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La storia dell’umanità è fatta di fils rouges che si districano tra comportamenti ed eventi storicamente ricorrenti: uno di questi, che forse potrebbe essere visto come un unico grande connettore, è il sistema di organizzazione in centri, più o meno complessi, che garantiscano scambi e un certo grado di cooperazione.
L’elemento urbano è percepito sul territorio, in un sistema fatto di legami di forza invisibili, in cima alla gerarchia degli insediamenti. Proprio per questo suo particolare ruolo, la città, che si definisce in un disegno urbano, è dotata di una identità e per questo emerge con speciali funzioni che la rendono un punto di riferimento.
La città non è un insieme di case, ma il luogo di una comunità che è legata primariamente alla difesa e allo scambio e che, nel momento in cui la società si evolve, sviluppa nuovi bisogni e si modifica, richiedendo nuove funzioni e nuovi luoghi. Quando parliamo di nuove funzioni ovviamente ci riferiamo a ciò che riguarda nuove consapevolezze civili nella convivenza di una società urbanizzata, quali un’identità religiosa, una qualche forma di istruzione, un governo e una giustizia. Una definizione efficace della nascita del concetto di città può essere quella che dà Salzano:
La città è la casa di una società, di una comunità […], è il luogo che gli uomini hanno creato quando hanno dovuto vivere insieme per svolgere una serie di funzioni che non potevano svolgere da soli: custodire e difendere […]; scambiare il sovrappiù tra loro, e con gli abitanti di altri luoghi. [1]
Nei paragrafi a seguire si percorrerà un excursus storico in cui, prendendo in esame esempi significativi, si cercherà di illustrare l’evoluzione del concetto di città e di spazio urbano nel corso dei secoli.
La caduta dell’Impero e il peso dell’eredità antica
Nei secoli della Repubblica e dell’Impero romani si era definita una scacchiera urbana molto densa e articolata, che aveva lo scopo di controllare le province. Questa rete aveva iniziato a sgretolarsi con l’indebolimento dell’Impero e, con la sua caduta, si verificò un massiccio abbandono dei centri urbani, il cui ruolo si rivelò fondamentale nel ridisegno degli ex territori imperiali.
Le prime macro-fasi in cui si delinearono sostanziali cambiamenti rispetto all’antichità furono quella tardoantica (IV-VII sec. d.C.) e quella altomedievale (VIII-X sec. d.C.): il tessuto urbano ereditato dall’antichità aveva un peso non indifferente, in quanto non era composto soltanto di imponenti monumenti, ma anche di abitazioni, strade, fognature e acquedotti. Si trattava di un sistema molto complesso, oneroso sia da mantenere in funzione che da restaurare all’occorrenza.
Come per le città che scomparvero una volta persa la loro funzione, così le infrastrutture non più ritenute fondamentali dalla comunità vennero abbandonate. Tra le prime a essere dismesse vi furono le reti fognarie, estremamente delicate e bisognose di interventi frequenti, che intasandosi caddero gradualmente in disuso. Questo fenomeno era fortemente legato a quello dello smaltimento dei rifiuti: non esistendo più un sistema di raccolta, si iniziò a scavare buche, a trasformare luoghi abbandonati in discariche a cielo aperto o a gettare i rifiuti accanto alle abitazioni.
Gli acquedotti, invece, in alcuni casi continuavano a essere utilizzati, ma della maggior parte di questi impianti non si ha notizia e si presume che semplicemente fossero caduti in disuso. Quest’ultima ipotesi è stata corroborata nel corso degli anni dal rinvenimento archeologico di pozzi intorno alle aree urbane, i quali poi, in periodo altomedievale, entrarono nelle città in numero tale da servire le singole abitazioni[2].
I monumenti non furono esclusi da questa selezione, con un numero non indifferente di edifici che divennero cave di materiale edilizio – dove le fosse lasciate dalle estrazioni si trasformavano a loro volta in discariche – o sede di fornaci per la calce, data la vicinanza di marmi e pietre da cuocere. Tuttavia, il destino di un monumento poteva presentarsi più complesso: alcuni venivano ritenuti ancora utili e quindi mantenuti in funzione, come nel caso dei circhi, altri adattati per servire funzioni diverse. Gli adattamenti potevano rispondere a ragioni culturali, come nel caso dei templi che venivano reimpiegati in funzione del nuovo culto, oppure logistiche, come nel caso degli anfiteatri e teatri che, specialmente durante l’Alto Medioevo, furono trasformati in abitazioni[3].
