Questo articolo è estratto dalla rivista Policlic n. 2 pubblicata il 27 giugno.
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Quali sono le cause e le conseguenze del cambiamento climatico in corso? Che impatto ha sul nostro Paese? E cosa possiamo fare per mitigarlo? È possibile affrontare questo tema anche nel quadro della crisi causata dalla pandemia o c’è il rischio che non se ne colga l’urgenza? Ne abbiamo parlato con Vittorio Marletto (in foto, a destra), dirigente responsabile dell’Osservatorio clima di Arpae Emilia-Romagna, coordinatore del comitato scientifico dei Verdi Emilia-Romagna, membro del gruppo Energia per l’Italia (coordinato da Vincenzo Balzani) e collaboratore dei siti www.climalteranti.it e www.rinnovabili.it.
Che cos’è l’effetto serra?
Un fenomeno naturale. La Terra si riscalda tramite la radiazione solare, che è soprattutto luce visibile. Il suo raffreddamento avviene attraverso la radiazione infrarossa riemessa dalla superficie della Terra. Ma nell’atmosfera sono presenti gas di minoranza – principalmente vapore acqueo, anidride carbonica e metano – che sono trasparenti alla radiazione solare ma opachi alla radiazione infrarossa e quindi trattengono calore, rallentandone l’emissione verso lo spazio esterno. La presenza dei gas serra porta così la temperatura media del pianeta a 15 °C. Se non ci fossero, essa sarebbe intorno ai –18 °C, un valore incompatibile con la vita come la conosciamo.
Allora qual è il problema?
Poiché le attività umane emettono ulteriori, ingenti quantità di gas serra, noi accentuiamo questo fenomeno naturale e benefico, così la temperatura media del pianeta aumenta. Siamo già a oltre 1 °C in più rispetto ai livelli preindustriali (metà del XIX secolo) e la paleoclimatologia mostra che non si è mai registrato un riscaldamento così elevato in un periodo tanto breve. Non possiamo spiegarlo in altro modo che con le emissioni di gas serra antropiche.
Da quanto tempo siamo a conoscenza di queste cose?
I primi lavori sulla capacità della CO2 di assorbire l’infrarosso risalgono alla metà dell’Ottocento – penso ad esempio al lavoro del fisico irlandese John Tyndall. Le prime stime sull’entità di un riscaldamento globale dovuto a maggiori concentrazioni di CO2 in atmosfera si devono al chimico svedese e premio Nobel Svante Arrhenius. Poi, nel 1938, l’ingegnere inglese Guy Callendar, procurandosi 200 serie termiche raccolte in giro per il mondo, dimostrò che la temperatura media terrestre stava già aumentando e procedeva alla velocità da lui calcolata. Molti altri lavori sono seguiti nei decenni successivi, come quelli di Charles David Keeling, Syukuro Manabe e Jule Gregory Charney negli anni Sessanta e Settanta. Che noi produciamo un cambiamento della composizione dell’atmosfera e che ciò riscaldi il pianeta è una cosa di cui i fisici dell’atmosfera sono perfettamente a conoscenza da molti decenni.
Come misuriamo tale cambiamento?
La CO2 si misura in parti per milione. Fino al termine del XVIII secolo eravamo intorno alle 280 ppm; quando sono iniziate misurazioni sistematiche, nel 1958, erano 315. Da allora è stata una vera e propria esplosione e oggi siamo intorno alle 415 ppm.
E siccome ogni ppm equivale a 7,5 miliardi di tonnellate di CO2 e nell’ultimo decennio abbiamo registrato un aumento di almeno 2 ppm annue, vuol dire che ogni anno all’atmosfera si aggiungono altri 15 miliardi di tonnellate di CO2. Il sistema Terra non è in grado di assorbire tutte le emissioni umane e così il gas si accumula in aria.
La crisi causata dalla COVID-19 può dare un po’ di sollievo?
Sì, ma nulla che impatti significativamente il clima. Tuttora volano in media 40mila aerei ogni giorno, nel 2019 erano 110mila. Se aggiungiamo le circa 2.500 centrali termoelettriche a carbone esistenti, i 95 milioni di barili di petrolio bruciati ogni giorno e la combustione del metano (altro gas serra molto potente), ogni anno vengono emesse 7 tonnellate di CO2 equivalente per ciascun abitante del pianeta. Emissioni ingiuste, tra l’altro, perché i Paesi più ricchi contribuiscono al cambiamento climatico molto più di quelli poveri, che però spesso ne subiscono le conseguenze peggiori. Gli USA da soli emettono come sei volte l’intera Africa, con solo un quarto degli abitanti.
Insomma, è indispensabile che le emissioni rallentino.
Sì, se non le dimezziamo ogni decennio rischiamo di incanalarci in una situazione di non ritorno che potrebbe rendere la vita difficilissima alle generazioni future. Molti studiosi sono ormai certi che in un pianeta più caldo di 4 o 5 gradi °C rispetto ai livelli preindustriali non saremmo in grado di produrre tutto il cibo di cui abbiamo bisogno. Miliardi di persone non avrebbero di che sopravvivere. Alcune zone del pianeta molto popolose, come parti dell’India, sono già ora poco ospitali per le elevate temperature che vi si registrano, e potrebbero diventare inabitabili. Questa prospettiva va assolutamente scongiurata.
