Le elezioni politiche italiane riescono sempre, in un modo o nell’altro e in maniera più o meno eclatante, a sorprendere analisti, sondaggisti, opinionisti ed elettori. O almeno questo è stato il trend che si è registrato nelle ultime tornate elettorali. L’ultima non fa eccezione: nonostante questa volta le previsioni degli istituti demoscopici si siano rivelate più vicine alla realtà di quanto non sia accaduto nel recente passato, infatti, non sono mancate di certo sorprese degne di nota. A cominciare dal pieno di voti fatto registrare dal MoVimento 5 stelle e dal considerevole incremento della propria forza elettorale da parte della Lega di Matteo Salvini, fino ad arrivare al flop delle cosiddette forze responsabili, Forza Italia e soprattutto il Partito Democratico guidato da Matteo Renzi. In attesa che si completi l’iter politico-istituzionale che condurrà all’insediamento delle camere, all’elezione dei rispettivi presidenti e infine alla formazione di un governo – si spera in tempi brevi, ma si nutrono forti dubbi a riguardo – è possibile dunque procedere ad una panoramica riguardante i promossi, i bocciati ed i rimandati della consultazione popolare del 4 marzo 2018.
Promossi
MoVimento 5 stelle (VOTO 9,5): è il vero vincitore di questa tornata elettorale. I loro consensi si attestano poco sopra al 32%, con un incremento di oltre 7 punti percentuali rispetto al più che lusinghiero 25% (circa) ottenuto nelle politiche del 2013. Un dato che va al di là di ogni più rosea aspettativa, ossia quel 28/29% di cui il partito capitanato da Luigi Di Maio era accreditato nei sondaggi pre-elettorali.
La crescita vertiginosa, esponenziale ed apparentemente inesorabile ed inarrestabile di quello che è a questo punto il primo partito italiano, sembra dovuta ad una pluralità di fattori: innanzitutto, la volontà degli italiani di lanciare un vero e proprio grido di protesta, e dunque l’intento di sovvertire un “sistema” considerato (a torto o a ragione) iniquo, esasperante e in quanto tale non più sostenibile; in secondo luogo, la voglia di “onestà”, di qualcosa di nuovo, percepito (anche qui, a torto o a ragione) come diverso e distante anni luce dalla cosiddetta casta, colpevole ai loro occhi di aver gestito in modo sciagurato il potere.
Alla luce di queste considerazioni, è particolarmente esplicativo il fatto che il MoVimento abbia fatto il pieno di consensi soprattutto nel Mezzogiorno, proprio laddove sono presenti in misura maggiore situazioni di atavica arretratezza economica, comunque acuita dalla congiuntura economica negativa che ha avuto inizio nel 2008, e che solo nell’ultimo anno ha visto l’inizio di una inversione di tendenza. Ciò potrebbe aver contribuito nella maggioranza dei cittadini del sud Italia all’idea che non vi fosse altra via di uscita all’infuori di quella costituita dal MoVimento e dal reddito di cittadinanza, vero e proprio cavallo di battaglia dei grillini in campagna elettorale. Tali sentimenti e ragioni sono stati proiettati nel voto espresso a favore di questo partito, e sono così forti e così radicati a tal punto da consentire agli elettori pentastellati di passare sopra ad alcuni problemi – più o meno gravi – incontrati dal loro partito di riferimento nel corso della propria attività politica (si pensi alle diverse espulsioni perpetrate dai vertici del MoVimento nei confronti di alcuni candidati, o alle questioni relative alla restituzione di parte delle indennità parlamentari), o di quella più propriamente di governo (si vedano ad esempio le numerose difficoltà incontrate dalla giunta Raggi a Roma, soprattutto nella fase iniziale del mandato).
Lega (VOTO 9): il partito guidato da Matteo Salvini, oltre ad entrare di diritto nel novero dei vincitori, è da considerare senza alcun dubbio la sorpresa di questa tornata elettorale: certo, i sondaggi lo accreditavano di un consenso molto più consistente di quello ottenuto nelle precedenti elezioni politiche dalla “vecchia” Lega Nord di bossiana e maroniana memoria (poco più del 4%), ma nessuno pensava potesse arrivare a sfiorare il 18%, mancando di poco addirittura l’aggancio al Partito Democratico. Evidentemente ha dato i suoi frutti la trasformazione del partito messa in atto da Salvini con l’abbandono – o comunque l’attenuazione – di posizioni secessioniste ed antimeridionali a vantaggio di tematiche quali la contrarietà rispetto ai fenomeni migratori – o comunque l’intenzione di regolamentarli in maniera più stringente- o la volontà di ridiscutere i vincoli europei, o ancora l’abolizione della riforma Fornero riguardante il sistema pensionistico-previdenziale, consentendo alla Lega di diventare una forza politica di respiro nazionale, con percentuali lusinghiere e soprattutto una crescita esponenziale anche al sud.
