Clicca QUI per scaricare Policlic n. 4
Traguardi e sfide della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia
Il 20 novembre 1989 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approva la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia. Il documento chiarisce quali siano gli obblighi degli Stati e della comunità internazionale in materia di diritti dei minori. La Convenzione è il frutto di un lungo processo evolutivo iniziato nel 1923 con la Dichiarazione di Ginevra – promossa dalla Società delle Nazioni – e passato attraverso la promulgazione, nel 1959, della Dichiarazione sui diritti del fanciullo da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
La Convenzione del 1989 incarna la volontà della comunità internazionale di istituire uno strumento giuridico atto a vigilare sul rispetto dei diritti dei minori e a condannare qualsiasi tipo di violazione nei confronti dei più piccoli. Ad oggi, nell’ambito dei diritti umani, è il “trattato con il più alto numero di ratifiche”: sono 196 gli Stati che si sono impegnati giuridicamente per la salvaguardia dei bambini – a cui si aggiungono gli Stati Uniti che, però, hanno firmato la Convenzione senza mai procedere alla ratifica.
La Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia è regolata da quattro principi fondamentali:
-
Non discriminazione: i diritti sanciti dalla Convenzione devono essere garantiti a tutti i minori senza distinzione di razza, sesso, lingua, opinione del bambino/adolescente o dei genitori;
-
Superiore interesse: in ogni legge, provvedimento, iniziativa pubblica o privata e in ogni situazione problematica, l’interesse del bambino/adolescente deve avere la priorità;
-
Diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo del bambino e dell’adolescente: gli Stati devono impegnare il massimo delle risorse disponibili per tutelare la vita e il sano sviluppo dei bambini, anche tramite la cooperazione tra Stati;
-
Ascolto delle opinioni del minore: prevede il diritto dei bambini a essere ascoltati in tutti i processi decisionali che li riguardano, e il corrispondente dovere, per gli adulti, di tenerne in adeguata considerazione le opinioni.
La Convenzione prevede anche un meccanismo di monitoraggio che obbliga gli Stati a sottoporre al Comitato ONU sui diritti dell’infanzia dei “rapporti dettagliati sull’attuazione dei diritti dei bambini e degli adolescenti nel proprio territorio”. È composto da “18 esperti di alta moralità e in possesso di una competenza riconosciuta nel settore oggetto della Convenzione, eletti a scrutinio segreto tra i componenti di una lista i cui nominativi sono designati in numero di uno per ciascuno Stato parte”. Il Comitato ONU sui diritti dell’infanzia “ha la facoltà di indagare su presunte violazioni gravi e sistematiche dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza commesse da singoli Stati”. Infine, il Comitato “pubblica regolarmente la propria interpretazione di norme e aspetti specifici sui diritti dell’infanzia attraverso i suoi ‘Commenti generali’ che hanno la funzione di assistere gli Stati parti nel compimento degli obblighi che derivano loro dalla ratifica della Convenzione”.
Lo scorso anno la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia ha festeggiato il suo trentesimo compleanno e il dibattito riguardante i diritti dei minori è tornato alla ribalta. Molti hanno voluto sottolineare l’importante lavoro svolto dalla comunità internazionale nella protezione dei bambini più vulnerabili; altri, invece, hanno rimarcato quanto la Convenzione rappresenti, per lo più, un traguardo formale, considerando le alte percentuali di minori sottoposti a minacce di ogni genere: malnutrizione, guerra, carestie e disastri naturali.
Come riportato dal rapporto UNICEF “Ogni diritto per ogni bambino”, dal 1989 il tasso di mortalità “tra i bambini sotto i 5 anni è diminuito di circa il 60%”, la percentuale di “bambini in età da scuola primaria che non vanno a scuola è sceso da 18 a 8%” e “principi cardine della Convenzione […] hanno influenzato in tutto il mondo Costituzioni e leggi nazionali”. Da questo punto di vista, l’impegno giuridico della comunità internazionale nei confronti dei diritti dell’infanzia sembrerebbe aver generato un processo virtuoso di engagement. Molti sono gli Stati che, grazie alle direttive delle Nazioni Unite, sono riusciti a migliorare le condizioni di vita di milioni di bambini. Per fare un esempio, l’Uganda – un Paese marchiato dal dramma dei bambini soldato – negli ultimi trent’anni ha registrato una diminuzione del 66% del tasso di mortalità tra i minori di cinque anni.
