In un’epoca di profonda contestazione alla legittimità della Politica tout court e di pervasiva retorica anti-casta, ormai insita nell’immaginario collettivo, la diplomazia – funzione tecnica, ma dalla profonda connotazione politica – rischia di essere impropriamente associata a vacue formalità burocratiche e a rituali cerimoniali obsoleti. Ne consegue che la rappresentazione caricaturale del diplomatico, forse raffigurato intento in costose e frivole socialità aristocratiche, prevalente nell’opinione pubblica – votata alla costante ricerca di un capro espiatorio dell’amministrazione statale – contribuisce alla diffusa convinzione che esso costituisca una figura funzionalmente superflua e storicamente superata. Eppure, nonostante scetticismo e critiche infondate, mai come in questo momento di transizione geopolitica e mutamento sistemico internazionale, la dimensione diplomatica acquisisce natura indispensabile. Tanto per la pragmatica gestione dell’esistente, quanto per la trasformazione futura della società, al fine di plasmare un mondo in cui i soggetti della realtà internazionale siano in grado di convivere in pace sulla base del quadro normativo comunemente concordato. È, infatti, rimesso al professionista delle relazioni internazionali il compito di concretizzare, nell’esercizio quotidiano della professione, la politica estera del proprio paese sulla base delle istruzioni che riflettono le scelte politiche adottate dagli organi costituzionali dello Stato; nel perseguimento, logicamente, dell’interesse nazionale e a tutela della collettività in tutti i suoi aspetti, a livello bilaterale e nei molteplici consessi multilaterali che constano la vita internazionale. Per far chiarezza su questa determinante e affascinante funzione, Policlic ha deciso di dar voce ai protagonisti italiani, intervistando il Vice Capo Missione a Cuba Samuele Fazzi.
Più che una carriera, quella della Diplomazia è una vocazione. Quali fattori l’hanno spinta a compiere questa scelta di vita?
Sono stato spinto a tentare il concorso diplomatico dal grande interesse che ha suscitato in me lo studio del diritto internazionale, della storia della politica internazionale e dell’economia, così come l’affacciarsi alla storia di paesi e culture, per come tutto ciò emergeva dai corsi universitari che ho seguito presso il corso di laurea in scienze internazionali e diplomatiche di Gorizia, Università di Trieste. Ma devo confessare che altrettanta attrazione hanno esercitato su di me quelle figure di diplomatici che, ogni tanto, venivano a Gorizia a tenere una conferenza o un corso complementare: eleganti, riflessivi, colti, ironici, raffinati. Adesso, dopo vari anni e dopo averne conosciuti molti “da dentro”, mi chiedo se erano davvero sempre, invariabilmente, così o era la mia mente curiosa a trasfigurarli assai efficacemente in quel modo. Alcuni di loro erano molto in gamba, non ci sono dubbi, e i libri che mi hanno suggerito o le osservazioni che hanno condiviso con noi, continuo a ritenerli avvenimenti preziosi per la mia formazione, sino ad oggi.
Quale tipologia di formazione, accademica e culturale, dovrebbe avere il funzionario diplomatico ideale e quanto è importante possedere delle solide basi per porre in essere quotidianamente l’attività?
Da un punto di vista accademico, credo che sia molto utile conseguire una formazione simile a quella che ho avuto io. Un corso in scienze internazionali e diplomatiche o in relazioni internazionali – ve ne sono ormai numerosi in Italia, rispetto a 15 anni fa, quando ho iniziato l’Università –fornisce strumenti senz’altro adeguati. Nessuna preparazione specifica in una singola disciplina, ma una vasta panoramica, che consente di orientarsi bene. Con questo non intendo dire che chi provenga da una laurea in storia, in giurisprudenza, in economia o anche in lingue – come alcuni miei colleghi – non possa poi vincere con successo il concorso: dico, invece, che l’approccio del diplomatico nella sua vita professionale non è quasi mai quello di uno specialista. Deve invece saper mettere a frutto nella vita reale le interconnessioni fra vari campi disciplinari, indovinare le implicazioni profonde delle questioni, senza avere purtroppo il tempo di andare nello specifico. Fiutare il tranello giuridico in una bozza di accordo, senza essere un giurista; indovinare la suscettibilità storica che una frase detta in una speciale circostanza può suscitare, senza essere uno storico; capire che la tal riforma messa in campo dal governo straniero potrebbe avere effetti perversi sulla crescita economica di quel paese, senza essere un economista. Le basi solide sono, quindi, fondamentali. Ma ancor più cruciale, a mio avviso, è il riconoscere che questa abilità di collocarsi fra più mondi lo rende, alla fine, un raffinato ignorante in ciascuno di essi; non importa, perché se avrà l’intelligenza di ascoltare e osservare – invece di voler essere sempre lui a parlare, ciò che è comune tra molti miei colleghi, tanto giovani quanto anziani – riuscirà brillantemente nel suo compito.
