Perché la sentenza con cui la Corte di Strasburgo ha bocciato la disciplina italiana sull’ergastolo per mafia potrebbe non trovare mai applicazione
Nella prima decade di ottobre, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) ha respinto il ricorso presentato dall’Italia avverso la sua precedente sentenza del giugno 2019 (Viola c. Italia) in tema di “ergastolo ostativo”[1]. Con quella pronuncia, ormai definitiva, i giudici del consesso europeo – espressione non già dell’Unione, ma del Consiglio d’Europa – hanno ritenuto contrastante con l’art. 3 della Convenzione (CEDU) il regime carcerario cui in Italia sono sottoposti, tra gli altri, i condannati per mafia. In particolare, la Corte ritiene “inumano e degradante” il divieto di accedere ai benefici penitenziari che la legge impone agli affiliati che rifiutino di collaborare con la giustizia, per i quali dunque l’ergastolo diviene un autentico “fine pena mai”.
La collaborazione come condicio sine qua non per la liberazione condizionale
Nell’ordinamento italiano, l’ergastolo è regolato dagli artt. 22 e 176 c.p., che disegnano una pena che solo in astratto è perpetua, mentre in concreto, a certe condizioni, dà la possibilità al condannato di riacquistare la libertà dopo ventisei anni di reclusione con la c.d. “liberazione condizionale”.
Questa disciplina generale deve però essere integrata, per coloro i quali abbiano commesso reati particolarmente gravi, tra cui l’associazione mafiosa e i delitti commessi per finalità di terrorismo, dalle norme contenute nella legge n. 354/1975 (legge sull’ordinamento penitenziario). Infatti, l’attuale formulazione dell’art. 4, riscritto a seguito dell’attentato del 1992 in cui perse la vita, tra gli altri, il Giudice Giovanni Falcone, configura la collaborazione con la giustizia come elemento necessario per l’accesso a un regime di esecuzione della pena più favorevole per il condannato, dando vita al c.d. ergastolo ostativo. In particolare, la norma esclude che possano godere dei benefici penitenziari, ivi inclusa la liberazione condizionale, coloro i quali abbiano rifiutato di collaborare senza che il proprio apporto potesse qualificarsi come inutile o inesigibile. I responsabili dei reati sopra indicati possono dunque dividersi in due macrocategorie: coloro che, essendo a conoscenza di fatti e responsabilità già noti ai magistrati o avendo occupato un ruolo del tutto marginale all’interno della compagine associativa, non sono in grado di fornire alcun contributo utile all’indagine[2], e coloro che, invece, sono in grado di rivelare all’autorità giudiziaria informazioni che potrebbero aiutare a perseguire altri soggetti attivi all’interno dell’organizzazione. I primi potranno accedere alla liberazione condizionale e agli altri benefici anche in assenza di una collaborazione utile; i secondi, invece, se reticenti si vedranno precluso qualsiasi trattamento di favore.
In definitiva, lo Stato italiano è disposto ad accordare una più favorevole esecuzione della pena solo a coloro che abbiano deciso di recedere definitivamente dall’organizzazione criminale di appartenenza, la c.d. societas sceleris, e individua come sicuro indice del recesso la volontà di offrire il proprio contributo utile alla giustizia.
Le funzioni della pena, tra retribuzione, prevenzione e risocializzazione
Per comprendere appieno la ragioni che la Corte EDU ha posto a fondamento della propria pronuncia occorre una breve digressione sulla funzione della pena.
La dottrina penalistica insegna che la pena è in grado di perseguire fini eterogenei[3], che ciclicamente vengono riproposti all’interno del dibattito filosofico e giuridico: retribuzione, prevenzione (generale e speciale), e rieducazione. Tra questi, solo l’ultimo è cristallizzato nella Costituzione, che al secondo comma dell’art. 27 chiosa: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La pena deve dunque primariamente mirare alla risocializzazione del reo, scopo che dev’esser perseguito a partire dalla formulazione della norma penale sino all’esecuzione della sentenza di condanna.
Come detto, però, alla funzione rieducativa/risocializzante se ne affiancano altre. La pena assolve, in primo luogo, anche a uno scopo retributivo, ossia di compensazione per il male commesso. È questa la lettura della sanzione penale che meglio riflette l’ideale comune di giustizia e che affonda le proprie radici ideologiche nell’illuminismo tedesco. Per Kant, laddove una società decidesse di comune accordo di sciogliersi, tutti i prigionieri andrebbero giustiziati «affinché ciascuno porti la pena della sua condotta e il sangue versato non ricada sul popolo»[4].
