste a quel patto di ferro tra grandi giornali, con una narrazione condivisa, raccontato dall’ex direttore de “l’Unità”, Piero Sansonetti. Il “fantasma” di Tangentopoli è stato esplicitamente evocato ad aprile da Susanna Turco su “L’Espresso”, passando in rassegna tutti i profili dei virologi saliti alla ribalta dall’inizio dell’emergenza. Ma se una fase di mitizzazione c’è stata, a parer di chi scrive è durata ben poco. Del resto, Tangentopoli fu una fase storica e politica che durò anni, i cui strascichi perdurano tuttora, mentre per la crisi COVID, al momento, si parla di mesi.
La stessa comunicazione, oggi più rapida e permeante che mai nella vita dei cittadini, non fa che accelerare il processo quasi inevitabile in cui una sovraesposizione mediatica, riprendendo le parole della dottoressa Capua, finisce per ritorcersi contro chi ne è protagonista. Stavolta non c’era neppure un punto di riferimento unico, una Procura che si presentasse come un gruppo coeso, con una comunicazione univoca e un frontman ben riconoscibile.
Il racconto dei media si è, all’opposto, parcellizzato nell’affannosa ricerca di un “buon profeta”, un virologo la cui voce si distinguesse per autorevolezza nella cacofonia di pareri discordanti e, spesso, litigiosi. Proprio gli scontri tra colleghi hanno catalizzato la deriva verso una spettacolarizzazione dell’informazione scientifica e un progressivo scetticismo di una parte dei media e dell’opinione pubblica. Passata la paura, alla ricerca di una guida è subentrata l’insofferenza, ben rappresentata dall’ironico album di figurine dei virologi che in questi mesi ha fatto il giro della rete.
La confutazione di quei pareri smentiti dall’evoluzione del contagio, il debunking degli stessi curricula, come nel controverso caso di Giulio Tarro, e, più in generale, la pars destruens hanno iniziato a prevalere. Anche tra i lettori e ascoltatori si è assistito a divisioni, con logiche di tifo e dogmatismo, nel parteggiare per l’uno o l’altro virologo – a sua volta partecipe della demolizione dell’avversario di turno. Nella confusione generale, persino Piero Angela, a febbraio, fu invocato dai sostenitori a svelare quale fosse la “verità” sul virus, col divulgatore trovatosi costretto a spiegare in un video la differenza tra il suo ruolo e quello degli scienziati e che pertanto, quelle risposte, non poteva averle. Non sono inoltre mancati, da parte di conduttori di talk show, attacchi in diretta a virologi ospiti di trasmissioni concorrenti.
Le critiche ai virologi, sia i più presenti sui palinsesti televisivi sia quelli impegnati come consulenti scientifici del Governo, si sono persino accentuate con l’approssimarsi e la successiva messa in moto della Fase 2 prima e della Fase 3 poi. Il tema principale ha iniziato a diventare quello economico, con l’area di centro-destra e sovranista, in tandem con l’informazione di riferimento, che premeva per una riapertura totale delle attività in tempi rapidi. Parallelamente, si faceva insistente l’accusa di tecnocrazia al potere. I media stessi hanno iniziato, almeno in parte, a dividere i virologi a seconda delle loro opinioni, con l’area di opposizione che guardava con maggiore attenzione a chi esprimesse idee simili o, come il già citato Tarro, proponesse opinioni alternative a quelle preponderanti nella comunità scientifica. Nel caso di Alberto Zangrillo, primario di anestesia e terapia intensiva all’Ospedale San Raffaele di Milano, si ha un grado di separazione ulteriore, poiché non si tratta di un virologo e le sue dichiarazioni negli ultimi mesi l’hanno, anzi, portato a scontrarsi più volte con gli specialisti più cauti nei confronti dell’attuale situazione sanitaria.
