Policlic n.15
Premesso che giustizia e diritto non coincidono e non sono sinonimi, poiché con la definizione di “diritto” si intende “l’insieme di principi codificati allo scopo di fornire ai membri di una comunità regole oggettive di comportamento su cui fondare un’ordinata convivenza” e con la definizione di “giustizia” s’intende “il principio morale, la virtù, consistente nel dare a ciascuno il dovuto, nel giudicare con equità”, cosa altrettanto diversa è la “giustizia vera”.
Il termine è stato sapientemente usato dal Card. Gualtiero Bassetti, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il 23.09.2021 nell’Omelia della Messa per il beato Rosario Livatino, nell’atrio della Corte di Cassazione, in occasione della collocazione nel Palazzo di una immagine del magistrato ucciso barbaramente dalla mafia il 21.09.1990, sulla strada statale 640 che da Canicattì porta al Tribunale di Agrigento. Il cardinale, riprendendo un brano evangelico, ha osservato:
[…] Se è facile lasciarsi prendere dallo sconforto, a causa di ritardi e di molteplici difficoltà, la ricostruzione è possibile… È per questo, per una ‘giustizia vera’ che ha lottato Livatino, fino a dare la sua vita come martire. È per questo che ha combattuto con tutte le sue forze e con la costanza dell’impegno quotidiano, contro le ingiustizie, come quelle di cui si parla nei vangeli.
Come operatore del diritto da più di trentacinque anni (ho superato il concorso in magistratura il 30.10.1986 ed ero iscritta all’Ordine degli Avvocati e abilitata all’insegnamento di discipline giuridiche ed economiche nel 1985), credo e ho sempre creduto fortemente nella giustizia vera, quantomeno come obiettivo verso cui tendere, non riuscendo ad accontentarmi della giustizia processuale, sempre più intrisa di barriere procedimentali che rischiano di allontanare dalla giustizia sostanziale e svelano un ruolo abnorme delle regole processuali e della loro tradizionalmente ritenuta autonomia, sino al rischio di possibili inferenze con l’effettività della tutela dei diritti.
Per me è stato qualcosa di più anche della giustizia sostanziale, perché ho creduto, più istintivamente che razionalmente, che dovesse sostanziarsi in una vera e propria scelta di vita. Una scelta in cui immanente fosse l’esigenza di mostrare, in silenzio, senza mai arretrare di un passo, fino in fondo e senza sconti a nessuno – e, soprattutto, a me stessa – con l’agire quotidiano, di aver fatto pienamente la mia parte. L’obiettivo posto era quello di tenere sempre presente il rispetto per i diritti degli altri, animata dal valore etico secondo il quale si opera secondo bontà e verità, nel riconoscere il diritto di ognuno attraverso l’attribuzione di quello che gli spetta.
E tanto, in linea col pensiero di Rosario Livatino, efficacemente espresso in “Fede e Diritto” nel 1986, quando scrisse che:
[…] È proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata. Il magistrato non credente sostituirà il riferimento al trascendente con quello al corpo sociale, con un diverso senso ma con uguale impegno spirituale. Entrambi, però, credente e non credente, devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà ed autonomia. E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società ˗ che somma così paurosamente grande di poteri gli affida ˗ disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione.
Ritengo quindi che, oggi più che mai, dopo i recenti scandali che hanno indebolito il prestigio della magistratura, appannandone autorevolezza e affidabilità agli occhi del cittadino, sbigottendo prima e straziando poi psicologicamente la tanta magistratura sana del nostro paese, debba esistere soprattutto per l’operatore del diritto e in primis per il magistrato un alto senso della giustizia, definito talvolta naturale proprio in quanto ritenuto innato, che deve impegnare ogni singolo individuo a usare nei confronti dei propri simili, criteri di giudizio e di conseguente comportamento, rispondenti a giustizia nel senso di onestà, correttezza e non lesività del prossimo.
In altri termini, oggi più che mai, avverto il bisogno che la giustizia diventi quasi una virtù morale che, pur privata, abbia un innegabile riflesso operativo su quella codificata e istituzionalizzata, per ridurre i casi in cui l’atto emanato da un organo potestativo, possa non essere necessariamente giusto, pur restando atto di potere cui bisogna sottostare, e orientando conseguentemente l’azione giudiziaria, affinché il destinatario del servizio giustizia lo possa sentire invece sempre più rispondente ai suoi bisogni e alle sue aspettative, e quindi veramente giusto.