La pena assolve infine a una funzione di prevenzione: generale, nella misura in cui, rivolgendosi a tutti i consociati, li disincentiva dal commettere reati; speciale, laddove invece, rivolgendosi al singolo autore del crimine, vuol evitare che questi torni a delinquere.
L’obbligo di collaborare è inumano e degradante?
È evidente come nella disciplina italiana in tema di benefici penitenziari si confrontino le opposte concezioni della pena: da un lato, si staglia, infatti, quella rieducativa, perseguita attraverso il progressivo reinserimento del condannato nel consesso sociale con istituti quali la semi-libertà e la liberazione condizionale. Dall’altro si affacciano, invece, quella retributiva e preventiva, che suggeriscono di non concedere trattamenti favorevoli a chi non abbia dimostrato alcun pentimento per il male fatto e a chi, in ogni caso, non abbia offerto elementi utili a prevenire ulteriori sacrifici per la società.
Prima di esaminare i motivi che hanno spinto la Corte EDU a bocciare la normativa italiana, occorre ricordare come questa abbia già superato il vaglio della nostra Corte costituzionale. I Giudici della Consulta hanno in particolare rilevato che, sebbene il legislatore, subordinando la fruizione dei benefici penitenziari alla collaborazione del detenuto, abbia cristallinamente inteso privilegiare la funzione di prevenzione generale della pena, lo scopo di risocializzazione non è stato tout court abdicato[5]. Al condannato non è infatti precluso, in modo automatico e definitivo, l’accesso a una più favorevole esecuzione della condanna, potendo egli scegliere, liberamente e in qualsiasi momento, di offrire il proprio apporto conoscitivo all’autorità giudiziaria, in modo da progredire verso la rieducazione[6].
La Corte EDU, nella sentenza in commento, evidenzia tuttavia che la scelta del condannato di collaborare o meno con la giustizia non sempre è libera e volontaria. Al contrario, il rifiuto di collaborazione è spesso dettato dal timore per la propria incolumità e per quella dei propri familiari, di talché il soggetto rischia di non potersi mai riscattare. Infatti, non fornendo alcun apporto utile all’autorità giudiziaria, egli non può in alcun modo vedersi riconosciuti i progressi fatti registrare in vista della propria risocializzazione, poiché la legge non gli consente di fruire di alcun beneficio nella fase di esecuzione della pena. I giudici di Strasburgo denunciano che per chi vinto dal timore, scelga di non collaborare “qualsiasi cosa faccia in carcere, la punizione rimane immutabile, insuscettibile di controllo”[7].
Per questi motivi, la Corte EDU ha rilevato il contrasto tra la disciplina testé descritta e l’art. 3 della Convenzione, ritenendo inumana e degradante la condizione in cui viene a trovarsi il condannato cui sia applicabile l’art. 4-bis cit., obbligato a scegliere tra il porre a serio rischio la propria e altrui incolumità e il “fine pena mai”. Conseguentemente, i Giudici di Strasburgo hanno chiamato lo Stato italiano a rivedere la legge sull’ordinamento penitenziario, consentendo al reo di dimostrare la propria dissociazione dall’ambiente mafioso con strumenti anche diversi dalla collaborazione con la giustizia[8].
L’Italia è obbligata a modificare l’ergastolo ostativo?
La pronuncia della Corte, che si sostanzia in una netta bocciatura della normativa italiana in tema di ergastolo ostativo, ha sollevato un nutrito coro di opinioni critiche[9]. Queste trovano un comune denominatore nella considerazione per cui, essendo la mafia un fenomeno tipicamente nostrano, la disciplina dei suoi strumenti di contrasto dovrebbe essere ad esclusivo appannaggio del legislatore nazionale.
Tali preoccupazioni, pur indiscutibilmente autorevoli, potrebbero tuttavia ridimensionarsi considerando le dinamiche dei rapporti tra l’ordinamento CEDU e quello italiano. Le norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, di cui la Corte EDU è esegeta privilegiato, non trovano infatti diretta applicazione nel nostro ordinamento. Esse costituiscono piuttosto il faro che deve orientare l’interprete, in primis il Giudice, nell’applicazione delle disposizioni nazionali, e solo in caso di contrasto insanabile possono condurre alla declaratoria d’incostituzionalità della disciplina interna a opera della Corte costituzionale[10]. Peraltro, proprio la Consulta ha posto a tal proposito due ulteriori specificazioni[11]: innanzitutto, il Giudice nazionale deve tener conto delle pronunce della Corte EDU solo laddove le stesse siano parte di un orientamento consolidato, carattere di cui difetta la sentenza in commento, che al contrario si pone come assoluta novità. In secondo luogo, i princìpi della nostra Carta fondamentale devono in ogni caso prevalere anche su quelli CEDU. Sicché, in caso di contrasto tra una disposizione costituzionale interna e una convenzionale, a dover cedere sarebbe proprio quest’ultima, con buona pace dell’interpretazione offertane dalla Corte EDU laddove questa non sia compatibile coi capisaldi della nostra Carta Fondamentale.
