Indice:
Il Regno Unito (incredibilmente) alle urne europee
Il voto europeo tra europeisti ed euroscettici
“In conclusione”…saranno elezioni di secondo ordine?
[sta_anchor id=”introduzione” unsan=”Introduzione”]Introduzione[/sta_anchor]
A cura di Federico Paolini
Il prossimo 26 maggio si terranno le elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo uscente dalla legislatura 2014-2019. Un’occasione importante per misurare l’attuale stato di salute delle istituzioni europee e la percezione dei cittadini nei confronti di un processo di integrazione che sembra in crisi (come testimoniato dal caso Brexit e dalla crescita dei sovranismi).
Nell’attuale temperie politica italiana, si parla più delle possibili conseguenze della tornata elettorale sulla maggioranza di governo che di temi più specificamente europei. Molti dei cittadini che si presenteranno alle urne probabilmente non hanno ancora le idee chiare, non solo sul candidato o sul partito da votare, ma anche semplicemente sui motivi per cui si vota.
La presente analisi si pone l’obiettivo di approfondire l’argomento per quanto concerne il percorso storico che ha portato all’elezione diretta del Parlamento Europeo, il sistema elettorale, il sistema partitico e l’importanza delle elezioni europee.
[sta_anchor id=”percorso-storico” unsan=”Percorso storico”]Percorso storico[/sta_anchor]: come si è arrivati all’elezione diretta del Parlamento Europeo?
Il 9-10 dicembre 1974 si tenne a Parigi un’importante conferenza su iniziativa del Presidente della Repubblica francese Valéry Giscard d’Estaing, alla quale parteciparono i Capi di Stato e di Governo dei nove Stati membri della comunità europea. Uno degli argomenti centrali di discussione fu quello relativo all’elezione diretta del Parlamento Europeo, un principio che era stato già affermato nei Trattati di Roma del 1957, ma che non era mai stato effettivamente attuato. Esso era infatti composto da rappresentanti nominati dai parlamenti nazionali.
Negli anni era stata proprio la Francia di De Gaulle a fare opposizione alla proposta di democratizzazione del processo di selezione dei parlamentari europei. Dalla parte dei sostenitori di tale riforma, invece, possiamo rintracciare le posizioni del governo italiano e di quello olandese, oltre che dello stesso Parlamento Europeo, che perseguivano l’obiettivo di una maggiore legittimazione dell’organo per creare un contrappeso istituzionale rispetto alla centralità del Consiglio, dove potevano predominare le istanze dei Paesi più grandi come la Francia, la Germania e il Regno Unito.
Giscard d’Estaing, inizialmente contrario, alla fine cedette[1]. Si arrivò così alla decisione che le prime elezioni del Parlamento Europeo si sarebbero tenute “a partire dal 1978”, in base alle regole che vennero successivamente stabilite dall’Atto Elettorale Europeo firmato a Bruxelles il 20 settembre 1976 ed entrato in vigore il primo luglio 1978. Il 7 e 10 giugno 1979 si tennero le prime elezioni del Parlamento Europeo.
[sta_anchor id=”il-sistema-elettorale” unsan=”Il sistema elettorale”]Il sistema elettorale[/sta_anchor]
Il sistema elettorale adottato per le elezioni del Parlamento Europeo è quello proporzionale. L’obiettivo di tale tipologia di sistema elettorale è quello di garantire la maggiore corrispondenza possibile tra i voti ottenuti e i seggi ripartiti[2]. Più nello specifico, l’art. 14, par. 2 del Trattato sull’Unione Europea dichiara che:
Il Parlamento Europeo è composto dai rappresentanti dei cittadini dell’Unione. Il loro numero non può essere superiore a settecentocinquanta, più il presidente. La rappresentanza dei cittadini è garantita in modo degressivamente proporzionale, con una soglia minima di sei membri per Stato membro. A nessuno Stato membro sono assegnati più di novantasei seggi[3].
“Proporzionalità degressiva” significa in questo caso che agli Stati membri con maggiore popolazione vengono assegnati più seggi rispetto agli Stati con minore popolazione. Ad ogni modo, quelli con popolazione meno numerosa ottengono comunque un numero di seggi maggiore di quello che avrebbero ottenuto con un metodo puramente proporzionale.