Conscia che Auctoritas non veritas facit legem, ovvero il potere fa le leggi, ma non fa la verità, so bene che questa possa essere solo un’aspirazione soggettiva e sia cosa assai distinta dalla giustizia sostanziale e processuale. Tuttavia, da magistrato cattolico ho impostato il mio mestiere in questa direzione e prediletto le materie in cui avevo la possibilità di agire in favore di vittime cui dare voce, contribuendo a dar loro soddisfazione giudiziaria e tacitazione della sofferenza, convinta che la giustizia si sostanzi comunque in un dovere e in un diritto che coinvolge tutti, nella costante e perpetua volontà, tradotta in azione, di riconoscere a ciascuno ciò che gli è dovuto, messa in atto sempre come volontà del popolo, in ogni genere di processo.
C’è comunque un’evidente crisi della giustizia in Italia che va letta, a mio parere, sotto un duplice aspetto: sia come crisi di efficienza, di garanzie effettive dei diritti e di credibilità di chi la amministra, che come crisi della scala di valori e delle convinzioni etico-sociali della società, che non può non avere concreti riflessi anche sulle decisioni della magistratura, talora non in linea con il comune sentire dei destinatari o di una determinata categoria di essi. Ciò impone alcune riflessioni.
Da un lato, è in corso l’elaborazione di una serie di profonde riforme in materia di processo penale e civile, per superarne mali endemici e garantirne la ragionevole durata e una maggiore efficacia, ma dall’altro occorre rinnovare lo spirito e conseguentemente l’approccio attraverso il quale si rende il servizio giustizia, ponendosi in concreto nella posizione dell’interessato, per meglio comprendere gli aspetti della vicenda che, per il diverso livello culturale, sociale, etico o semplicemente per il diverso vissuto, possono non essere agevolmente colti da parte dell’operatore del diritto. Tale operatore dovrebbe sempre rifuggire dalla tentazione di sentirsi perito peritorum in tutto, in quanto la specializzazione nell’approccio alle varie materie è fondamentale, come in alcuni ambiti lo è l’ausilio di esperti quali psicologi, psicoterapeuti, medici legali e chimico-biologi.
Dal lato delle riforme in atto nell’ordinamento giudiziario e del Consiglio Superiore della Magistratura, mi limito solo ad auspicare che si proceda con il massimo equilibrio e consapevolezza del reale disagio in cui operano da decenni magistrati, personale amministrativo e polizia giudiziaria, legato alla carenza cronica di risorse innanzitutto personali, ma anche di luoghi in cui esercitare dignitosamente le rispettive delicatissime funzioni, oltre che di mezzi, scarsi e inadeguati a contrastare una criminalità sempre più globale, che dispone di tanto materiale umano, di armi e di sofisticati strumenti digitali, usati eccellentemente.
Considerato che nel mio variegato percorso professionale mi sono occupata e mi occupo tutt’ora prevalentemente di materie quali la criminalità organizzata, i delitti contro la famiglia e le fasce deboli, la tutela dei minori, sia sotto il profilo del pregiudizio subito che quali soggetti coinvolti nelle separazioni e divorzi dei propri genitori, dal lato del cambio di approccio da parte dell’operatore del diritto, è proprio sulla base delle migliaia di casi trattati in trent’anni e quindi della giustizia vissuta, che ritengo utile evidenziare ciò che può essere migliorato.
Comincio col dire che sono fiduciosa in un’accelerazione del cambiamento, per il fisiologico mutamento generazionale della categoria della magistratura, atteso che le fasce più giovani sono portatrici di convinzioni sicuramente più rispettose e attente che nel passato all’ambiente, alla trasparenza politica e amministrativa, alla violenza agita contro le donne, i minori, gli anziani, i disabili, gli immigrati e la comunità LGBTQ, con i conseguenti riflessi positivi sui provvedimenti dei giudici e sulle indagini dei pubblici ministeri.
Orbene, a titolo esemplificativo, mi piace soffermarmi su due temi a me cari: quello dell’effettivo superiore interesse del minore e quello dell’effettiva tutela della donna oggetto di violenza sessuale e domestica.