Nel tessuto urbano antico le abitazioni rivestivano ovviamente un ruolo di primordine: le domus e le insulae rappresentavano i modelli principali di abitazione romana[4]. Le prime erano case monofamiliari di pregio architettonico e di dimensioni notevoli (fino a 4.000 m2 circa, in genere), mentre le seconde erano un modello abitativo che sviluppava al pianoterra botteghe, piccole terme o magazzini e ai piani superiori numerosi appartamenti. Si smise di costruire questi modelli abitativi già dal V secolo, e iniziò ad affermarsi una tendenza rappresentata bene dal caso di Brescia, nell’isolato di Santa Giulia[5], dove una domus venne frazionata e furono costruite sopra di essa numerose case di legno.
Si trattava di un tessuto urbano sempre più lasco, composto di pieni e vuoti, dove la comunità si riorganizzava: era un luogo in cui si arrivò persino a portare dentro le città il terreno agricolo per sfruttare i vuoti urbani lasciati dalla rovina dei monumenti antichi e dove era possibile impiantare orti urbani[6].
La prima novità furono le mura e le fortezze, che a causa delle sempre più frequenti incursioni vennero ampiamente sviluppate nel primo periodo con ampliamenti o restauri. In pochi casi andarono a delimitare una superficie molto più ampia rispetto all’estensione antica, come nel caso delle capitali Roma, Milano e Ravenna.
Diverso era il discorso riguardante le strade: in prima istanza si scelse di manutenere la preesistenza, sovrapporre nuovi sedimi stradali, oppure di creare nuovi percorsi che andavano a incrociare i vuoti lasciati dai monumenti in rovina[7]. Successivamente la tendenza generale divenne quella di sovrapporre pavimentazioni a crolli e rifiuti che non venivano rimossi, in una sequenza incessante che portò le città a crescere su se stesse anche di alcuni metri.
Ciò che veniva invece costruito ex novo erano spesso palazzi, il cui modello di riferimento poteva ricalcare le domus di antica memoria o in altri casi essere assimilato a una fortificazione. Le chiese a loro volta vennero ampiamente costruite, dimostrandosi il nuovo grande investimento delle istituzioni sin dal IV secolo e diventando il nuovo elemento monumentale urbano. Nonostante la loro rilevanza, in un primo momento si poterono espandere solo nelle aree suburbane e fuori le mura, sia per via della densità di abitazioni e monumenti antichi che occupava il centro, sia per la funzione di martyrion[8] di alcuni edifici, che dovevano essere costruiti in prossimità dei cimiteri. Con l’avanzare dei secoli, l’edilizia ecclesiastica occupò sempre più spazi centrali, sia sfruttando le preesistenze, sia grazie alla caduta della prassi romana di costruire cimiteri solo fuori dalle mura cittadine[9].
Il fenomeno legato alla diffusione di case piuttosto essenziali, sia per i ceti più poveri che per quelli nobili, si intensificò nell’Alto Medioevo, con una maggiore distinzione in tipologie[10]. Il costante rarefarsi dell’abitato all’interno delle mura generò un policentrismo che vide le case disporsi in nuclei non troppo compatti e più o meno estesi, spesso addossati alle strade principali o intorno alle chiese. Il tessuto urbano che dobbiamo immaginarci fino al decimo secolo è una costellazione di villaggi compresi entro le mura, dove si coltiva e si alleva e che vengono serviti da uno o più edifici ecclesiastici.
Dalla città bassomedievale alla città rinascimentale: dalla ripresa urbana al cambio di gusto
Mentre il periodo precedente era contraddistinto da una certa coerenza, con comportamenti che erano andati intensificandosi col passare del tempo, la città del Basso Medioevo (XI-XIV sec. d.C.) risultava sensibilmente diversa. Una vivida immagine del nuovo tessuto urbano la dipinge Boccaccio nel Decameron[11], nel quale ci descrive la città del suo tempo, fatta di case a schiera disposte le une accanto alle altre sugli assi stradali (senza soluzione di continuità), di piazze, fontane, palazzi del potere e centri amministrativi.
La prima differenza netta con il periodo precedente riguardò le mura, nuovo elemento laico distintivo delle città, che non vennero più solo mantenute ma largamente ricostruite[12]. Questo non fu solo dovuto a motivi di obsolescenza, ma rispecchiava anche un trend diffuso nella maggior parte dei centri, cioè la forte espansione urbana, che superando le mura esistenti necessitava di nuovi argini. Un esempio piuttosto emblematico è la città di Firenze, che venne dotata di una nuova cinta nella seconda metà del XII secolo, con una superficie di 85 ettari, e che necessitava di una terza cinta molto più ampia già alla fine del XIII secolo, quando aveva una superficie di 436 ettari[13].