Ma, come detto, e non solo da parte dell’opposizione di destra, la critica esprimeva anzitutto un crescente scetticismo nei confronti dell’effettiva autorevolezza della categoria stessa, o quantomeno dei suoi rappresentanti più visibili. La già citata mancanza di una formazione specifica, tuttavia, rendeva e rende difficile stabilire criteri di valutazione certi. Si prenda a esempio l’articolo con cui il direttore de “Il Tempo”[12], Franco Bechis, definì “i più scarsi del mondo” i virologi “che hanno imposto la chiusura dell’Italia al governo”, basandosi sul basso valore del loro h-index. L’articolo portò, il 4 maggio, a una riflessione del giornalista scientifico Juanne Pili sul quotidiano online “Open”:
Si tratta di un indice che valuta quante volte i lavori a cui ha partecipato il singolo ricercatore sono stati citati, in proporzione anche alla quantità di ricerche svolte (ci perdonerete l’eccessiva semplificazione). Ad ogni modo, come facevamo notare in una precedente intervista, in Italia esiste un dibattito su quanto le citazioni tra gruppi di ricerca sodali – o le auto-citazioni – possano essere determinanti nel rendere l’h-index meno affidabile […] La presenza di Capua in questa lista è emblematica, perché ci comunica da sé quanto sia inutile visionare gli h-index, senza prima contestualizzare l’attività dei ricercatori. Parliamo della virologa di fama mondiale che ha contribuito a rendere pubblici i dati genomici sui virus, cosa che con l’emergere del nuovo Coronavirus ha fatto la differenza.
In cima a quella classifica, peraltro, figurava Anthony Fauci, consulente della Casa Bianca per la crisi COVID negli Stati Uniti, più volte scontratosi con il presidente Donald Trump proprio perché premeva per l’adozione e il mantenimento di misure contenitive. Nel caso americano il dibattito sui virologi e sul virus s’interseca persino con la geopolitica. Dall’esplosione della pandemia, le accuse e controaccuse di USA e Cina sono quasi un appuntamento quotidiano, così come la polemica di Trump nei confronti dell’OMS, prima accusata di essere filo-cinese, quindi con l’annuncio della chiusura dei rapporti con l’organizzazione. Una parziale eco di questi scontri si è vista nei mesi scorsi anche in Italia, con le critiche del consulente del Ministero della Salute Walter Ricciardi nei confronti di Trump, le proteste del centro-destra e la successiva presa di distanza della stessa OMS.
Il Patto Trasversale per la Scienza
Nei prossimi mesi, e anni, capiremo se stiamo assistendo a un circuito comunicativo temporaneo o se siamo solo all’inizio di una nuova e duratura cementazione della figura dello scienziato nell’opinione pubblica. In questo secondo caso, potremmo doverci abituare, da un lato, a una classe politica e giornalistica che incaselli politicamente i singoli pareri scientifici, a seconda degli effetti sulla vita politica, economica e quotidiana; dall’altro, a scienziati che, seppur non direttamente candidati per ruoli politici, siano volontariamente impegnati nell’opinion making.
Parlando del caso Burioni, si è accennato al Patto Trasversale per la Scienza. Si tratta di un’iniziativa dello stesso Burioni e del professor Guido Silvestri, capo dipartimento di Patologia all’Università Emory di Atlanta, che impegna il mondo della politica a una serie di obiettivi. Il Patto è sintetizzato in cinque punti fondanti:
(I) Tutte le forze politiche italiane si impegnano a sostenere la Scienza come valore universale di progresso dell’umanità che non ha alcun “colore politico”, e che ha lo scopo di aumentare la conoscenza umana e migliorare la qualità di vita dei nostri simili.
(II) Nessuna forza politica italiana si presta a sostenere o tollerare in alcun modo forme di pseudoscienza e/o di pseudomedicina che mettono a repentaglio la salute pubblica come il negazionismo dell’AIDS, l’anti-vaccinismo, le terapie non basate sulle prove scientifiche, ecc.
(III) Tutte le forze politiche italiane si impegnano a governare e legiferare in modo tale da fermare l’operato di quegli pseudoscienziati che con affermazioni non-dimostrate ed allarmiste creano paure ingiustificate tra la popolazione nei confronti di presidi terapeutici validati dall’evidenza scientifica e medica.