Tuttavia, l’impegno della comunità internazionale non è bastato a realizzare gli obiettivi della Convenzione in maniera omogenea. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), “circa il 20% delle donne, e tra il 5% e il 10% degli uomini, hanno subito abusi sessuali da bambini”. Recenti studi hanno inoltre dimostrato che, in molte parti del mondo, “dall’80 al 98% dei bambini hanno ricevuto punizioni fisiche a casa”, spesso con l’uso di oggetti contundenti.
Si tratta di percentuali che fanno emergere una realtà piuttosto angosciante: spesso e volentieri i principali ostacoli alla salvaguardia dei diritti dell’infanzia sono rappresentati da familiari, congiunti o insegnanti. Il che sottolinea quanto i principi contenuti nella Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia fatichino a penetrare in determinati ambienti socioeconomici. Ecco che, allora, diventa inevitabile scorgere una correlazione tra assenza di diritti e problematiche di carattere politico, sociale ed economico.
Come prevedibile, la maggior parte degli abusi nei confronti dei minori si riscontra in Asia e in Africa. In particolare, il continente africano è quello in cui si concentrano le maggiori violazioni a danno di minori; si stima che, tra il 2014 e il 2018, nelle zone colpite dai conflitti, i bambini vittime di abusi siano stati più di 55.880. Ma in Asia le condizioni dei minori non sono poi troppo migliori. Negli ultimi anni, in India il lavoro minorile ha assunto dimensioni tali da rendere il fenomeno dello sfruttamento dei più piccoli una vera e propria piaga, al punto che le attività professionali svolte dai bambini costituiscono il 23% del PIL nazionale. Senza tralasciare la Cina, accusata, a più riprese, di non vigilare in maniera accurata sul ricorso al lavoro minorile nelle fabbriche dei colossi della tecnologia – nel 2013 fece scalpore la morte di un ragazzo di 14 anni, prostrato dalle oltre dodici ore di lavoro giornaliere, in una fabbrica che produce componentistica per aziende quali Samsung, Canon e Sony.
Al di là delle implicazioni di carattere politico-economico, gli studi riguardanti la negazione dei diritti dell’infanzia gettano un cono d’ombra sull’operato della comunità internazionale. Basterebbe considerare solo i contesti di guerra siriano e yemenita per rendersi conto di come il mondo della cooperazione internazionale spesso tenda a voltare le spalle ai più piccoli. Da Idlib a Sana’a, è ormai cosa nota che i principali attori in scena nei due teatri di guerra si sono macchiati di imperdonabili violazioni nei confronti di minori[1]. Tuttavia, le condanne che giungono dalla comunità internazionale faticano ad assumere forme che non riguardino ammonimenti di carattere verbale; un’immobilità istituzionale che dovrebbe far riflettere sul futuro delle organizzazioni mondiali.
Sebbene la maggior parte delle violazioni a danno dei minori si concentrino in quello che una volta veniva definito “Terzo Mondo”, l’Occidente non sembra immune da tale problematica. I dati raccolti in Italia nel 2018 hanno indicato come, in soli dieci anni, il numero di abusi nei confronti dei minori sia aumentato del 47%. Al di là dell’Atlantico, invece, le ricerche effettuate dall’organizzazione National Children’s Alliance hanno rilevato che, ogni anno, negli Stati Uniti, i minori vittime di abuso ammonterebbero a circa 700.000 unità e i tassi più alti di violenza si riscontrerebbero tra i bambini di età inferiore ai 12 mesi.