Secondo i Trattati di Roma, l’Atto Elettorale Europeo del 1976 avrebbe dovuto stabilire anche una procedura elettorale uniforme per tutto il territorio della comunità. In realtà non si è riusciti ad arrivare a un accordo in materia e di conseguenza, al di là delle indicazioni di principio sopracitate, gli Stati membri hanno la possibilità di “optare per un sistema a scrutinio di lista o con l’uninominale preferenziale con riporto di voti di tipo preferenziale; possono consentire o meno il voto di preferenza secondo le modalità da essi stabilite; possono costituire circoscrizioni elettorali o prevedere altre suddivisioni elettorali, pur senza pregiudicare il carattere proporzionale del voto; possono, infine, prevedere o meno una soglia minima, non superiore al 5% dei voti espressi, per l’attribuzione dei seggi”[4].
La legge elettorale italiana per le elezioni europee prevede una soglia di sbarramento al 4%, come previsto dalla modifica alla legge del 24 gennaio 1979 concernente l’elezione dei membri del Parlamento Europeo spettanti all’Italia, entrata in vigore il 24 febbraio 2009. Questo comporta che i partiti che non raggiungono tale soglia non hanno diritto ad alcun seggio e di conseguenza alla rappresentanza parlamentare europea. L’Italia eleggerà 73 deputati, lo stesso numero spettante al Regno Unito.
[sta_anchor id=”il-regno-unito-alle-urne-europee” unsan=”Il Regno Unito alle urne europee”]Il Regno Unito (incredibilmente) alle urne europee[/sta_anchor]: banco di prova per la Brexit o colpo di mano?
A cura di Guglielmo Vinci
Sembra davvero essere passata un’eternità dalla data del 23 giugno 2016, il giorno simbolico in cui ebbe luogo il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea vinto dal fronte del Leave, guidato da Nigel Farage, che diede ufficialmente inizio al percorso della Brexit. Sembrano essere passate ere geologiche anche dalla data del 9 giugno 2017, il giorno delle elezioni generali britanniche che videro il governo conservatore di Theresa May ottenere una maggioranza al lumicino rispetto all’opposizione laburista di Jeremy Corbyn, in quello che i tabloid britannici descrissero enfaticamente come un MAYhem (pandemonio). Sembra essere passato tanto tempo, ma a distanza di poco più di tre anni il cammino della Brexit, frutto della volontà del popolo sovrano britannico, è stato frastagliato da continui ostacoli.
Tale volontà, continuamente messa in discussione nel corso degli anni sia all’interno di Westminster che presso la stessa Unione Europea, non ha ancora raggiunto una conclusione nei lunghi negoziati tra Londra e Bruxelles. Lo stallo sulla Brexit si è poi manifestato clamorosamente quest’anno, con il governo della May che ha subito le più grandi umiliazioni della recente storia politica britannica (tre proposte di accordo sulla Brexit bocciate dal Parlamento con una maggioranza schiacciante). Tra opposizioni, proroghe e rimandi, il Consiglio Europeo ha infine approvato il mese scorso un’ultima e ulteriore proroga per il raggiungimento della Brexit, fissato ora per il prossimo 31 ottobre (il ribattezzato Halloween Brexit), “obbligando” contemporaneamente il Paese a partecipare alle incombenti elezioni europee.
Considerando anche il voto locale dello scorso 3 maggio, nel quale si è visto l’affermarsi di un netto voto di protesta contro i Tories e i Whigs a causa dell’indecisione della classe politica sul discorso della Brexit, Londra si presenta alla campagna elettorale con molti dubbi e incertezze su quello che potrà essere il risultato delle urne. Anche perché, nel frattempo, Nigel Farage, uno dei grandi assenti della storia recente della Brexit, è tornato in campo con un nuovo partito – The Brexit Party – con il quale intende scalzare e sconvolgere il sistema bipartitico britannico e dare vita a una nuova prospettiva politica per il proprio Paese. In questo scenario, quindi, c’è da chiedersi: che cosa rimane al Regno Unito della propria Brexit?
La risposta a questo vero e proprio dubbio amletico verrà data, incredibilmente, proprio dalle urne europee nelle quali si potranno (e dovranno) pronunciare i cittadini aventi diritto nel Regno Unito: è il prezzo da pagare per l’estensione della proroga per la Brexit, e il governo ha nei giorni scorsi confermato la propria partecipazione scegliendo la data del 23 maggio per “saldare il conto”.