Molta strada è stata fatta dagli anni in cui questi obiettivi erano solo affermazioni di principio, poiché nelle aule giudiziarie, al contrario, abituali erano le sentenze di assoluzione per i reati di violenza sessuale, come pure abituali erano i provvedimenti concernenti la maldestra gestione dell’affidamento dei figli di genitori separati, che li faceva di fatto diventare “orfani di padri viventi”.
I traguardi oggi raggiunti sono stati favoriti, oltre che dalle norme più calzanti e mirate introdotte dal legislatore, anche dal profondo cambiamento culturale che è in atto nella società, con la sempre più avvertita esigenza di rispetto del principio costituzionale di uguaglianza (art. 3), per il quale “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Con riguardo all’effettivo preminente interesse del minore, il vulnus è a mio parere costituito dalla non adeguata applicazione del principio della bigenitorialità, concetto introdotto con la l. 54/2006, dopo che con la Convenzione sui Diritti del Bambino di New York del 20.11.1989 si era diffusa sempre più la convinzione che un bambino abbia il diritto di avere un rapporto continuativo con entrambi i genitori, anche se gli stessi si separano. In base a questo principio, il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ognuno dei genitori, di ricevere attenzione, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ognuno dei rami genitoriali (art. 337 ter c.c.).
Ciò significa per il giudice dover preferire sempre l’affido condiviso della prole anziché quello esclusivo e il suo compito diventa particolarmente difficile quando, sul piano pratico, si verifica l’esistenza di una situazione di conflitto tra i genitori, alimentata da una competitività esasperata, tesa a distorcere le finalità dell’istituto attraverso sopraffazioni di carattere egoistico idonee a sacrificare le aspirazioni di esistenza dei figli. In un simile contesto la S.C. (Cass. Ord., 10.12.2018 n. 31902), ha negato l’applicazione di una proporzione matematica in termini di parità dei tempi di frequentazione del minore con ognuno dei genitori e ha precisato che:
La bigenitorialità non si concretizza in termini di parità dei tempi di frequentazione del minore, ma richiama semplicemente il diritto di ogni genitore e del figlio ad essere presente in modo significativo nella sua vita, contemperando questo diritto con le complessive esigenze di vita che si pongono nel caso concreto (Cass. Civ., 23 settembre 2015, n. 18817).
È da intendersi quindi come:
Presenza comune dei genitori nella vita dei figli, idonea a garantire agli stessi una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, che hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione (Cass. Civ., 23 settembre 2015, n. 18817).
Con ciò di fatto si ricostruisce il ruolo del padre, spesso non collocatario della prole, assimilandolo a quello degli ascendenti e parenti, laddove invece, a mio parere, il ruolo va considerato paritariamente rispetto a quello della madre, peraltro spesso individuata quale genitore collocatario della prole.
Sembra potersi dire che in genere permangano effetti di lungo termine dei decenni di affidamento monogenitoriale, a dispetto di convenzioni internazionali e cambiamenti giuridici interni, dinanzi a pronunce non isolate e indicative di una posizione consolidata, quasi ostile all’applicazione dell’istituto dell’affidamento condiviso, spesso a sostegno della restaurazione del modello adultocentrico e per giunta in senso monogenitoriale, in parte avallate anche dalla Suprema Corte, con rilevanti effetti sui giudici di merito, attesa la sua funzione nomofilattica.
Il principio della bigenitorialità va infatti di pari passo con l’effettiva applicazione dell’affidamento condiviso del minore ai genitori separati. Sembrerebbe ancora tutto da realizzare, soprattutto nella forma dell’affido paritario, perfettamente alternato, dei figli. Tale forma è l’unica idonea a restituire al padre il ruolo che gli spetta di condivisione nella crescita della prole e non solo di erogatore di contributi per il mantenimento della stessa e di assegni in favore della moglie separata/divorziata ritenuta, spesso contrariamente al vero, incapace di svolgere attività lavorativa.
Occorre quindi forse rammentare che i diritti conquistati in materia di parità di sessi, vanno di pari passo con i doveri, che sono cosa diversa dalle rendite parassitarie costituite da taluni assegni di separazione o divorzio, lesive della stessa dignità della donna/madre e tali da svilire e umiliare il ruolo e la figura dell’uomo/padre. Il padre, quando non è più in condizioni di pagare, viene indagato per violazione degli artt. 81 e 570 c.p., perdendo inoltre l’affetto e la possibilità di incontrare i figli, che non vogliono più vederlo e, talora, per troppo dolore, da uomo mite e comprensivo che era, diventa violento e aggressivo, perché non ha più nulla da perdere, materialmente e affettivamente, donde il sottovalutato stretto legame tra le questioni legate alle separazioni/divorzi e la violenza contro le donne e i minori, costituenti il precedente nucleo familiare, pur tanto amato.