Per quanto d’interesse, un’autorevole dottrina penalistica ebbe modo di evidenziare che “prevenire il reato è compito imprescindibile dello Stato, che si pone come un prius rispetto alla potestà punitiva”, sicché deve ravvisarsi la “doverosità costituzionale” della prevenzione[12]. In particolare, si fa riferimento all’art. 2 Cost. che, nel riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, impegnerebbe lo Stato a tutelarli prima che gli stessi siano offesi. Leggendo quindi la prevenzione dei reati, specie di quelli gravi cui fa riferimento l’art. 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, come dovere costituzionale, si potrebbero annullare i potenziali effetti della recente sentenza di Strasburgo. Poiché, infatti, la collaborazione dei condannati è talvolta l’unico strumento a disposizione dell’autorità giudiziaria nello scongiurare la commissione di ulteriori delitti, e poiché lo Stato è gravato di questo compito dall’art. 2 Cost., la cogenza di quest’ultimo potrebbe rendere inattaccabili le norme in tema di ergastolo ostativo nonostante il contrasto, ravvisato dalla Corte EDU, con l’art. 3 della Convenzione.
Francesco Battista per Policlic.it
Fonti Bibliografiche
[1] http://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2019/10/Comunicato-stampa-FRA.pdf
[2] L’interpretazione delle nozioni di collaborazione “impossibile” e “inesigibile” è stata esplorata, funditus, dalla Corte di Cassazione nella sent. 47044/2017
[3] v., ex multis, S. Canestrari, L. Cornacchia, G. De Simone, Manuale di Diritto penale, Parte generale, Il Mulino, 2007, pp. 45 ss.
[4] I. Kant, La metafisica dei costumi, VIII ed., Roma-Bari, 2004, pp. 167.
[5] Così la Corte costituzionale nella sent. 306/1993.
[6] Di recente, tuttavia, con ordinanza n. 4474/2018 la Corte di cassazione ha sollevato una nuova questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, l. ord. pen., per sospetto contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., sulla quale la Corte costituzionale a oggi non si è ancora pronunciata.
[7] Così Corte EDU, sent. Viola c. Italia, 13 giugno 2019. La stessa Corte, per tramite delle parole della giudice irlandese Ann Power-Forde, è arrivata in passato a coniare il c.d. “diritto alla speranza”. A margine della sentenza Vinter della Grande Camera, nella concurring opinion del magistrato si legge che: “la sentenza riconosce, implicitamente, che la speranza è un aspetto importante e costitutivo della persona umana. Gli autori degli atti più odiosi ed estremi che infliggono ad altri sofferenze indescrivibili conservano comunque la loro umanità fondamentale e hanno la capacità intrinseca di cambiare. Per quanto lunghe e meritate siano le pene detentive inflitte loro, essi conservano la speranza che, un giorno, potranno riscattarsi per gli errori commessi”.
[8] Invero, una proposta di riforma in tal senso era già stata avanzata dalla c.d. Commissione Palazzo, incaricata nel 2013 dal Ministero della Giustizia di elaborare un progetto di riforma del sistema penale italiano.
[9] Tra le tante, sul versante politico si segnalano quelle del Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e del Ministro degli Affari Esteri, Luigi Di Maio (v. http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/La-Cedu-dice-che-Italia-deve-riformare-la-legge-ergastolo-ostativo-corte-strasburgo-07ab421a-3d44-4173-90e6-92d91fed9945.html?refresh_ce). Sul versante giuridico, il Presidente di Sezione del Consiglio di Stato, Francesco Caringella, si è detto dubbioso tramite il suo profilo Facebook
[10] Per approfondire, v. R. Garofoli, Manuale di Diritto penale – Parte generale, Nel Diritto editore, 2017, pp. 13 ss.
[11] v. Corte cost., sent. 49/2015.
[12] Così P. Nuvolone, Relazione introduttiva in Le misure di prevenzione (Atti del convegno di Alghero), Milano, 1975, p. 15.