Mentre viene pubblicato questo approfondimento, la campagna elettorale britannica si sta avviando alla propria conclusione con le guide dei vari partiti che si muovono per avere il sostegno dell’elettorato.
Secondo le testate giornalistiche locali, dal The Guardian fino al Daily Express, c’è però un grande assente: il Partito Conservatore di Theresa May, coinvolto da mesi in una faida interna alle proprie fila: dallo scorso Febbraio ad oggi, vari deputati hanno rassegnato le dimissioni in segno di protesta contro l’esecutivo e le sue manovre disastrose sulla Brexit. Per la stampa britannica e le indiscrezioni provenienti da fonti vicine a Downing Street, il governo sta impiegando risorse minime o nulle per la campagna elettorale, dedicando energie vicine allo zero per mostrare la propria vicinanza alle istanze dei propri elettori. Un sondaggio portato avanti dal Daily Express sul proprio sito Internet quattro giorni fa è stato addirittura impietoso: nessun elettore sarebbe al momento intenzionato a votare i Conservatori nelle incombenti elezioni europee (0%).
Sembra prospettarsi quindi una corsa a due con due personaggi chiave che si stanno impegnando attivamente per portare avanti il proprio messaggio politico. Da una parte Jeremy Corbyn (Labour Party), il quale, nonostante il calo del proprio partito nel voto locale di pochi giorni fa, intende lanciare un segnale forte e netto al governo della May affinché faccia un passo indietro, indica nuove elezioni generali e, soprattutto, permetta la possibilità di un secondo voto popolare sulla Brexit. Dall’altra, Nigel Farage per il The Brexit Party, soggetto in crescita costante per gli analisti britannici che ha facilmente scalzato come prima forza euroscettica del Regno Unito lo UKIP, il partito lasciato da Farage verso la fine dello scorso anno e ora in parabola discendente.
Contemporaneamente, altre figure osservano con interesse il voto europeo del Regno Unito, anche perché direttamente coinvolte: lo Scottish National Party (SNP) della Prime Minister Nicola Sturgeon, che in Europa è parte dei Verdi Europei-Alleanza Libera Europea, e lo Sinn Fein nordirlandese, parte della Sinistra Unitaria Europea. Il voto britannico, infatti, potrebbe riaprire prepotentemente i due fronti scottanti per Londra, ovvero l’indipendenza scozzese e il percorso di riunificazione tra Éire e Irlanda del Nord, un percorso accelerato dall’eventuale raggiungimento della Brexit che, de iure e de facto, cancellerebbe gli effetti degli Accordi del Venerdì Santo.
L’esito di questo voto potrebbe rappresentare lo spartiacque decisivo per lasciare un segno nella storia contemporanea del Regno Unito e della stessa Unione Europea, considerando anche la paradossale ipotesi del raggiungimento di un accordo sulla Brexit prima del 31 ottobre. Se infatti gli europarlamentari assumono e assumeranno il proprio incarico a partire dal 2 luglio prossimo, un eventuale accordo tra Londra e Bruxelles renderebbe la loro nomina del tutto inutile. Restano poche settimane per scoprire il verdetto che il popolo britannico sentenzierà con le proprie schede elettorali, un voto che può davvero significare tutto, una volta per tutte.
Tra il “sogno” degli Stati Uniti d’Europa e il risveglio delle Nazioni: [sta_anchor id=”il-voto-europeo-tra-europeisti-e-euroscettici” unsan=”Il voto europeo tra europeisti e euroscettici”]il voto europeo tra i blocchi europeisti ed euroscettici[/sta_anchor]
A cura di Guglielmo Vinci
Se da una parte il voto britannico può rappresentare il passo decisivo per l’uscita di Londra dall’Unione Europea, per tutti gli altri Stati membri il voto che vedrà coinvolti i cittadini che si recheranno alle urne può essere rappresentato come un campo di battaglia nel quale presto si scontreranno le scelte e le volontà e di due blocchi createsi nel corso degli ultimi anni. Le armi utilizzate? I voti degli europei.
Negli ultimi anni l’Europa ha vissuto (e sta continuando a vivere) un periodo di profonda trasformazione interna caratterizzata anche da fattori esterni, come le due spaventose crisi economiche dalle quali l’Eurozona si sta faticosamente riprendendo, a costi elevatissimi: una scia di insoddisfazione, rabbia, povertà e sangue (facendo riferimento ad alcuni esempi specifici, come quello della Grecia).