Cosa consiglierebbe a un giovane liceale che mostra particolare interesse per la carriera diplomatica e ha intenzione di tentare il concorso al Ministero degli Affari Esteri?
Gli consiglierei di applicarsi molto nello studio. È importante anche preparare bene le lingue, le quali hanno bisogno di più tempo per essere assimilate, per cui raccomanderei di non trascurare lo studio di inglese e francese, o spagnolo e tedesco, al liceo. La prova d’accesso costituisce uno dei concorsi pubblici di maggior difficoltà.
Può raccontare a noi e ai nostri lettori della sua personale esperienza, dalla fase preparatoria, allo svolgimento dei test, alla comunicazione della vittoria del concorso?
Non ritengo azzardato dire che si tratta DEL concorso pubblico di maggior difficoltà, a detta anche di alcuni miei colleghi che, prima di entrare in carriera diplomatica, hanno pensato di preparare anche il concorso per entrare in magistratura, il quale rappresenta il secondo esame più difficile per l’accesso alla Pubblica Amministrazione. Io ho tenuto duro: dopo essermi laureato nel 2010 ho seguito un corso di specializzazione in relazioni internazionali a Roma, destinato proprio a preparare per il concorso diplomatico. È una esperienza delicata, in quanto la famiglia affronta per il giovane laureato esattamente le spese che si affrontano per iscrivere il proprio figlio ad un master. Con la differenza che questo è un master molto peculiare: non fa curriculum in nessun modo, a nessuna azienda interessa se hai continuato a studiare economia internazionale e storia dei trattati per un altro anno dopo 5 anni di università. La pressione che uno avverte è quindi cospicua. Ho fallito il concorso due volte: nel 2011, quando non ho passato gli esami scritti, e nel 2012, quando addirittura non ho passato i test preselettivi. Nel 2013, invece, ho superato il concorso, classificandomi secondo. È stata una bella soddisfazione scalare così la graduatoria, anche se ci ho messo un po’ di tempo. Del resto vincere il concorso al primo tentativo è possibile, ma non è il caso più frequente.
Dall’euforia al bagno di realtà. Divenuti dipendenti del MAECI, cosa accade concretamente? Cosa si va a fare?
Si va a fare una gran varietà di cose, molte delle quali neanche lontanamente immaginate. Appena entrati al Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale, prende avvio una fase di 9 mesi durante i quali il giovane diplomatico parte dal grado zero: segretario di legazione in prova. Al termine della prova, il segretario di legazione è ufficialmente un funzionario diplomatico. Volendo, è pronto a partire per l’estero, anche se saggezza vuole che rimanga qualche anno presso il Ministero a conoscere il funzionamento della Macchina e la suddivisione tematico-geografica delle sue Direzioni Generali, oltre che, naturalmente, per conoscere di persona i colleghi che, dopo la sua partenza, saranno solo un nome ed un cognome ogni volta che dall’estero scriverà una mail o manderà un rapporto diretto al Ministero. Io sono stato poco saggio: pochi mesi dopo la fine del periodo di prova, sono partito per la mia prima sede: l’Iraq.
I continui spostamenti sono un irrinunciabile parte della vita del funzionario diplomatico. Quale considera gli aspetti maggiormente positivi e quale negativi di questa dimensione?