Un’altra differenza forte rispetto al passato si evince dai regolamenti delle città comunali, gli statuti, che dimostrano un rinnovato interesse negli investimenti indirizzati alle infrastrutture. Le strade vennero dotate di nuove elaborate pavimentazioni in laterizio, mentre le piazze erano più comunemente in pietra. La gestione del sistema delle acque introdusse invece una massiva diffusione di fontane pubbliche, che divennero veri e propri elementi di arredo.
Ciò che invece rimase invariato fu lo smaltimento dei rifiuti, che venne lasciato alla libera iniziativa dei cittadini, i quali operavano similarmente al passato: sicuramente è vivida per tutti l’immagine dei rigagnoli di scolo per acqua e liquami sui fianchi delle strade che tanto spesso vengono evocati con la città medievale.
I vecchi monumenti[14] lasciarono il passo a un nuovo gusto architettonico[15] e si assistette una modernizzazione degli impianti di rappresentanza urbana: soprattutto dall’XI secolo le città cominciarono a ospitare grandi cantieri urbani (chiese, cattedrali, palazzi comunali, palazzi vescovili, ecc.).
Quello che si vide in Italia, dal 970-980 d.C., fu la tendenza a costruire molto di più[16]: si verificò una vera e propria ripresa dell’apparato residenziale, che si trasformò notevolmente, rendendo più netta la differenza tra ceti nobiliari e non. I potenti abitavano prevalentemente tre tipologie: le fortezze[17], le torri[18] – indicative dell’alto tasso di militarizzazione del tessuto urbano – oppure il palazzo fortificato[19], quale centro del potere cittadino. Il nuovo e fitto tessuto urbano, che limitava sempre più lo spazio di orti urbani e aree libere, era invece abitato dagli altri ceti. Si trattava spesso di soluzioni monofamiliari a uno o due piani, con il pianterreno solitamente adibito a bottega o negozio. A fungere sia da soluzione connettiva sia da filtro tra sfera pubblica e privata apparve il portico, che si configurava come uno spazio sia di transizione per il pubblico sia di sosta per i clienti.
È importante sottolineare come la rinascita dell’artigianato e degli impianti produttivi occupasse un ruolo di rilievo nella trasformazione della città. Queste attività non solo aiutarono a infittire l’abitato, ma, avendo spesso bisogno di specifiche materie prime, generarono quartieri specializzati nello stesso tipo di artigianato.
Sul tessuto consolidato nel Basso Medioevo si svilupparono poi le trasformazioni del Rinascimento (XV-XVI sec.), spesso inteso come una cesura rispetto al periodo precedente. Bisogna però intenderlo come un movimento culturale, nel quale esisteva una élite, concentrata in una determinata parte d’Italia, che si distaccava dall’immaginario del tempo e pensava la modernità attraverso i riferimenti dell’antichità. Questo modello si affermò anche attraverso concezioni nuove come quella della prospettiva, che favorirono la presa di coscienza della strada come veduta e della piazza come entità, sia che il vocabolario classico venisse impiegato per dare uniformità alle piazze, sia che dovesse legare insieme edifici disparati.
Considerando l’eterogeneità dei singoli interventi urbani, in questa sede si è scelto di analizzare soltanto due esempi significativi: il primo è un intervento programmatico svoltosi in breve tempo, l’altro l’evoluzione naturale di un centro divenuto di particolare importanza nel territorio.
Le ragioni dell’intervento di Pio II (1458-1464) su Corsignano[20] si possono ricercare sia nella sua volontà di realizzare un sogno umanistico, sia in quella di affermare un potere nobiliare nella sua città natale[21]. Il suo era un intervento programmatico, che potremmo leggere in tre punti fondamentali: la ricostruzione della cattedrale in una posizione più adeguata, la ricostruzione del palazzo di famiglia e l’elevazione a dignità vescovile del centro. Da un punto di vista prettamente urbano il risultato di questi interventi fu costruire una piazza delimitata da architetture esemplari, quali il palazzo di famiglia, la cattedrale, il nuovo palazzo comunale e quello vescovile. Ciò che si nota subito, guardando alla pianta urbana di Pienza, è la posizione non allineata della chiesa: Piccolomini, infatti, la fece ricostruire in maniera da poter generare, insieme al palazzo di famiglia, un cannocchiale prospettico sulla piazza. Lo spostamento della chiesa fu forse l’elemento più difficile da gestire per l’architetto Bernardo Rossellini, che dovette far fronte a problemi di natura statica non indifferenti: tutto in nome di una nuova concezione spaziale della città che, per un umanista quale era Pio II, era necessaria[22].