In un continente dove la potenza e gli interessi di pochi Stati, prevalentemente concentrati nell’area settentrionale d’Europa, hanno sovrastato e imposto scelte inique e controproducenti ai Paesi dell’area meridionale (i PIIGS), il caos politico interno nonché comunitario associato alla convergenza delle crisi economiche, di quelle migratorie e delle crisi politiche internazionali tra gli Stati Uniti, la Cina e la Russia hanno portato una maggioranza crescente della popolazione europea a non sentirsi più rappresentata dalle decisioni e dal sogno della classe politica “bipartisan” al potere: la visione di un’Unione non legata alla sola moneta comune ma sempre più interconnessa, interdipendente e soprattutto sovranazionale, sul modello sempre vivo di una federazione di Stati Uniti d’Europa.
Un modello che si sta mostrando nel suo totale fallimento: la politica europea si trova ad affrontare problematiche alle quali non ha saputo dare risposte concrete ed efficaci. Peggio ancora, non ha voluto darne, preparando il terreno per l’esplosione di questa insoddisfazione, un’esplosione che appare il risveglio da un lungo torpore mentale.
Il canto della rivolta si è diffuso dal nord al sud, a est come a ovest. Dal Regno Unito alle prese con la Brexit alla Francia messa sotto assedio dai Gilets Jaunes, in aperta rottura con l’esecutivo del Presidente Emmanuel Macron, e dove resta presente la figura politica di Marine Le Pen e del suo Rassemblement National. Dalla Germania indebolita nel quarto mandato di Angela Merkel e nella crisi della Große Koalition a favore dell’affermazione di Alternative für Deutschland, fino alla Grecia martoriata dalla crisi economica del 2011. Dall’Ungheria di Viktor Orban, assaltata dai membri dell’Unione per le sue politiche “antidemocratiche”, fino ai Paesi scandinavi, un tempo modello paradisiaco delle politiche socialdemocratiche che vedono ora in Danimarca, Svezia e Finlandia l’avanzata crescente di partiti e movimenti euroscettici e legati all’identità nazionale.
La Grecia, in particolare, è stata depredata dall’Unione Europea e dalla Troika, di fronte alle quali l’attuale Primo Ministro Alexis Tsipras ha chinato silenziosamente il capo per poter garantire la sopravvivenza della propria “n”azione ridotta a colonia, mentre uomini, donne e bambini morivano in povertà e disperazione. Sono notizie che fuoriescono soltanto in queste settimane: il “silenzio” degli organi d’informazione nostrani, come da poco “confessato” dal vicedirettore del Corriere della Sera Federico Fubini, era volto a non spaventare l’opinione pubblica circa la stabilità e la solidità dell’austera Unione Europea, con una vera e propria bomba a orologeria.
È un’Europa che vede nei suoi popoli e nelle sue nazioni la volontà di tornare a essere artefici del proprio destino, e che ora si presenta alle urne con tre diverse sigle e gruppi parlamentari dall’impronta variegata, moderata in alcuni casi, radicale in altri: i Conservatori e Riformisti Europei/ECR (Fratelli d’Italia in Italia); il gruppo Europa della Libertà e della Democrazia Diretta/EFDD (Movimento 5 Stelle) e il gruppo Europa della Libertà e della Democrazia/EFD (Lega Nord).
La possibilità di un exploit alle elezioni è presente e preoccupa il mondo della politica tradizionale europea, ma più in generale il fronte nemico dei cosiddetti sovranisti, una parola alla quale spesso si associano epiteti e definizioni strampalate. Sicuramente l’avanzata dei sovranisti è temuta per motivi differenti tanto dai socialisti e dai popolari quanto dai liberali dell’ALDE di Guy Verhofstadt e dalle varie formazioni della sinistra europea.
Eppure, nonostante questa panoramica, al termine “sovranismo” si possono associare diverse interpretazioni, alcune delle quali alquanto curiose. Esiste infatti il “pensiero sovranista” di chi vuole cambiare l’Unione Europea dall’interno (in Italia, con diverse accezioni, lo propongono la Lega, Fratelli d’Italia e, a debita distanza, il Movimento 5 Stelle); il pensiero di chi ne vuole uscire del tutto (CasaPound e Forza Nuova, ma anche il Partito Comunista di Marco Rizzo); ma anche il pensiero di chi vuole essere “un sovranista europeo” (Forza Italia) e accrescere “l’amore” – pardon – “la libido collettiva” legata all’Unione Europea e “persa” dai suoi cittadini.