(IV) Tutte le forze politiche italiane si impegnano ad implementare programmi capillari di informazione sulla Scienza per la popolazione, a partire dalla scuola dell’obbligo, e coinvolgendo media, divulgatori, comunicatori, ed ogni categoria di professionisti della ricerca e della sanità.
(V) Tutte le forze politiche italiane si impegnano affinché si assicurino alla Scienza adeguati finanziamenti pubblici, a partire da un immediato raddoppio dei fondi ministeriali per la ricerca biomedica di base.
La lista di firmatari include un nutrito numero di accademici e politici, tra i quali il garante del Movimento 5 Stelle Giuseppe Grillo e il fondatore di Italia Viva Matteo Renzi. L’associazione si è dimostrata particolarmente attiva in questa crisi sanitaria, non solo con iniziative d’informazione e debunking, ma persino con azioni legali e diffide nei confronti, rispettivamente, del critico d’arte Vittorio Sgarbi, di Stefano Montanari, direttore del laboratorio di ricerca Nanodiagnostics, e di Maria Rita Gismondo, direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell’ospedale Sacco di Milano, con la quale lo stesso Burioni ha avuto più di una schermaglia verbale[13].
L’attribuzione del ruolo di “sentinella giudiziaria” nei confronti di colleghi scienziati e non, in merito a dichiarazioni giudicate non scientifiche dai firmatari stessi, porrebbe inevitabilmente una serie d’interrogativi sui rischi insiti nell’esercizio arbitrario di una simile autorità. E qui il paragone con Tangentopoli, o meglio con l’eredità di riflessioni etiche e giuridiche che ha lasciato, appare persino un monito scontato.
Dal lockdown alla stagione elettorale
Con il progressivo ritorno alla libera circolazione, il mese scorso sentimenti d’insofferenza nei confronti delle misure anti-COVID hanno preso la forma di proteste di piazza da parte dei “gilet arancioni”, ideologicamente di segno anti-tecnocratico e persino negazionista nei confronti della COVID-19. Manifestazioni alimentate dalle tensioni sociali causate dal lungo blocco dell’economia, rapidamente tornato a essere uno dei temi preponderanti di discussione politica.
Il virus ha perso d’interesse e così i virologi; Roberto Burioni ha lasciato il ruolo di ospite fisso a Che tempo che fa, non senza polemiche.
Gli “Stati Generali dell’Economia” voluti dal premier Giuseppe Conte segnano un ideale spartiacque: se non si è mancato di sottolineare diverse assenze del mondo politico ed economico a quegli incontri, totalmente escluso era il mondo che per mesi ha segnato la vita, anche economica, del Paese, rappresentato dal Comitato tecnico-scientifico.
In un clima tornato a essere pienamente da campagna elettorale, il virus è diventato poco più di uno spettro da agitare nello scontro tra forze politiche. Si pensi alle critiche sul mancato distanziamento sociale durante le manifestazioni del centro-destra del 2 giugno, le contro-polemiche sugli assembramenti per il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, o i botta e risposta tra il leader della Lega Matteo Salvini e il governatore della Campania Vincenzo De Luca sugli affollamenti dei tifosi del Napoli calcio per festeggiare la vittoria in Coppa Italia[14].
Oppure, il virus diventa un’integrazione alla discussione su tematiche tornate centrali nell’agenda politica. La paura “dell’untore” e della creazione di una “zona rossa” è stata la scintilla della rabbia popolare esplosa di recente a Mondragone, in Campania. Una miscela di tensioni tra italiani e immigrati, di abusivismo e della delicata questione, economica e sociale, dei braccianti. Tema, quest’ultimo, già emerso a maggio, col piano di regolarizzazione presentato dal ministro dell’Agricoltura Teresa Bellanova, la cui applicazione presenta, tuttavia, non poche difficoltà. Ancora prima, ad aprile, un appello per l’adozione di misure analoghe vedeva tra i firmatari diversi virologi e immunologi, le cui motivazioni sanitarie si saldavano, ancora una volta, con quelle sociali ed economiche.