D’altro canto, se non si persegue l’obiettivo di far crescere i figli anche insieme al padre, con una corretta interpretazione dell’art. 337 ter c.c., che parla di rapporti significativi con riferimento agli ascendenti e ai parenti di ognuno dei rami genitoriali e non al padre, come si può credere che i minori, spesso dotati di un genitore sociale, che ha al contempo assunto un distorto ruolo sostitutivo, possano desiderare di incontrare o andare in viaggio con un padre visto solo come bancomat?
Ritengo quindi che vada precocemente incentivato l’affidamento paritario alternato dei figli, prima che manipolazioni e influenze ambientali/affettive creino lo scompenso che si verifica a favore del genitore collocatario, tenendo presente in tutto il percorso giudiziario, sia minorile che civile, che la coppia può venire meno, ma che genitori si resta sempre e si deve esserlo nel senso vero del termine, e non in un senso mortificato, per limitazioni di modalità d’incontro e di collocazione della prole. Si può essere figli di separati/divorziati ed essere più sereni perché, venute meno le liti, aggressioni e vite autonome coniugali, condotte in precedenza nella finta famiglia del mulino bianco mostrata agli amici e parenti, subentrano scelte affettive autentiche, abitazioni riempite di sentimenti, che fanno sentire i figli più considerati, coinvolti in esperienze differenziate di vita e di crescita nei distinti nuclei familiari del padre e della madre, destinatari anche di maggiori beni (hanno il doppio di tutto in due distinte case) e soprattutto maggiormente amati, poiché tenuti fuori dai ricatti e conflitti di lealtà, strumentali a ottenere provvidenze economiche e abitative più vantaggiose per l’uno o l’altro dei genitori.
E occorre, infine, riuscire a garantire tutela effettiva e non solo formale alle donne, quando oggetto di violenza sessuale e domestica, svolgendo in questi ambiti innanzitutto indagini più pregnanti, attraverso l’analisi dei mezzi digitali a disposizione delle vittime come degli indagati e facendo maggiore ricorso agli accertamenti comparativi chimico-biologici sul DNA, da ricercare nei reperti sequestrati tempestivamente, affinché la parola della persona offesa non resti una prova isolata ed esposta all’attacco scaltro e scorretto di chi voglia minarne l’attendibilità. Un riscontro esterno rende indubbiamente più forte tale voce e consente una risposta giudiziale, in termini di condanna, sicuramente più efficace, sia sotto il profilo della riduzione del rischio di reiterazione della commissione di atti violenti ovvero di tipo sessuale, che della valenza sociale di monito, nei confronti di chi abbia facili tentazioni devianti in tal senso.
E non occorre trascurare la mediazione familiare, effettuata prima di sporgere denuncia-querela o una volta cessata la fase processuale, nella sua diversa funzione, rispettivamente, di prevenire i conflitti ovvero ricucire i rapporti e comunque stabilire una forma di civile comunicazione nella coppia, proprio nell’interesse dei figli che, una volta rafforzate le capacità genitoriali, all’esito di un apposito percorso (anche psicoterapeutico quando occorre), affidato ai servizi sociali e consultoriali del territorio, hanno diritto a recuperare il rapporto con il genitore che lo abbia positivamente affrontato, maturando autentica resipiscenza e consapevolezza degli errori fatti.
E, per quanto ciò possa apparire utopico, una evoluzione in tal senso l’ho potuta constatare in molti casi, nella mia lunga esperienza specializzata, anche se purtroppo, spesso ottenuta al di fuori e a prescindere dai processi, penali o civili che hanno riguardato il nucleo familiare.
Molta strada è stata fatta in questi delicati ambiti, ma come si comprende bene, molta deve essere ancora percorsa, liberandosi sempre di più dai pregiudizi, anche inconsci, che talora oscurano la lucidità del pensiero e del giudizio, specie nei settori in cui è la giustizia vera che dovrebbe dare voce a chi non ce l’ha.