Queste sono le recentissime parole (2 maggio) del Presidente uscente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, che possono certificare una visione grottesca, distorta e distante dalle grida di aiuto e dai focolai che esplodono in tutto il continente di una politica, di una forma mentis europea condivisa da “giovani figure” come quella di Silvio Berlusconi (ma soprattutto da Antonio Tajani) e descritta recentemente anche da Pierferdinando Casini ai microfoni di Policlic.it.
A distanza di un anno dalle elezioni nazionali, seguite dalla nostra testata con un approfondimento che ha avuto modo di seguire anche le dinamiche tra il nostro Paese e Bruxelles, è curioso poi osservare come le attuali forze di governo abbiano raggiunto pochi degli altisonanti obiettivi che si erano posti all’interno dei propri programmi elettorali. Ma anche all’interno della stessa coalizione di centrodestra il messaggio rivolto alle politiche dell’Unione Europea è stato mutuato, da alcuni ammorbidito: si può osservare come la foga quasi “rivoluzionaria” di alcuni soggetti si vada magicamente a placare, domata e ammaestrata una volta raggiunte determinate posizioni strategiche, nel nome di un equilibrismo stantio.
E mentre una parte del continente e del nostro Paese continua imperterrito a vivere in uno stato di negazione, urlando in italiano e in francese “Siamo Europei!” come slogan elettorale nonché manifesto di un ignoto credo pseudo-laico; mentre questa stessa parte riduce le istanze dell’altro contendente a frutto della propaganda russa di Vladimir Putin e si rallegra del monitoraggio operato dai social media – Facebook in primis – e da varie organizzazioni per contrastare i misteriosi hacker di Mosca, il vento chiamato “Sovranità” continua a soffiare possente sull’Europa, sull’Italia, nelle case di ognuno di noi.
Il 26 Maggio sarà un giorno di tempesta?
[sta_anchor id=”il-ppe” unsan=”Il PPE”]IL PPE[/sta_anchor] tra piattaforme programmatiche e divisioni interne
A cura di Riccardo Perrone
Il Partito Popolare Europeo (PPE) si presenta alle elezioni europee del 26 maggio forte del 29,4% ottenuto alle precedenti elezioni del 2014, che ha consentito ai popolari di risultare il gruppo politico più numeroso all’interno dell’Europarlamento, nonché di esprimere il Presidente della Commissione Europea uscente, il lussemburghese Jean-Claude Juncker. Ripetere o migliorare questo risultato non sarà compito facile per il partito, alle prese con due importanti problemi, strettamente connessi l’uno con l’altro.
Innanzitutto, il PPE si trova a dover far fronte alla presunta avanzata dei partiti cosiddetti sovranisti ed euroscettici, le cui proposte sembrano attrarre e convincere parte dell’elettorato di centrodestra, considerato il principale “bacino di utenza” dei popolari.
È per questo motivo che il programma del partito, nell’affrontare tematiche molto sentite dalla popolazione e che con ogni probabilità determineranno l’esito dell’imminente consultazione elettorale, contiene ricette e soluzioni molto nette, che sembrano formulate apposta per tentare di arginare un eventuale migrazione di consensi verso i concorrenti sovranisti.
Su tutte, si pensi ai numerosi riferimenti a tematiche quali la difesa dell’identità culturale europea e delle sue radici greco-romane e cristiane, e la conseguente salvaguardia delle varie culture e tradizioni nazionali che ne costituiscono l’essenza, o la necessità di ridurre e controllare l’incidenza e la portata del fenomeno migratorio. Quest’ultimo proposito, secondo il PPE, è realizzabile favorendo i rimpatri degli immigrati irregolari; rafforzando la protezione dei confini esterni dell’Unione europea mediante la conclusione di accordi con i Paesi del Nord Africa che prevengano partenze incontrollate verso il continente europeo; e migliorando le condizioni di vita dei Paesi di origine degli immigrati tramite l’elaborazione di un nuovo “Piano Marshall”, con un incremento degli investimenti privati che possano stimolare una crescita economica delle zone più povere e disagiate.