Aspetti positivi: viviamo molte vite, a volte più dei gatti, e sicuramente più della maggior parte delle altre persone. Perché questo sia vero, però, è fondamentale non perdere mai la curiosità. Il che vuol dire – perdonate se torno sul tema – saper ascoltare, voler esplorare, sollecitare moltitudini di interlocutori per modellare la propria opinione su fenomeni e cose, spostarsi, viaggiare, non stare fermi. Se il diplomatico perde la curiosità, perde i suoi privilegi veramente belli. Restano gli altri, la vacuità del privilegio inteso in senso stretto: una vuota deferenza verso la figura, il lustro vacuo attaccato al suono della parola, diplomatico, che francamente per me lascia il tempo che trova. Aspetti negativi: è triste vedere i propri familiari invecchiare e vivere lontano, a volte molto lontano da te. I propri amici più cari, le cose più belle, continuano a succedere a casa, mentre tu vivi una vita diversa. È difficile farci l’abitudine. Anche per la famiglia al seguito del diplomatico, gli spostamenti possono essere molto complicati: basti pensare a un figlio che passa da una quinta elementare in Francia ad un prima media in Congo, o una moglie che deve provare a trovare lavoro in Mali.
L’assegnazione a una sede estera avviene per merito o è una decisione arbitraria? Quanto margine di manovra ha il funzionario nella scelta?
Il funzionario, quando si sente pronto a partire da Roma – o, se si trova all’estero, dopo quattro anni già passati in sede – può fare domanda su una lista di posti vacanti che viene periodicamente portata a conoscenza del personale. Tranne in casi particolari, deve sempre esprimere una rosa di preferenze. Ora, è certo che verrà inviato in uno dei paesi che ha selezionato, ma magari non nella prima delle preferenze che ha espresso, bensì nella sua terza o quarta scelta. Dunque il merito (punteggio di carriera, conoscenza delle lingue) aiuta ad aumentare le possibilità di poter essere destinati presso le proprie “prime scelte”.
Quale differenza c’è, per i meno avvezzi, tra l’esercizio di funzioni consolari e quelle prettamente diplomatiche? Può raccontarci della sua esperienza e della diversità di approccio ai due ambiti?
Sotto il lavoro consolare ricadono tutti gli aspetti dell’assistenza ai connazionali che risiedono o si trovano momentaneamente all’estero, nonché il servizio visti: un servizio destinato non all’utenza dei connazionali, bensì ai cittadini del paese di accreditamento del funzionario, che si vogliono recare in Italia. Nell’uno e nell’altro caso, il lavoro consolare è delicato e importante: è il biglietto da visita che l’Italia dà allo straniero che intende visitarla o all’italiano che si è allontanato (o, magari, è nato all’estero o ci vive). Sotto il lavoro “diplomatico” ricadono aspetti molto diversi: lo svolgimento delle relazioni diplomatiche bilaterali. Esempio: preparare la visita del Ministro italiano dell’Agricoltura ad Algeri. Definire gli incontri, curare la parte protocollare della visita; predisporre la documentazione per il Ministro, cercare di approfittare della visita per portare a chiusura vari aspetti pendenti. Ricade nel lavoro diplomatico anche la cosiddetta diplomazia “multilaterale”: i colleghi che lavorano in Rappresentanza presso le Nazioni Unite a New York si occupano di tanti temi quanti sono quelli trattati al Palazzo di Vetro, cercando di portare sempre la visione, il contributo e l’interesse dell’Italia in ciascuno di essi. C’è, ancora, la diplomazia culturale e la diplomazia economica: ovvero l’assistenza alle nostre imprese che fanno affari all’estero (in questo senso, l’attività diplomatica si può misurare – e si misura – anche in termini di apporto al PIL, attraverso la crescita delle esportazioni) e la promozione della cultura italiana all’estero (che, invece, non si può misurare in termini di crescita di PIL o, almeno, non in maniera facile e diretta).
Come crede che l’esponenziale progresso tecnologico, i nuovi mezzi di comunicazione, stiano mutando la diplomazia? Ritiene che, essendo questa una professione tradizionalmente restia ai cambiamenti, possa esser compromessa la sicurezza nella trasmissione di informazioni sensibili?