Molto diverso fu ciò che avvenne nella città di Ferrara[23]: non un intervento programmatico concentrato in un breve periodo di tempo, quanto piuttosto un’evoluzione urbana ragionata a più mani, favorita dalla crescita di potere della famiglia che governava la città, gli Este. Fra il XIV e il XVI secolo Ferrara prese slancio, diventando uno dei centri più importanti dell’Italia settentrionale. Dal padre Niccolò III ai tre figli Leonello, Borso ed Ercole I, gli Estensi operarono al fine di ingrandire e abbellire la città, ciascuno perseguendo idee diverse. Si occuparono di costruire palazzi, piazze e di riscrivere lo schema urbano essenziale, fino ad arrivare alla famosa Addizione Erculea[24], per volontà di Ercole I, il cui grande impegno fu raddoppiare l’area urbana, creando una zona di sicurezza tra la sua residenza cittadina e le nuove mura settentrionali e allo stesso tempo un ampio spazio per costruzioni private e religiose.
Nonostante questa élite rappresentasse una piccola parte della popolazione, sostanzialmente formata dai potenti del tempo, gli interventi nelle città di Italia in questi secoli furono numerosi, alcuni dei quali interessarono lo svecchiamento di palazzi che non necessitavano più di fortificazioni, in un generale adeguamento delle architetture al nuovo gusto corrente[25]. Tuttavia il disegno urbano generale, nei centri già ben affermati, rimase abbastanza invariato nella sua essenza per parecchi secoli.
Proprio per questo la sperimentazione degli umanisti sulla progettazione urbanistica passava specialmente per i trattati. Il nuovo gusto architettonico era coadiuvato da una riscoperta umanistica in tanti campi dell’arte e della tecnica[26], così come dalla rilettura della letteratura antica. Fu proprio la nuova popolarità di Vitruvio che ispirò una quantità di città ideali, solitamente radiocentriche, descritte e disegnate nei trattati. Si possono per esempio citare tra questi gli italiani Francesco di Giorgio, Buontalenti o Serlio, così come figure d’oltralpe quali Durer e Speckle. Gli esempi sono dunque numerosi, ma possiamo soffermarci su un progetto abbastanza emblematico quale fu quello di Sforzinda, a opera di Filarete. Questo progetto si presentava con una pianta stellare geometrica concentrica, nel cui nucleo si trova una piazza dominata da una torre. In Sforzinda si amalgamano gli influssi più vari e contrastanti: libere rievocazioni classiche, filtrate dagli esempi della contemporaneità ma anche dalla letteratura, e influssi medievali, sintomo di una cultura ancora molto presente, specialmente in area lombarda[27].
Non mancano comunque anche esempi di fondazioni ex novo a opera di città importanti: se ne possono citare alcune anche in questo caso, come Palmanova, vicina a Venezia, Sabbioneta, voluta da Mantova, o la più tarda Grammichele in Sicilia.
La città fortificata Palmanova, fondata il 7 ottobre 1593[28], nacque dalla necessità della Repubblica di Venezia di arginare l’antagonista Impero ottomano, non solo a difesa della Serenissima, ma dell’intera cristianità. Il suo impianto stellare concentrico, generato dall’impulso di innovativi bastioni poligonali, vedeva al suo interno un place d’armes centrale da cui si irradiavano rette stradali che tagliavano nettamente il tessuto urbano. È interessante notare come, rispetto alla città medievale, le mura fossero mutate in virtù delle nuove e avanzate tecnologie militari: la polvere da sparo aveva modificato lo scopo delle fortificazioni; ormai l’esigenza primaria era far fronte a bombardamenti e limitare i danni inferti dall’impatto delle armi da fuoco. Ai giorni nostri Palmanova può considerarsi l’ultimo esempio urbano ancora intatto che riesce a esprimere l’urgenza rinascimentale di imprimere ai piani urbani una tale armonia geometrica.