Accanto a queste misure, non mancano comunque altre ricette volte ad affrontare questioni che in egual misura attanagliano l’attuale Unione, quali la salvaguardia della salute e dei diritti dei lavoratori, la creazione di nuovi posti di lavoro o i problemi derivanti dai cambiamenti climatici. Queste esigenze, secondo i popolari, possono essere soddisfatte solo tramite il perseguimento di un ideale di economia sociale di mercato, che coniughi una crescita economica sostenibile con la salvaguardia del territorio e della qualità della vita.
Resta tuttavia da vedere se il Partito Popolare avrà i numeri, la forza e la compattezza necessari a mettere in pratica quanto scritto nel programma. Al suo interno infatti (e qui veniamo al secondo problema) permangono opinioni diverse e spesso contrastanti riguardo al posizionamento politico che il Partito dovrà assumere nello scacchiere del nuovo Parlamento, e segnatamente all’atteggiamento da tenere nei confronti delle forze sovraniste e di una conseguente “apertura a destra”. Si va infatti da un rifiuto netto e incondizionato – prospettato dai cosiddetti “falchi dell’austerità”, tra i quali figurano, ad esempio, numerosi membri della CDU/CSU tedesca e il Cancelliere austriaco Sebastian Kurz – a una posizione più conciliante portata avanti dal leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, che non esclude a priori un dialogo costruttivo con quelli che lui chiama “sovranisti illuminati”.
Per non parlare poi dei dissidi all’interno della famiglia politica popolare, che si acuiscono ogni giorno di più sfociando in contrasti e vere e proprie fratture. È questo il caso che vede protagonisti il Primo Ministro ungherese Viktor Orbàn e il suo partito Fidesz, sospesi dall’assemblea politica del PPE a causa dell’approvazione di leggi ritenute illiberali e antidemocratiche dall’assise popolare, oltreché per una serie di decisioni e dichiarazioni controverse, aventi tra gli altri come bersaglio il Presidente Juncker. Per tutta risposta Orbàn, in una conferenza stampa congiunta con il Vice-Cancelliere austriaco Heinz-Christian Strache (FPOE), ha dichiarato che il suo Partito non sosterrà il candidato del PPE Manfred Weber nella corsa alla presidenza della Commissione europea, in quanto reo, a suo avviso, di aver offeso l’Ungheria e il suo popolo.
[sta_anchor id=”i-socialisti-in-europa” unsan=”I Socialisti in Europa”]I Socialisti in Europa[/sta_anchor]: tra problemi nazionali e l’ascesa sovranista
A cura di Luca Di San Carlo
L’altro polo politico di riferimento della politica europea è sicuramente quello socialista. Da sempre protagonista nel meccanismo di alternanza (o più spesso di coalizione) che ha caratterizzato la politica UE, i socialisti si pongono come alternativa non solo ai popolari ma, in maniera più netta, rispetto ai sovranisti.
Su cosa è fondato il loro programma? Quali obiettivi si pongono per migliorare l’Europa e arginare l’orda sovranista? Come cambia la loro distribuzione rispetto ai diversi Stati Europei? E infine, questa compagine politica sarà in grado di arrestare l’ondata nazionalista? Non possiamo rispondere a tutte le domande, però possiamo cercare di capire il ruolo che ricopriranno i socialisti nel nuovo Parlamento Europeo, e quindi anche nelle altre istituzioni, considerando i sondaggi per le prossime elezioni europee e i risultati di quelle del 2014.
Secondo i dati del Parlamento Europeo, i seggi ottenuti dai socialisti nel 2014 sono stati 191, mentre secondo le ultime proiezioni dovrebbero scendere a 149. Una tendenza che non sorprende, sia in virtù dell’andamento delle diverse componenti nazionali del PSE sia perché la sinistra si trova in una posizione non molto facile dal punto di vista ideologico, soprattutto in quei Paesi dove i sovranisti hanno visto crescere i propri consensi. Molte delle tematiche che solitamente rientravano nei discorsi della sinistra hanno cambiato casa, trasferendosi presso quei partiti sovranisti che mettono nello stesso calderone protezione dei lavoratori e difesa dei confini.
Tante zone del nostro Paese, ma non solo, hanno compiuto una vera e propria inversione di marcia: per citare un caso simbolo, ricordiamo Sesto San Giovanni, quella che era la ex-Stalingrado d’Italia.