Come facciamo a ridurre le emissioni di gas serra?
Abbandonando i combustibili fossili, sostituendoli con fonti di energia rinnovabile (eolico, idroelettrico, fotovoltaico) e smettendo di sperperare energia. La principale fonte di spreco sono i motori a scoppio: l’80% dell’energia che ci mettiamo dentro diventa non movimento bensì calore disperso. Bisogna puntare sulla motorizzazione elettrica sia pubblica che privata. Anche gli edifici sprecano energia; li hanno costruiti quando scaldarli costava pochissimo e sono dei colabrodo. In Italia, non avendo case coibentate perdiamo circa i tre quarti del calore che serve a riscaldarle. In questo senso il bonus del 110% per migliorare la classe energetica degli edifici contenuto nel decreto rilancio di maggio è utile. Oltre ad allontanare la prospettiva del disastro climatico, elettrificazione e coibentazione possono creare centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro nel nostro Paese, secondo gli studi del professor Mark Jacobson della Stanford University, che ha analizzato la transizione energetica per ogni Paese del mondo.
Cosa succede se le realizziamo?
Con la dovuta determinazione, possiamo portare le emissioni di gas serra italiane dalle 7 tonnellate pro capite di CO2 equivalente odierne a 3,5 in un decennio. Questo cambiamento darebbe una spinta incredibile a economia, occupazione, innovazione: sarebbe fondamentale per assicurare la ripresa dopo il blocco delle attività produttive imposto dalla pandemia. Fa rabbia che nessuno di questi argomenti sia stato minimamente preso in esame dagli esperti del piano Colao. Forse fa eccezione Enrico Giovannini, che si occupa dell’Agenda 2030, ma essa non è chiara nell’evidenziare la gravità del cambiamento climatico.
Le conseguenze di questo fenomeno sono già evidenti in Italia?
Decisamente. Prendiamo l’esempio dell’Emilia-Romagna. Come Arpae, abbiamo riassunto in un grafico l’andamento della temperatura media regionale nel giorno più caldo dell’anno, dal 1961 a oggi. Fino al 1990 abbiamo avuto solo tre giornate in cui si sono superati i 33 °C. A partire dal 1991, invece, in soli cinque anni su ventotto la temperatura media dei giorni più caldi è scesa sotto i 33 °C, con una punta di 37 °C nel 2017. L’anno scorso in molte stazioni si sono registrati 40 °C il 27 giugno. Oggi viviamo in una regione irriconoscibile rispetto a quella di 40 anni fa. Lo stesso accade a Roma, da dove provengo. L’ondata di calore dell’estate del 2003 fece 70mila morti in Europa, di cui 18mila in Italia, e in futuro potremmo subirne altre. Questo mostra come gli effetti del cambiamento climatico sulla salute possano essere simili o peggiori di quelli della COVID-19.
Questo per quanto riguarda le estati. E gli inverni?
Sono anch’essi più caldi. Lo scorso inverno è stato talmente mite che quasi tutte le piante da frutto erano fiorite come se fosse primavera, erano fiorite in largo anticipo. Poi, tra il 24 marzo e il 3 aprile, sono arrivate ben quattro gelate in Romagna, un’importante zona frutticola, con danni gravissimi alla produzione – in alcuni casi si è perso il 90% del raccolto.
E le precipitazioni?
Sono sempre più variabili e violente. Nell’inverno del 2018-2019 è piovuto pochissimo. Poi, in maggio, un’improvvisa nevicata su tutto l’Appennino ha fatto strage di alberi. Con sbalzi di tale violenza nelle temperature e nelle precipitazioni l’agricoltura e la vegetazione sono completamente in balìa degli eventi. Non possiamo permetterci che questa situazione peggiori. Dobbiamo intervenire sulle emissioni di gas serra e adattare tutte le nostre attività a questo nuovo clima. Adesso cadono 100 mm di pioggia in un’ora: non possiamo gestirli con una rete fognaria costruita negli anni Sessanta quando al massimo ne cadeva la metà. Negli ultimi anni temporali violentissimi hanno colpito Olbia, Livorno, il Piacentino e molti altri territori. Abbiamo realizzato sistemi di allertamento capillari, possiamo evitare le vittime ma i danni economici rimangono molto gravi, a meno di non trasformare il tessuto urbano. Per non parlare della vegetazione: l’anno scorso pioggia e vento abbatterono una parte della pineta di Milano Marittima. Ancora peggio la tempesta Vaia del 2018, che rase al suolo milioni di conifere secolari in Veneto. E non avendo un servizio climatologico centralizzato si rischia di perdere la memoria di questi eventi. Solo l’ISPRA di Roma documenta il cambiamento climatico con rapporti annuali cui collabora anche Arpae.
Come ha risposto la politica finora?