L’industrializzazione e i grandi piani urbani
L’equilibrio alla base delle strutture urbane, rimasto grossomodo intatto per cinquecento anni, fu spazzato via nell’arco di un secolo dalla rivoluzione industriale. Questi mutamenti iniziarono in Inghilterra alla metà del Settecento, per ripetersi poi con un ritardo più o meno forte nel resto d’Europa, e coinvolsero tutta una serie di aspetti diversi. Il tessuto della città premoderna, incapace di rispondere alle nuove esigenze del tempo, iniziò un rapido e vasto deperimento. Il continente Europeo, che tra i secoli XVII e XVIII aveva conosciuto sconvolgimenti di varia entità, si trovava in una condizione simile a quella tardomedievale. I primi a venir dismessi furono i grandi impianti difensivi, ormai obsoleti e poco funzionali alla grande espansione urbana. Al loro posto in tutta Europa si costruirono grandi viali alberati, piazze e strade[29]. L’altro tassello fondamentale della città premoderna era il quartiere antico, stretto e congestionato, le cui cellule abitative erano vecchie e malsane, prive dei più moderni sistemi igienici. Il patrimonio monumentale, che per esempio in Francia era stato gravemente danneggiato, venne in parte restaurato alla maniera ottocentesca[30], in parte destinato a nuove funzioni e in altri casi demolito.
Mentre da una parte l’antico tessuto si deteriorava, dall’altra la città richiedeva nuove infrastrutture per nuove funzioni. Di fatto, a seguito degli impulsi illuministi e delle grandi innovazioni tecnologiche, nacquero nuovi edifici per la collettività: musei, biblioteche, ospedali e sedi amministrative, sia pubbliche che private[31]. Nel corso dell’Ottocento si vide anche l’introduzione dei parchi urbani. L’innovazione più straordinaria è però legata all’infrastrutturizzazione: per gli spostamenti di lunga distanza vennero installate stazioni ferroviarie[32] e porti più grandi ed efficienti, che fossero funzionali al nuovo traffico navale.
Ma cosa comportò sconvolgimenti così straordinari, in meno di un secolo? Consideriamo alcuni dati: a metà Settecento l’Inghilterra aveva circa sei milioni e mezzo di abitanti, mentre nel 1831 se ne registrano almeno quattordici milioni; in un periodo di tempo compreso tra il 1801 e il 1901, Londra crebbe di sei volte, passando da un milione di abitanti a sei milioni, e Manchester crebbe di ben otto volte[33]. Questa esplosione demografica non fu solo europea; i dati americani, infatti, sono ben più sconcertanti: città come New York passarono da 33.000 abitanti nel 1801 a 500.000 nel 1850 e a tre milioni e mezzo nel 1901[34].
Uno dei motivi principali di questa crescita è da ricercarsi nella netta riduzione del tasso di mortalità, che scese dal 35,8% al 21,1%[35]. Questo fenomeno viene generalmente collegato soprattutto al miglioramento dell’igiene, dell’alimentazione, delle abitazioni e ai progressi nella medicina.
I fuligginosi racconti di Dickens, con le workhouses e la disperata testimonianza di un’epoca così piena di chiaroscuri come quella vittoriana, ci riferiscono quale fosse l’aspetto della città industriale. Questa rivoluzione, infatti, fu così improvvisa e sproporzionata da travolgere le organizzazioni politiche e governative, incapaci di gestire con i vecchi mezzi dell’urbanistica il concitato tasso di crescita della città. Una crescita tanto instabile che portò alla trasformazione dei vecchi quartieri in slums e alla costruzione massiva di nuove case e appartamenti, detti jerry buildings[36]. In effetti in questo contesto si venne a formare un’alienazione sociale fortissima, in cui si vide una polarizzazione tra i ceti più abbienti, che vivevano in case asciutte e ariose in quartieri curati e puliti, e gli strati più poveri della popolazione, confinati nei quartieri più insalubri.
Le persone arrivate dalla campagna, pur non provenendo da abitazioni meno malsane, tuttavia gestivano funzionalmente lo smaltimento dei rifiuti, l’accesso alle fontane e soprattutto le attività all’esterno[37], in quanto la densità abitativa fuori dai centri urbani era molto più bassa. La città compatta costrinse tutte queste attività a sovrapporsi le une sulle altre, con fognature primitive e una manutenzione insufficiente. Questo tipo di espansione portò allo straripare di immondizie ed escrementi e, ad aggravare questa situazione già così esplosiva, vi erano gli impianti industriali, parte attiva del panorama urbano, che oltre a causare vapori nocivi e frequenti incendi, inquinavano anche le risorse d’acqua della città[38]. L’ovvio risultato di queste dinamiche fu l’alta incidenza di epidemie, tubercolosi e colera tra le più frequenti, a ogni livello di estrazione sociale.