All’interno della famiglia socialista perde sicuramente peso la compagine italiana, con un PD in leggerissima ripresa ma lontano dal 40% di 5 anni fa. A fungere da traino questa volta è il PSOE, il Partito Socialista Operaio Spagnolo, uscito vincitore dalle ultime elezioni politiche di Spagna e unico partito tra quelli della sinistra europea che sia riuscito a vincere pur stando al governo.
A guidare i socialisti come candidato alla carica di Presidente della Commissione Europea alle prossime elezioni del 26 maggio è Frans Timmermans. Commissario europeo per la migliore legislazione, le relazioni interistituzionali, lo stato di diritto e la carta dei diritti fondamentali, è anche vice presidente dell’attuale Commissione Juncker dal 2014. Prima di entrare nei ranghi delle istituzioni europee, è stato ministro degli esteri dei Paesi Bassi (2012-2014) e ha prestato servizio presso l’ambasciata olandese a Mosca.
Nell’intervista rilasciata lo scorso 26 aprile a Euronews, lo Spitzenkandidaten (candidato-guida della coalizione, in basso nda) ha insistito su alcuni temi cari alla sinistra, che troviamo anche nel manifesto del partito per le prossime europee.
Primo fra tutti, il delicato tema delle migrazioni. Timmermans auspica un approccio pragmatico al problema, senza tuttavia demonizzare chi arriva dall’altra parte del Mediterraneo etichettando queste persone come invasori:
Dicono che queste persone non dovrebbero stare qui, sono una minaccia. Dobbiamo essere fermi contro questo discorso: possiamo e dobbiamo farlo se vogliamo rimanere in contatto con i nostri valori. Dobbiamo rimanere un rifugio sicuro per i veri rifugiati, ma dobbiamo anche dire a chi non ha il diritto di asilo che deve ritornare nel suo Paese d’origine.
“Aiutiamo a casa loro”? Non così esplicitamente, anche se le argomentazioni di partenza sono diverse rispetto ai sovranisti. Anche nel manifesto emerge infatti la necessità di cambiare passo nella gestione delle migrazioni e dell’integrazione, ribadendo l’impegno per il rafforzamento della cooperazione con l’Africa, cercando di affrontare e risolvere tutte le cause delle migrazioni, da quelle naturali a quelle economiche.
Viene toccata anche la questione fiscale, materia per cui urge una maggiore integrazione tra gli Stati per garantire maggiore equità a livello europeo. Il programma socialista, infatti, prevede un rafforzamento della fiscalità europea, un coordinamento comune nelle politiche di lotta all’evasione, nell’ottica di una maggiore giustizia fiscale.
Non potevano mancare il lavoro e il welfare, pilastri della sinistra. Per meglio integrare il mercato del lavoro e la protezione sociale, i socialistici propongono la creazione di un meccanismo europeo complementare di assicurazione contro la disoccupazione e l’istituzione di un’autorità europea del lavoro.
Ultime, ma non per importanza, la questione ambientale, quella dei diritti civili e dei giovani. Secondo il PSE, è necessario continuare il percorso di riduzione delle emissioni per il raggiungimento di un’economia sostenibile attraverso diversi strumenti: fondi per la transizione ecologica, miglioramento ed efficientamento dei sistemi di trasporto pubblico, riduzione dei consumi energetici. Tutto questo nel quadro degli obiettivi di sviluppo sostenibili fissati dall’agenda ONU 2030 e di quanto stabilito nell’accordo di Parigi. Sui diritti civili, ferma è l’opposizione a quanto è avvenuto a Verona. Così Timmermans:
Al Congresso mondiale delle famiglie di Verona si è sostenuto che i valori familiari siano quelli in cui le donne devono stare zitte, avere bambini e i gay non possano essere buoni genitori. Non sono d’accordo, sono per l’uguaglianza e penso che i bambini si meritino genitori che li amino, premurosi, sia che si tratti di due uomini, di due donne, di un uomo e di una donna o di un solo genitore.
Infine i giovani. Cosa fare per il loro futuro? Sicuramente puntare sul rafforzamento e l’ampliamento del programma Erasmus+, un’opportunità di approfondimento delle conoscenze e di apertura. Garantire a tutti l’accesso all’istruzione, creare un bonus europeo della cultura per sostenere l’accesso di tutti i giovani alle attività culturali. Non solo Erasmus e cultura, tuttavia, ma il rafforzamento e miglioramento della garanzia giovani, strumento per la ricerca di un impiego.