La trasmissione di informazioni sensibili è sempre stata a rischio di compromissione. Sono mutate le tecniche utilizzate dalle spie o dai centri di interesse che vogliono carpire informazioni, ma il rischio non è legato solo all’attuale fase dell’informazione digitale e dell’iper-connettività. Direi anche che non è vero che la diplomazia è una professione restia ai cambiamenti: lo scopo della diplomazia forse lo è, e rimarrà intatto e uguale fino a che le società politiche si organizzeranno alla maniera di stati in una arena internazionale. Ma gli stati sono molto ricettivi ai cambiamenti, anche nella comunicazione. Parallelamente, lo è anche la diplomazia.
Può fornirci un giudizio complessivo sulla rete diplomatico-consolare italiana, che gode di apprezzamento internazionale? Quanto è importante il lavoro “nell’ombra” dei diplomatici nella concretizzazione degli indirizzi di politica estera forniti da governi di diversi colori politici?
Il lavoro “nell’ombra”, per usare la vostra espressione che mi pare calzante, è continuo, instancabile, minuzioso, coraggioso, a volte geniale. Senza esagerare vorrei dire che ho incontrato colleghe e colleghi davvero eccezionali impegnati in questa professione. Persone di grande cultura e spirito di sacrificio. Alcune con una marcia in più. La rete diplomatico-consolare italiana conserva una grande qualità, e consente all’Italia, anche in tempi di difficoltà di bilancio pubblico e spending review, di mantenere un alto profilo e confrontarsi ad armi pari con le altre grandi diplomazie. Spesso accade a spese della vita personale dei diplomatici. Ma con orgoglio dico che i colleghi di altri servizi diplomatici ci riconoscono la nostra bravura. Sono i connazionali a saperne poco di quello che facciamo, o magari a insinuare che sono più i privilegi che gli impegni (figuriamoci se poi sanno dei fardelli, quelli li conosciamo solo noi). Di questa scarsa conoscenza, comunque, devo dire che portiamo noi stessi la responsabilità.
Si avverte il cambiamento di un vertice ministeriale? E in cosa può variare un orientamento “politico” alla diplomazia?
Nella vita quotidiana del singolo diplomatico è chiaro che il cambiamento si avverte in maniera direttamente proporzionale alla vicinanza al vertice ministeriale, come una forza di gravità burocratica. I colleghi che dirigono il gabinetto del Ministro ne avvertono totalmente l’impatto. Di fatto, cambiano a ogni cambio di vertice. I direttori generali sono altresì significativamente influenzati, nello svolgimento del loro lavoro dirigenziale, da un cambio di vertice. Il giovane segretario di legazione che presta servizio all’estero solitamente lo è meno, anche se non si sa mai…
Come vede il suo futuro tra dieci/venti anni? In quale destinazione le piacerebbe servire e quale incarico in seno al Ministero vorrebbe ricoprire?
Tra venti anni spero di riuscire a osservare la regola del silenzio e dell’ascolto, che ho già menzionato due volte, altrettanto bene quanto ci riesco ora. Il dove sarò o il cosa farò mi importa meno. Così come mi importa meno, almeno per ora, la questione dell’incarico che potrò ricoprire. Dico sempre a chi me lo chiede che tre direttrici emotive caratterizzano questi miei primi sei anni dentro la carriera diplomatica italiana. La gratitudine: nonostante abbia lavorato duro per ottenere questo lavoro e continui a non risparmiarmi nello svolgerlo, ricordo sempre molto bene da dove vengo e la fortuna che rappresenta, al giorno d’oggi, per un giovane di 33 anni, avere un impiego come questo, a tempo indeterminato, ben remunerato, che consente di aprire una finestra di conoscenza sul mondo intero, pieno di responsabilità ma anche di onori. L’orgoglio: di rappresentare le Istituzioni italiane, la nostra bandiera ed il nostro Paese all’estero. La speranza: di contribuire nel mio piccolo – e, un domani, con la crescita professionale, anche nel mio “medio-piccolo” – ad un rinnovamento dell’Italia, intesa come apparato burocratico, ma anche come corpo sociale e come sistema culturale e morale.
Alessio Marsili per Policlic.it