Ciononostante, è al nord che il partito di Salvini continua a riscuotere il maggior numero di consensi, in special modo nelle roccaforti lombarde e venete, ma con una crescita molto significativa in quelle regioni che sono sempre state considerate “rosse” – si veda in primis l’Emilia-Romagna. Ciò è dovuto soprattutto all’impostazione che la Lega ha dato al proprio programma economico, incentrato su misure quali la flat tax al 15% o l’invocazione di provvedimenti più incisivi a difesa del made in Italy. Impostazione che è risultata essere decisamente gradita all’elettorato settentrionale, e in particolar modo ai cosiddetti ceti produttivi e imprenditoriali, attratti da una politica economica volta a “liberare energie” sotto forma di liquidità, al fine di incentivare appunto gli investimenti privati. Politica economica che se vogliamo costituisce una risposta leghista all’impostazione del MoVimento 5 stelle, maggiormente assistenzialista e incentrata in misura maggiore sull’intervento pubblico, che a sua volta ha fatto presa sull’elettorato del Mezzogiorno, consegnandoci un Paese letteralmente spaccato in due.
Last but not least con questo risultato la Lega conquista il primato di consensi nell’ambito della coalizione di centrodestra, sopravanzando Forza Italia di ben 3 punti e mezzo percentuali. Siamo in presenza di una mutazione genetica di quest’area politica? Il sorpasso sancisce definitivamente il passaggio ad un centrodestra a trazione sovranista e in un certo senso estremista e anti-sistema? Il responso delle urne potrtebbe farci propendere per il sì, ma saranno solamente le strategie future dei partiti e gli imminenti passaggi politico-istituzionali a darci un’indicazione più precisa in tal senso.
Potere al popolo (VOTO 7): Vi starete chiedendo: com’è possibile che un partito che ha riscosso appena l’1,1% dei voti espressi sia da inserire nel novero dei promossi di questa tornata elettorale? Ci sono diversi motivi, due dei quali sono decisamente rilevanti: in primo luogo bisogna tener conto del fatto che la lista in questione, pur essendo un cartello di partiti già esistenti, quali ad esempio Rifondazione comunista e il Partito comunista italiano, è stata costituita appena 3 mesi prima dell’appuntamento elettorale, con poco tempo a disposizione per farsi conoscere dall’elettorato; in secondo luogo il risultato è da considerarsi più che buono anche e soprattutto se confrontato con il risultato di Liberi e uguali (di cui parliamo a parte), partito in un certo senso ideologicamente affine alla lista guidata dalla ricercatrice napoletana Viola Carofalo. Quest’ultima considerazione rappresenta la dimostrazione pratica del fatto che probabilmente non sono le idee più o meno social-comuniste e marxiste di cui si fanno portatori questi contenitori a non fare più presa sull’elettorato “duro e puro” di sinistra, ma più semplicemente sono i volti di chi vorrebbe personificare queste tendenze a non essere più considerati credibili (si vedano i vari Bersani, D’Alema, ecc.).
Rimandati
+Europa (VOTO 6): La lista di orientamento europeista e liberale, formata dai Radicali Italiani di Riccardo Magi, dal movimento Forza Europa di Benedetto Della Vedova e da Centro Democratico di Bruno Tabacci, guidata dalla storica esponente radicale Emma Bonino e facente parte della coalizione di centrosinistra, ha ottenuto circa il 2,5% dei consensi, mancando di poco il raggiungimento della soglia di sbarramento (3%). Il responso delle urne si presta ad una pluralità di considerazioni: può essere considerato positivo se si tiene conto del fatto che la lista in questione è stata lanciata solo pochi mesi prima della consultazione elettorale, avendo incontrato inoltre importanti ostacoli di natura tecnica (si veda la querelle relativa alla presentazione delle liste). Oltre a ciò, si aggiunga il “coraggio” delle posizioni assunte dai seguaci di Emma Bonino a favore dell’apertura alla concorrenza e al mercato di settori strategici quali l’energia ed il trasporto pubblico, o della flessibilità del mercato del lavoro, o ancora l’invocazione di misure finalizzate alla riduzione del debito e della spesa pubblica. Tutto questo in un periodo nel quale spirano anche al di fuori dei confini italiani “venti contrari” a questo tipo di impostazione fortemente influenzata da un europeismo convinto.