Al netto dei programmi, la prossima tornata elettorale si preannuncia come una sfida non facile per i socialisti, soprattutto perché, con il rafforzamento dei sovranisti, gli avversari forti da affrontare sono aumentati rispetto alle ultime elezioni.
In conclusione…saranno [sta_anchor id=”elezioni-di-secondo-ordine” unsan=”elezioni di secondo ordine”]elezioni di secondo ordine[/sta_anchor]?
A cura di Federico Paolini
Le elezioni del Parlamento Europeo del 2014 hanno avuto una partecipazione elettorale complessiva del 42,4%, la più bassa mai registrata dalla prima elezione del 1979. In Italia è stata del 57,2%, quindi più alta della media totale, mentre in alcuni Paesi si sono registrati rilevanti tassi di astensionismo. Basti pensare che in Slovacchia la partecipazione è arrivata solo al 13%.
Ad ogni modo, la partecipazione elettorale a livello europeo è più bassa rispetto a quella delle elezioni nazionali. Questo fenomeno si può spiegare attraverso la teoria formulata da Karlheinz Reif e Hermann Schmitt nel 1980, secondo la quale le elezioni europee sarebbero second order elections, ovvero elezioni di secondo ordine rispetto a quelle nazionali[5].
In particolare, le caratteristiche fondamentali del modello di second order elections sono: la scarsa affluenza alle urne, la tendenza degli elettori a votare per partiti diversi da quelli di governo, la maggiore crescita di partiti nuovi o minori rispetto alle elezioni nazionali. Altro aspetto importante è quello che porta a legare tale teoria con le elezioni di medio termine americane. In esse solitamente il partito del presidente perde voti e si registra una bassa partecipazione elettorale, proprio come avviene nelle elezioni europee[6].
Per rintracciare le cause di tale fenomeno elettorale, può risultare utile citare le parole del politologo Gianfranco Pasquino:
Un po’ tutti i partiti europeisti si sono indeboliti da una ventina d’anni a questa parte, ma, soprattutto, hanno mostrato – fin dall’inizio e, in seguito, in misura crescente – scarsa inclinazione e limitata capacità a interessare le loro rispettive opinioni pubbliche.
Sempre Pasquino conclude così la sua diciannovesima lezione sull’Europa:
Le elezioni tutte stabiliscono un rapporto fra l’offerta di politiche e di rappresentanza formulata dai partiti e dai candidati, e la risposta, di accettazione o di rifiuto – o, più tristemente, di indifferenza – di quelle politiche e di quella rappresentanza a opera degli elettori. Questo circuito, innervato dalla limitata assunzione di responsabilità degli europarlamentari per il fatto, il non fatto, il mal fatto, non è riuscito nel corso di venticinque anni e di otto elezioni, ad affermarsi e a consolidarsi[7].
La sensazione è che ci sia ancora molto lavoro da fare per creare una effettiva coscienza europea, una identità dal punto di vista culturale che porti il cittadino europeo a riconoscersi e a sentirsi rappresentato dalle istituzioni comunitarie. La sensazione è che soltanto su questa strada si possa arrivare a un maggiore tasso di partecipazione, ma soprattutto, cosa ancor più importante, a una partecipazione consapevole.
Federico Paolini per www.policlic.it
Inserti a cura di Guglielmo Vinci, Luca Di San Carlo e Riccardo Perrone
[1] L. Rapone, Storia dell’integrazione europea, Roma, Carocci Editore, 2015, pp. 78-79.
[2] G. Pasquino, Nuovo corso di Scienza Politica, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 131.
[3] C. Curti Gialdino (a cura di), Codice Breve dell’Unione Europea, Napoli, Edizioni Giuridiche Simone, 2017, pp. 24-25.
[4] R. Adam, A. Tizzano, Manuale di Diritto dell’Unione Europea, Torino, Giappichelli Editore, 2017, pp. 90-91.
[5] G. Pasquino, L’Europa in trenta lezioni, Milano, Utet, 2017, p. 101.
[6] K. Reif, H. Schmitt, Nine second-order national elections – A conceptual framework for the analysis of european election results, in European Journal of Political Research, 8 (1980) pp. 3-44.
[7] G. Pasquino, L’Europa in trenta lezioni, op. cit., pp. 100-102.