In questo tipo di contesto, fatto di epidemie, forti divisioni sociali e crescita urbana incontrollata, le istituzioni si trovarono a dover mettere un primo punto[39], rendendo le autorità locali responsabili delle fognature, della raccolta dei rifiuti, della fornitura d’acqua, delle strade, delle ispezioni delle case malsane e della sepoltura dei morti.
La svolta si ebbe però con la prolifica stagione tra il 1850 e il 1870, in cui si affermò una certa prassi urbanistica[40] che vedeva operazioni di “regolarizzazione” urbana, con interventi estremamente invasivi sulla maglia preesistente. Si trattava in effetti di smantellamenti a tappetto su grandi parti di città, luoghi in cui la congestione urbana era insostenibile sia per i nuovi standard igienici che per le nuove modalità di spostamento. Molto nota, oltre che dibattuta, la sistemazione urbana a opera del barone Haussmann, il quale, oltre a implementare l’apparato infrastrutturale, aprì i grandi boulevards, con lo scopo di collegare punti cardinali e distretti opposti di Parigi e di gestire efficacemente l’ordine civile. Lo sventramento della città comportò lo smantellamento dei quartieri antichi, con la tipizzazione delle piante delle abitazioni, l’uniformità delle facciate urbane e la standardizzazione degli arredi urbani. Furono altrettanto invasivi anche gli interventi di città quali Barcellona, con il piano di Ildefonso Cerdà, o ancora a Vienna con l’operazione della Ringstrasse.
Conclusosi questo periodo, con tutte le controversie che si portò dietro, ne iniziò un altro meno fluido negli interventi urbani, che puntava a limitare il potere della speculazione fondiaria nelle città con interventi pubblici e nuove legislazioni. Ciò che avvenne, a seguito di questa nuova epoca di ordine e consapevolezza amministrativa, fu la nascita delle prime forme di piano regolatore: entro il 1914, quasi tutte le grandi città si dotarono di un piano generale ufficialmente stabilito[41].
La pianificazione del passato può generare ancora effetti sull’attualità?
Dopo il 1914 è iniziato un secolo breve di nuovi sconvolgimenti politici ed economici, di frenetici sviluppi negli strumenti e nella pianificazione che hanno trasformato radicalmente il panorama urbano. Oggi i problemi sono diversi rispetto al passato e si radicano profondamente negli esiti di scelte poco lungimiranti, negli effetti catastrofici della scarsa considerazione della città come luogo di una comunità molto ampia ed eterogenea.
Quando, nel maggio di quest’anno, la cronaca si è svegliata al grido di “I can’t breathe” [42], si è aperto anche uno spaccato di riflessione sul modo in cui la pianificazione abbia giocato un ruolo determinante nel consolidare e amplificate le problematiche socioeconomiche che affliggono la popolazione nera negli USA.
Gli abusi e le violenze nei confronti delle minoranze in America non sono imputabili allo stesso tipo di razzismo che conosciamo in Europa, ma sono legati al fenomeno ben radicato dello structural racism[43], che si è sviluppato e consolidato nel secolo scorso non solo attraverso leggi e istituzioni, ma anche imprimendosi nelle strade, nei parchi e nei quartieri della città. La pianificazione americana ha lavorato dal 1910 fino a pochi decenni fa con l’obiettivo di proteggere un determinato sistema e la supremazia di un’etnia rispetto a tutte le altre[44].
Una delle funzioni dell’urbanistica è delineare piani infrastrutturali, e dunque capire quale sia la strategia migliore per collegare il territorio. Le istituzioni americane riuscirono a trasformare un utile strumento di pianificazione in un funzionale sistema di segregazione e, con il Federal Aid Highway Act del 1956 di Eisenhower, cambiarono il volto dell’intero Paese in appena dieci anni. Le urban freeways[45] erano quasi sempre instradate lungo quartieri poveri e abitati in prevalenza da minoranze (venivano definite aree “rovinate”) e non avevano la funzione di trasportare le persone nel quartiere, ma attraverso. Questo tipo di politica tendeva a isolare intere aree urbane, impedendo lo sviluppo di attività o di servizi e aggravando ulteriormente la situazione di povertà già esistente.
L’idea era di tenere i bianchi separati dai neri[46] e di usare le strade come confini invalicabili. Tuttavia, nonostante il piano fosse di tenere i bianchi nelle città e i neri nelle periferie, avvenne esattamente il contrario. Le distese dei suburbs, di cui cellule essenziali sono ancora oggi le villette monofamiliari, vennero abitate da bianchi abbienti che lasciarono gli angusti appartamenti cittadini alle minoranze e ai poveri. In questo sistema era prevedibile il collasso, che non tardò ad arrivare: i bianchi si dovevano spostare nella intricata e irragionevole rete autostradale per raggiungere le sedi del lavoro nelle città, mentre gli afroamericani erano confinati nelle aree povere e avevano grandi difficoltà di spostamento, non esistendo quasi nessun servizio pubblico.