Tuttavia, non si può non nascondere un pizzico di delusione per un risultato che dà una sensazione di incompiutezza, ciò a maggior ragione per un movimento politico che dichiarava di porsi obiettivi più ambiziosi, che ha goduto di una visibilità mediatica degna di nota – soprattutto se rapportata alla proria effettiva forza elettorale – e che ha ricevuto il sostegno, seppur spesso esterno, di diversi esponenti di peso della politica italiana (dal Presidente del Consiglio Gentiloni al Ministro dello sviluppo economico Calenda). Resta comunque la sensazione che si sia trattato di un esperimento-pilota in vista della possibile futura creazione di un partito più ampio che in qualche modo possa ripercorrere le orme di La République en marche!, il partito fondato nel 2016 dal Presidente francese Emmanuel Macron e caratterizzato da posizioni per certi versi molto simili.
Fratelli d’Italia (VOTO 6-): Il partito guidato da Giorgia Meloni ottiene il 4,3% dei consensi, confermandosi come terza forza dello schieramento di centrodestra. Si tratta di un risultato più che soddisfacente, se confrontato con i voti ottenuti alle precedenti politiche del 2013 (1,9%). I consensi sono più che raddoppiati. Tuttavia, se invece assumiamo come termine di paragone il 3,66% ottenuto alle elezioni europee del 2014, in una fase in cui il partito sembrava poter avere ancora dei buoni margini di crescita, è chiaro che l’ultimo responso delle urne sia da considerare come appena sufficiente. Questa considerazione assume maggior forza alla luce dei sondaggi pre-elettorali, in base ai quali i vari istituti demoscopici accreditavano ad Fdi un consenso che oltrepassava il 5% senza troppi patemi. Siamo dunque di fronte ad una crescita interrotta, o comunque rallentata, dovuta molto probabilmente all’exploit della Lega di Salvini, che assumendo posizioni sovraniste e concezioni programmatiche molto simili a quelle del partito della Meloni, ha finito con ogni evidenza per eroderne il consenso, o comunque per non farlo crescere oltre una certa soglia. A poco sono serviti i tentativi della leader di distinguersi in maniera più chiara dalla Lega, quali ad esempio l’inserimento nel programma elettorale di misure a salvaguardia della Famiglia, e dunque volte anche ad incentivare la natalità e ad agevolare la fruizione di strutture come gli asili nido.
Bocciati
Forza Italia (VOTO 5): Pur essendo stata la coalizione di centrodestra quella più votata in questa ultima tornata elettorale (37% circa), il risultato conseguito dal partito di Silvio Berlusconi non può certamente essere considerato soddisfacente. Il 14% ottenuto, infatti, costituisce il minimo storico per un partito guidato dall’ex Presidente del Consiglio. Trattandosi di un partito personalistico, la negatività di questo responso è dovuta alla flessione della popolarità di cui l’ex Cavaliere ha goduto in passato presso la gran parte del cosiddetto elettorato moderato. A Berlusconi, infatti, questa volta non è riuscito il “miracolo”, ossia una delle sue proverbiali rimonte che lo hanno visto spesso risultare trionfante anche quando si trovava in posizione di apparente svantaggio. Si ha la netta sensazione che quei momenti non siano ormai più ripetibili, un po’ perché Berlusconi mostra fisiologici segni di stanchezza, ma soprattutto perché dopo ben 24 anni sulla scena politica, l’elettorato non crede più ai suoi ormai obsoleti e ripetitivi espedienti di comunicazione politica (uno su tutti, il “contratto con gli italiani”) e nemmeno alle sue promesse, spesso di difficile realizzazione. La crisi del leader ha finito inevitabilmente con il travolgere l’intero notabilato del partito, privo di un’idea precisa e univoca riguardo la direzione che lo sviluppo del sistema-Paese dovrebbe prendere. Tutto ciò fa apparire FI come una realtà allo sbando, per di più in balìa delle “mire espansionistiche” che Salvini ha sul centrodestra, essenso la sua Lega il primo partito per numero di consensi nell’ambito di questa coalizione.
Liberi e uguali (VOTO 5-): Il partito guidato dall’ex magistrato antimafia Pietro Grasso ottiene il 3,3% dei consensi. Un risultato deludente e molto al di sotto delle aspettative dei sondaggisti (intorno al 6%). Si tratta di una bocciatura senza attenuanti per un partito che voleva porsi come interlocutore privilegiato degli “sconfitti” della globalizzazione, i quali hanno invece finito per volgere le loro attenzioni e preferenze verso i partiti di destra, il MoVimento 5 stelle e in misura minore anche verso Potere al popolo. Ciò è dovuto soprattutto al fatto che i frontman del partito, da Grasso a Bersani fino ad arrivare a Massimo D’Alema, appartengono alla vecchia nomenklatura che è comparsa sulla scena politica o istituzionale più di trent’anni fa, e che per lo più ha con ogni probabilità perso il contatto con la propria gente e con i loro problemi. Grossi errori sono stati commessi anche per ciò che concerne la scelta della leadership del partito: Pietro Grasso, infatti, pur essendo un grande magistrato con capacità riconosciute da tutti, nonché presidente uscente del Senato, è apparso poco credibile nel ruolo di capo politico di un partito che dovrebbe saper parlare senza filtri ai lavoratori, trasmettendo loro speranza e fiducia per il futuro. Un errore organizzativo, che si è ripercosso anche sulla comunicazione politica, risultata decisamente insipida e priva di sussulti, e che ha finito per produrre conseguenze nefaste per le sorti elettorali di Leu.