Con la formazione di nuovi focolai di contagio e la discussione aperta sull’ipotesi di una nuova ondata, la tensione sul virus è tornata a salire, mentre i primi appuntamenti elettorali si avvicinano. Il tempo dirà cosa rimarrà, sul piano pubblico e politico, di quei ricercatori e medici diventati per noi volti e voci familiari. I soli nomi di Alberto Zangrillo e Pierluigi Lopalco sono stati finora ventilati per una possibile candidatura politica, rispettivamente a sindaco di Milano e alle elezioni regionali della Puglia. Le già citate manifestazioni di piazza dei gilet arancioni hanno riportato sotto i riflettori la questione degli anti-vaccinisti e proprio la sintesi e la somministrazione di un vaccino contro il COVID-19 potrebbero aprire un terreno di scontro politico, con i primi appuntamenti elettorali che si avvicinano, mentre già si discute su obbligo o meno. Sarebbe, inevitabilmente, terreno fertile per un ritorno in prima linea dei virologi.
Contro l’accusa dell’installazione, nei mesi scorsi, di un regime virocratico centrale che abbia portato il mondo scientifico a scavalcare quello politico, si potrebbe opporre il fatto che, contemporaneamente alla crescita del ruolo dei virologi nelle decisioni del Governo centrale, abbiamo assistito a tendenze più o meno marcate di opposizione, autonomia, o quantomeno protagonismo, da parte di poteri locali, a loro volta appoggiati da consulenti propri. In particolare, tra i governatori regionali[15] e alcuni sindaci[16]. Ancora adesso, persino negli aspetti più semplici della quotidianità, le differenze tra regioni non mancano, anche in contrasto col parere del Comitato tecnico-scientifico. C’è chi, anzi, si è interrogato se non sia piuttosto la scienza a essersi, infine, arresa alla volontà politica. Ma questo aspetto dovrà necessariamente essere materia di un’analisi ben più approfondita sull’epoca che ci stiamo trovando a vivere.
Al di là della facile retorica dello spettro delle tecnocrazie, epoche di tumulto ed emergenza invitano sempre a monitorare con attenzione l’impatto sulla vita democratica che hanno le decisioni dei governi e delle altre figure impegnate nel processo decisionale. Il 22 maggio scorso, il presidente del Senato Elisabetta Casellati contestava lo svuotamento di fatto del ruolo del Parlamento in emergenza COVID, ma eguali critiche venivano dal mondo giuridico e sono tuttora mosse dai media[17]. In piena emergenza, così il premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa ammoniva il mondo in un manifesto pubblicato sul sito della sua Fundación Internacional para la Libertad (FIL) e firmato da 150 politici e intellettuali:
Noi sottoscritti condividiamo la preoccupazione per la pandemia di Covid-19 che ha provocato una grande quantità di contagi e di morte in tutto il mondo, e facciamo giungere la nostra solidarietà alle famiglie colpite dai lutti. Mentre gli operatori della sanità pubblica e privata combattono valorosamente contro il coronavirus, molti governi dispongono misure che restringono indefinitamente le libertà e i diritti fondamentali. Invece di alcune ragionevoli limitazioni alla libertà, in diversi Paesi prevale un confinamento con minime eccezioni, l’impossibilità di lavorare e produrre e la manipolazione delle informazioni. Alcuni governi hanno individuato un’occasione per arrogarsi un potere smisurato. Hanno sospeso lo Stato di diritto e addirittura la democrazia rappresentativa e il sistema giudiziario. Nelle dittature del Venezuela, di Cuba e del Nicaragua la pandemia serve da pretesto per accrescere la persecuzione politica e l’oppressione. In Spagna e in Argentina leader con un marcato pregiudizio ideologico pretendono di utilizzare le difficili circostanze per attribuirsi prerogative politiche e economiche che in un’altra situazione la cittadinanza respingerebbe fermamente. In Messico esplode la pressione contro l’impresa privata e si utilizza il ‘Gruppo di Puebla’ per attaccare i governi di diverso orientamento. Su entrambe le sponde dell’Atlantico risorgono lo statalismo, l’interventismo e il populismo con un impeto che fa pensare a un cambio di modello lontano dalla democrazia liberale e dall’economia di mercato. Vogliamo esprimere con energia che questa crisi non deve essere fronteggiata sacrificando diritti e libertà che è costato caro conseguire. Respingiamo il falso dilemma che queste circostanze obbligano a scegliere tra l’autoritarismo e l’insicurezza, tra l’Orco Filantropico e la morte.[18]
Francesco Moscarella per www.policlic.it
Note e riferimenti bibliografici
[1] M.S. Righettini, La politicizzazione di un potere neutrale. Magistratura e crisi italiana, in “Italian political science review”/“Rivista italiana di scienza politica”, XXV(1995), 2, p. 251.