L’ingenza dei trend negativi registrati in Occidente sembra suggerire, perciò, come la negazione dei diritti dei minori sia un problema globale che neanche le liberal-democrazie europee e nordamericane sono in grado di eludere. In questo senso, quanto accaduto in Italia durante il lockdown per arginare la diffusione della COVID-19 assume una valenza simbolica. In occasione della serrata di marzo-aprile 2020, le richieste di aiuto al Telefono Azzurro hanno registrato un’impennata del 40%, sottolineando la correlazione esistente tra negazione dei diritti e crisi di carattere politico, economico, sociale e abitativo – un binomio molto evidente in Africa, Asia e Sudamerica, che rischia di replicarsi in Occidente a causa degli effetti della crisi sanitaria e della rovinosa caduta del PIL.
I dati riportati fin qui permettono di inquadrare quelli che, a livello macroscopico, sembrano essere i principali ostacoli per l’adempimento dei diritti dell’infanzia a livello globale. Ciononostante, l’osservazione delle singole realtà continentali permette di individuare le principali emergenze che la comunità internazionale è chiamata a risolvere per assicurare ai bambini un futuro migliore.
Povertà: le diseguaglianze che feriscono i più piccoli
La prima e più tangibile minaccia al diritto all’infanzia è, senza alcun dubbio, la povertà. Da nuove stime risulta che, al giorno d’oggi, metà della ricchezza globale sia concentrata nelle mani di sole otto persone. Questo dato assume valenza ancora più negativa se si pensa che in Paesi come Brasile e India l’1% della popolazione detiene più o meno il 55% della ricchezza nazionale. Ma le diseguaglianze non riguardano solamente le nazioni in via di sviluppo. Nei Paesi industrializzati, “dal 1980 al 2016 la percentuale di reddito nazionale in mano al 10% più ricco è passata negli Stati Uniti (e in Canada) dal 34 al 47%, in Russia dal 21 al 46%, in Cina dal 27 al 41%”.
Secondo un’analisi dell’economista francese Thomas Piketty, “negli ultimi trent’anni la crescita dei salari del 50% della popolazione mondiale è stata pari a zero, mentre quella dell’1% della popolazione mondiale è aumentata del 300%”. Nello stesso periodo di tempo, 7 persone su 10 si sono ritrovate a vivere in luoghi dove le diseguaglianze socioeconomiche sono aumentate. Inoltre, “tra il 1988 e il 2011 il reddito medio del 10% più povero della popolazione mondiale è aumentato di 65 dollari (meno di 3 dollari all’anno), mentre quello dell’1% più ricco è salito di 11.800 dollari (cioè 182 volte in più)”. Una situazione di questo genere non può che far riflettere sulle reali possibilità offerte dal modello di sviluppo che ha caratterizzato l’economia mondiale negli ultimi tre decenni. Divari distributivi di questa portata si traducono in insicurezza sociale e precarietà politico-economica, rischiando di compromettere gli impegni assunti dalla comunità internazionale nei confronti dei diritti umani.
Non è un caso, infatti, che persino nei Paesi industrializzati il numero dei minori in povertà sia aumentato in modo esponenziale. Secondo una rilevazione ISTAT del 2019, il numero di minori in povertà assoluta in Italia si aggirerebbe attorno a 1.137.000, vale a dire l’11,4% dei bambini italiani; di questi, l’8,6% risiederebbe al Sud, il 5,8% al Nord e il 4,5% al Centro. La piaga della povertà, oltretutto, sembra colpire proprio le famiglie con minorenni. Particolarmente affetti da questo dramma “sono i nuclei mono-genitoriali: di questi, quasi 1 su 6 è in povertà assoluta, con un aumento di 5 punti percentuali tra il 2017 e il 2018”.