Partito Democratico (VOTO 4,5): È senza alcun dubbio la delusione più grande di questa tornata elettorale. Il partito guidato da Matteo Renzi riscuote appena il 18,4% dei consensi espressi, valore al di sotto di quanto previsto dai sondaggisti (22/23%), con un calo considerevole rispetto alle politiche del 2013 (26,4%) e soprattutto lontano anni luce dal 40,8% ottenuto alle elezioni europee del 2014. Siamo dunque in presenza di una vera e propria battuta d’arresto, che probabilmente è legata a doppio filo alla sconfitta del fronte del “sì” al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, o quantomeno al modo in cui la segreteria del PD ha fatto fronte a quella sconfitta. In quell’occasione, infatti, il segretario Matteo Renzi si dimise dal ruolo di Presidente del Consiglio, ma preferì ricandidarsi alla guida del partito. Nonostante sia stato riconfermato segretario del PD a furor di popolo nelle primarie del 30 aprile 2017, questo modo di procedere lo ha reso agli occhi di gran parte dell’elettorato – anche di sinistra- un politico “come gli altri, uno della casta”, che pur di non abbandonare la propria posizione, preferisce non soffermarsi in maniera approfondita sulle cause di una sconfitta comunque cocente.
In virtù di ciò, in un momento storico in cui è la figura del leader – e non più il partito nella sua dimensione collegiale – ad attirare le simpatie o le antipatie dell’elettorato, si è verificata una forte tendenza “antirenziana” che alla fine ha finito con il prevalere. Questa tendenza, unitamente all’ondata “antisistema” che ha travolto i cosiddetti partiti tradizionali, ha oscurato qualsiasi altro elemento di riflessione, a cominciare da alcuni interventi riformisti che hanno permesso all’Italia dei fare dei passi in avanti sia per ciò che concerne i diritti civili, sia per quelli sociali (ad esempio la legge promulgata per contrastare il caporalato, una delle grandi piaghe che affliggono il nostro Paese), per non parlare poi dell’inversione di tendenza che si è iniziata a registrare in ambito economico durante l’attività dei governi presieduti da Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Primi passi verso un ritorno alla crescita economica, che evidentemente però non è ancora percepita dalla popolazione, molto spesso alla prese con un tasso di disoccupazione, soprattutto giovanile, che è ancora molto alto rispetto alla media europea.
Su questo fronte, il Partito Democratico ha cercato di combattere il fenomeno, riuscendo tramite misure di agevolazione fiscale nei confronti delle imprese, a creare nuovi posti di lavoro. Gran parte di essi però, in base ai dati ISTAT, risultano essere a tempo determinato, e di conseguenza il senso di precarietà, di incertezza e di paura ha finito con il prevalere su quanto di buono fatto. Tutto ciò ha favorito un distacco tra il PD e parte del suo elettorato più affezionato: insegnanti, lavoratori del settore pubblico e soprattutto i più “deboli” economicamente, i precari, coloro che più di chiunque altro necessitano di tutele, i quali hanno preferito indirizzare altrove le loro preferenze.
Come si evince da questi grafici, il risultato delle ultime elezioni politiche in combinato disposto con la legge elettorale in vigore ha condotto ad un parlamento senza una maggioranza chiara ed univoca, per cui la formazione di un nuovo esecutivo che ottenga la fiducia parlamentare non sarà sicuramente agevole. A breve si terranno le votazioni per i presidenti della Camera dei Deputati (eleggibile a maggioranza dei 2/3 nei primi tre scrutini, poi basterà quella assoluta) e del Senato (eleggibile a maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea nei primi due scrutini, nel terzo è sufficiente la maggioranza assoluta dei senatori presenti, e in caso di ulteriore fumata nera si procederà al ballottaggio tra i due candidati più votati), che potrebbero far intravedere la configurazione di una possibile maggioranza di governo. In una situazione del genere, è chiaro che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella rivestirà un ruolo ancor più centrale, essendo affidato a lui il compito di trovare una soluzione che consenta di uscire dallo stato di impasse in cui ci si trova.
Riccardo Perrone per Policlic.it