[2] Ivi, p. 252.
[3] Ivi, p. 247.
[4] G. Milano, Raccontare la scienza. Rischi, opportunità e nuovi strumenti del comunicare, in “Recenti progressi in medicina”, 2019, n. 110, pp. 11-17.
[5] Ivi, p. 12.
[6] Ivi, p. 14.
[7] Cfr. G. Candela, “Quanto guadagnano i virologi per le presenze in tv? Ecco i compensi di Burioni e Capua”, “il Fatto Quotidiano”, 13 maggio 2020.
[8] Cfr. V. Dardari, Ilaria Capua: “Magari diranno che il coronavirus l’ho creato io…”, “il Giornale”, 23 maggio 2020.
[9] A. Vannucci, The Controversial Legacy of ‘Mani Pulite’: A Critical Analysis of Italian Corruption and Anti-Corruption Policies, in “Bulletin of Italian politics”, I(2009), 2, pp. 233-64.
[10] M. Forno, Informazione e potere. Storia del giornalismo italiano, Laterza, Bari 2012, p. 220.
[11] M. Pini, Craxi. Una vita, un’era politica, Mondadori, Milano 2019, pp. 521-522.
[12] L’articolo originale non è più visibile sul sito de “Il Tempo”. Per leggere il testo integrale dell’articolo, cfr. Abbiamo i virologi più scarsi del mondo. Lo dicono gli indici che piacciono ai competenti, “Dagospia”, 4 maggio 2020.
[13] Cfr. B. Giovara, Coronavirus, la virologa Gismondo e le notti in laboratorio: “Ma non siamo in guerra”, “la Repubblica”, 26 febbraio 2020 e Coronavirus, nuova lite Gismondo-Burioni: “Come influenza”, “No!”, “il Giornale”, 13 marzo 2020.
[14] Cfr. C. Lopapa, 2 Giugno, centrodestra in piazza senza regole: saltano i distanziamenti, il flash mob degenera in ressa, “la Repubblica”, 2 giugno 2020, F. Bechis, Quanta ipocrisia contro il centrodestra. E la calca per Mattarella?, “Il Tempo”, 3 giugno 2020 e Festa Napoli, De Luca a Salvini: “Cafone politico, commenti razzisti”. Il leghista: un poveretto che va aiutato, “Il Messaggero”, 19 giugno 2020.
[15] Cfr. A. Pasqualetto, Coronavirus, Crisanti: “Così ho violato le regole sui tamponi e ho fatto bene”, “Corriere della Sera”, 1° giugno 2020, Fontana chiama Bertolaso per l’ospedale nella Fiera, “Varese News”, 14 marzo 2020 e Fase 2, l’ira di De Luca: “Campania non ha firmato, il 18 non riapriamo”, “Today”, 17 maggio 2020.
[16] Cfr. De Magistris telefona a De Luca: “Decido io come riparte Napoli, la task force non sa nemmeno fare una pizza”, “Il Riformista”, 19 maggio 2020.
[17] Cfr. Casellati: “Basta con Dpcm calati dall’alto, riaprire tutto in sicurezza”, “Ansa”, 22 maggio 2020, M. Lavia, Distanziamento democratico: Il Parlamento deve funzionare da remoto, prima che sia troppo tardi, “Linkiesta”, 25 aprile 2020 e S. Turco, Così un Parlamento deprimente, svuotato di persone e potere, aspetta di essere tagliato, “L’Espresso”, 1° luglio 2020.
[18] Trad. it. da F. Palmieri, L’allarme di Vargas Llosa: “Pandemia pretesto per l’autoritarismo”, AGI, 24 aprile 2020.