I due governi Prodi avevano lanciato le installazioni di impianti eolici e fotovoltaici: prima erano pressoché inesistenti in Italia. Questo ha contribuito a smuovere l’industria globale di queste tecnologie e adesso un pannello costa un quinto o un sesto rispetto a sei anni fa. Però non abbiamo ancora un solo impianto eolico marino, mentre Germania e Inghilterra ci investono tantissimo. Oggi circa un terzo dell’energia elettrica italiana è prodotta con le rinnovabili, ma è un dato fermo dal 2013. Di recente un’azienda italiana ha presentato un progetto per un grande impianto eolico situato in mare di fronte a Rimini, da 300 MW: si sono già scatenate le opposizioni e prima che sia approvato e costruito ci vorranno quattro anni; in Germania ne impiegano uno.
Perché questa lentezza?
La burocrazia non aiuta, la politica è disunita, le rinnovabili incontrano ancora ostilità e non tutti si rendono conto dell’impatto delle fonti fossili. Così ci troviamo con un potenziale eolico e solare sottoutilizzatissimo. La Sardegna, ad esempio, potrebbe diventare un punto verde in mezzo al Mediterraneo, e invece va avanti con le fonti fossili, che includevano fino a poco tempo fa persino il poco e sporchissimo carbone del Sulcis. Tanto sull’isola quanto in Val Padana ci sono tuttora molte ferrovie che funzionano a gasolio. Potrebbero essere elettrificate: basterebbe avere treni con batterie a bordo e dei punti lungo il tracciato dove ricaricarle. Li stanno sperimentando in Germania e Austria. Costano abbastanza, ma sempre meno che installare fili su migliaia di km. Non prendere impegni di questo tipo contraddice ogni tentativo di salvaguardare il clima e la salute. Ricordiamo che l’inquinamento atmosferico causa ogni anno più di 76mila morti premature in Italia: una strage paragonabile a quella della COVID-19.
A cosa sono dovute principalmente le emissioni di gas serra in Italia?
Per metà dipendono da trasporti e generazione elettrica. Il resto è dovuto soprattutto a edifici, industrie e in misura minore al settore agricolo. Le modiche emissioni di quest’ultimo sono di fatto compensate dagli assorbimenti delle nostre foreste, che si sono estese man mano che le montagne venivano abbandonate a causa dell’inurbamento degli ultimi sessant’anni e coprono ormai un terzo del territorio nazionale. Il problema principale rimane quindi la dipendenza dai combustibili fossili.
Che è anche dipendenza dall’estero?
Sì, perché abbiamo riserve di combustibili fossili molto limitate. In particolare, importiamo gas da Russia, Algeria e Paesi Bassi. Poi abbiamo 12 centrali termoelettriche a carbone, che proviene persino dall’Australia. In più c’è ENI, che produce l’equivalente di 2 milioni di barili di petrolio ogni giorno e continua a cercare dappertutto gas e petrolio. Nonostante la pubblicità che si fanno non hanno molto di green, stanno solo cercando di diminuire le emissioni delle loro attività operative, non certo quelle dei prodotti che vendono. Ragioniamo come se fisica e chimica non esistessero.
Cosa pensi dell’energia nucleare?
A parte il fatto che il suo sviluppo nel nostro Paese è impedito dai referendum del 1987 e 2011, il nostro territorio è eminentemente sismico e non mi fiderei troppo delle nostre capacità di evitare incidenti. Certo, intanto importiamo energia elettrica prodotta da Paesi, come la Francia, che hanno decine di centrali nucleari. Quindi usufruiamo di questa corrente a basse emissioni di gas serra anche se la sua gestione è a carico di altri. Il problema è che le centrali nucleari sono molto costose e occorrono fino a dieci anni per costruirne una. Un impianto eolico offshore, riducendo opportunamente la burocrazia, lo facciamo in un anno. Nel giro di un anno o due le emissioni generate dalla sua costruzione vengono compensate e poi per 25 anni esso produce elettricità a impatto zero. Poi certo, va posizionato dove c’è vento sufficiente, ma le aziende non agiscono a caso.
E in che modo possiamo investire sul solare?
Il solare non richiede nemmeno di costruire nuovi impianti sul terreno. Avendo già cementificato una parte rilevante di suolo nazionale, potremmo usare i tetti di edifici come supermercati, parcheggi coperti e depositi di mezzi pubblici per coprirli di pannelli. E poi installiamo le prese per ricaricare le auto elettriche, che nel caso di un supermercato sono anche un invito per la clientela ad andarci. Vanno sostituiti i pannelli più vecchi con quelli nuovi più efficienti negli impianti esistenti per produrre più corrente nella stessa superficie. Infine segnalo che si sta studiando come produrre energia elettrica con materiali semitrasparenti posti sui vetri. Insomma, c’è la possibilità concreta di produrre tutta l’energia che ci serve entro i nostri confini e in maniera pulita, e di arrivare a emissioni zero in pochi decenni. Sarebbe folle non coglierla.
Lorenzo Pedretti per www.policlic.it