I risultati di queste politiche si possono leggere ancora oggi sui tessuti urbani e riguardano in gran parte i principali problemi urbanistici e sociali delle città americane[47]. L’espansione sconfinata dei suburbs e le conseguenze sul consumo del suolo, il traffico spaventoso sulle autostrade e il deperimento di intere aree urbane sono soltanto alcuni dei moltissimi effetti che, a distanza di un secolo, si percepiscono ancora oggi.
L’America è solo un esempio estremo delle conseguenze tragiche che possono scaturire da una pianificazione sconsiderata, in cui rientrano pratiche distruttive come la speculazione edilizia e lo sprawl urbano. Oggi più che mai bisogna riconsiderare le pratiche urbane, in un mondo che avanza velocemente e che modifica la nostra percezione della vita e dello spazio, e cercare una ricomposizione tra società e città nelle lacerate realtà urbane che abitiamo, per poter far fronte a un futuro che appare sempre più incerto in un’era di gravi crisi economiche, sanitarie e sociali.
Silvia Curulli per www.policlic.it
Note e riferimenti bibliografici
[1] E. Salzano, Fondamenti di urbanistica, Editori Laterza, Bari 2003, p. 4.
[2] A. Augenti, Archeologia dell’Italia medievale, Editori Laterza, Bari 2016, p. 60.
[4] In relazione a Roma e all’Occidente, le province con fenomeni climatici diversi presentavano soluzioni altrettanto diverse. Si veda R. Krautheimer, Architettura paleocristiana e bizantina, Giulio Einaudi editore, Torino 1986, pp. 7-22.
[5] Esempio descritto in G.P. Brogiolo et al., I processi di stratificazione del periodo III nelle domus di Santa Giulia
(450-680), in G.P. Brogiolo (a cura di), Dalle domus alla corte regia. S. Giulia di Brescia. Gli scavi dal 1980 al 1992, All’Insegna del Giglio, Firenze 2005, citato in A. Augenti, op. cit. p. 50.
[6] P. Arthur, Naples, From Roman Town to City-State: An Archaeological Perspective, British School at Rome, London 2002, pp. 31-56.
[7] Comparvero anche le vie porticate, strade coperte che vanno a enfatizzare la monumentalità di alcuni edifici di rilievo. Si evincono dagli scavi di diversi edifici di pregio. Si veda R. Krautheimer, op. cit., pp. 89-91.
[8] Tomba o cappella dedicata a un martire cristiano, da cui non di rado si sviluppano ampie costruzioni sacre. Si veda N. Pevsner, J. Fleming e H. Honour, Dizionario di architettura, Einaudi, Torino 2013, p. 406. Per un approfondimento si rinvia a O. Špehar, Private piety or collective worship in early Christian martyria. Late antique Naissus case study, in “Zograf”, 2015, 39.
[9] La legge romana impediva la costruzione di cimiteri entro i confini cittadini, ma imponeva che questi si situassero ai lati delle strade principali fuori delle città.
[10] Domus terrinea, domus solarata e riuso edifici antichi. Si veda A. Augenti, op. cit., pp. 63-64.
[11] C. Tosco, Il castello, la casa, la chiesa. Architettura e società nel medioevo, Einaudi, Torino 2003, pp. 176-197.
[12] C. Tosco, L’architettura medievale in Italia 600-1200, Il Mulino, Bologna 2019, pp. 358-360.
[13] Le mura vennero costruite considerando non la reale estensione della città, ma la tendenza della crescita demografica del secolo prima. A causa della crisi e della peste la città raggiunse quella estensione solo nel corso del XIX secolo. Cfr. E. Scampoli, Firenze, archeologia di una città (secoli I a.C.-XIII d.C.), Firenze University Press, Firenze 2010, pp. 188-193, citato in A. Augenti, op. cit., p. 68.
[14] I quali continuavano a esistere, ma la cui funzione era sempre meno chiara e veniva convertita a uso spesso militare o abitativo.
[15] Nella storia dell’arte e nell’uso comune viene indicato con “stile romanico”.
[16] C. Tosco, L’architettura medievale in Italia 600-1200, cit., pp. 58-63.
[17] Dette munitiones, che erano complessi policentrici di controllo del territorio che spesso venivano edificati sulle rovine dei monumenti romani, a volte assumendo lo stesso ruolo che avevano in origine.
[19] Si sviluppa dal XIII secolo.
[20] Oggi il centro si chiama Pienza, dal nome di Pio II. Si veda F.P. Fiore et al., Storia dell’architettura italiana. Il Quattrocento, Mondadori Electa, Milano 1998, pp. 314-329; contestualmente agli interventi senesi della famiglia Piccolomini si può vedere Ivi, pp. 272-286.
[21] Enea Silvio Piccolomini nacque a Corsignano nel 1405, in quanto la sua famiglia, che faceva parte del partito nobiliare senese, era stata espulsa dalla città nel 1385.
[22] Gli interventi furono anche intensi sulla maglia residenziale, con l’esproprio di molteplici costruzioni e la ricostruzione sia di immobili di pregio che soluzioni plurifamiliari per gli espropriati. Per approfondire le implicazioni economico-urbane si veda F.P. Fiore et al., op. cit., pp. 317-326.
[23] Ivi, pp. 242-255.
[24] Interessò la parte nord di Ferrara e disegnò la figura trapezoidale della città, con oltre 4.200 m di nuovi bastioni.
[25] W. Lotz, Architettura in Italia 1500-1600, Rizzoli, Milano 1995, pp. 35-42.
[26] N. Pevsner, J. Fleming e H. Honour, op. cit., pp. 557-559.
[27] F.P. Fiore et al., op. cit., pp. 175-178.
[28] La scelta della data di fondazione da parte della Repubblica di Venezia era legata a due eventi importanti per la città: il primo di carattere religioso era la ricorrenza di Santa Giustina, che divenne patrona della nuova città, mentre il secondo era di carattere civile e si collegava con la vittoria della Battaglia di Lepanto del 7 ottobre del 1571.
[30] Funzionale all’esaltazione delle singole entità nazionali. Si veda S. Casiello et al., La cultura del restauro, teorie e fondatori, Marsilio editori, Venezia 1996.
[31] W.J. Curtis, L’architettura moderna dal 1900, Phaidon, Londra 2006.
[33] K. Frampton, Storia dell’architettura moderna, Zanichelli, Bologna 2008, p. 12.
[34] Ibidem.
[35] L. Benevolo, Storia dell’architettura moderna, Editori Laterza, Bari 2005, p. 11.
[36] Edifici “miseri ed inospitali”, “sono un tipico esempio della logica smithiana dell’epoca, che dopo aver fornito un tipo edilizio relativamente solido e funzionale pensa di poter accostare molti esemplari di questo tipo, all’infinito, senza che le cose cambino”. Ivi, p. 65.
[38] Il colera in particolare fu devastante in tutta Europa nell’intero arco dell’Ottocento, con casi frequenti in tutte le citta principali fin dal 1830.
[40] Era una prassi urbanistica che derivava dall’iniziativa dei nuovi regimi conservativi usciti vittoriosi dalle lotte sociali del Quarantotto. Questa prassi era basata su una divisione ineguale degli oneri e dei vantaggi della proprietà, nella maniera in cui un’opera pubblica che aumentava il valore di un suolo era interamente a carico della spesa pubblica, pesando minimamente sul guadagno aggiunto del proprietario privato. L. Benevolo, op. cit., pp. 83-111.
[41] Ivi, pp. 357-382.
[42] In riferimento alla morte di George Floyd il 25 maggio 2020. Per una lettura sull’argomento e più in generale sulla questione razziale negli Stati Uniti si rimanda al numero di giugno di Policlic.
[43] Il razzismo americano implica una difficoltà sistemica da parte di persone facenti parte di una minoranza etnica ad accedere a servizi essenziali, a un’istruzione adeguata e a ottenere condizioni di vita soddisfacenti. È un modello culturale basato sulla supremazia da parte di un certo gruppo etnico, la white supremacy, sviluppato su presupposti culturali derivati direttamente dalla storia americana.
[44] Per una overview su alcuni interventi di pianificazione che implicarono il razzismo si veda A. Bartolotta, Racism in Urban Planning, Forward Pinellas, 13 agosto 2020, o ancora il progetto dell’università del Minnesota.
[45] Autostrade senza pedaggi.
[46] Un esempio famoso è la 8 mile di Detroit.
[47] Implicazioni che vanno dalle questioni sociali più importanti a quella della sicurezza o addirittura alle problematiche legate al clima.