A rendere la condizione di queste famiglie ancora più allarmante è la previsione contenuta nel rapporto “Non da soli” di Save the Children. Secondo l’organizzazione, senza adeguati interventi istituzionali l’emergenza coronavirus rischia di generare un milione di bambini in povertà assoluta – cifra che potrebbe addirittura aumentare se l’economia dovesse subire un’ulteriore contrazione. È come se l’intera popolazione di una città della grandezza di Napoli si ritrovasse al di sotto della soglia di povertà.
L’Italia è un caso di studio perfetto per capire quanto avvenuto negli ultimi trent’anni in Occidente, dove l’aumento del numero di famiglie in condizioni di povertà assoluta è da imputare all’immobilismo reddituale – e, in alcuni casi, anche al disfacimento – che ha afflitto la classe media negli ultimi decenni. Facendo riferimento alle analisi di Piketty, “mentre […] l’1% più ricco della popolazione globale si è accaparrato il 27% della ricchezza totale, ai più poveri è rimasto solo il 12%, ma la loro ricchezza è comunque cresciuta dal 1980 al 2016”. A non registrare alcun tasso di crescita reddituale è stata proprio la classe media – gruppo sociale un tempo preponderante nel contesto delle democrazie liberali occidentali e, fino a poco tempo fa, motore delle economie dell’area atlantica. Secondo Piketty, in assenza di una riorganizzazione delle politiche economiche, da qui ai prossimi trent’anni, l’impoverimento della classe media è destinato ad aumentare.
Se in Europa e Nordamerica le diseguaglianze iniziano ad apparire alla stregua di un problema insormontabile, in altre zone del mondo esse rappresentano una vera e propria malattia endemica. In Occidente le caratteristiche socioeconomiche dei sistemi liberal-democratici sono state, in un certo qual modo, un freno all’aumento spropositato delle diseguaglianze, ma in Asia, Africa e Sudamerica l’apertura dei mercati e la globalizzazione hanno generato vere e proprie spaccature sociali. Da questo punto di vista, l’India rappresenta un caso emblematico.
Con una popolazione di 1 miliardo e 300 milioni di abitanti, il subcontinente indiano sta assumendo sempre più le sembianze di un vero e proprio laboratorio per esperimenti sociali su larga scala. Mentre nel resto del mondo le diseguaglianze sono sempre più consistenti, in India esse rappresentano, da decenni, una realtà conclamata. In cima alla piramide sociale indiana, infatti, spicca un cerchia ristretta di ricchi, pari all’1% della popolazione – alcuni, come il magnate del petrolio Mukesh Ambani, capaci di accumulare un capitale di 47,8 miliardi di dollari. Nelle mani di questa casta di privilegiati passa una ricchezza che è quattro volte maggiore rispetto a quella del 70% della popolazione, vale a dire 953 milioni di persone. Di questi, ben 70 milioni vivono in condizioni di povertà estrema, andando a gonfiare le baracche degli slum di Mumbai, Nuova Delhi e Calcutta.
Dal 2014, anno dell’insediamento del Primo Ministro Narendra Modi, il tasso di disoccupazione è passato dal 2,2% al 6,1%. Circa 11 milioni di persone si sono ritrovate senza lavoro, molte delle quali sono finite a mendicare. In questo contesto, il numero dei bambini che vivono in strada è aumentato in maniera esponenziale. Secondo alcune stime, i minori indiani senzatetto ammonterebbero a 11 milioni: un numero inimmaginabile di minori sottoposto a sfruttamento, violenza e prostituzione.
Numeri impietosi riguardano anche le possibilità di accesso ai servizi, i tassi di mortalità e malnutrizione. Secondo l’UNICEF, sarebbero più di 2 milioni i bambini che ogni anno muoiono per infezioni facilmente prevenibili – a livello globale, l’India detiene il record negativo relativamente ai tassi di mortalità tra i bambini di 0-5 anni. Per quanto riguarda l’accesso ai servizi scolastici, nonostante i progressi raggiunti negli anni Novanta, il 20% dei bambini tra i 6 e i 14 anni non frequenta la scuola, mentre le bambine analfabete sono circa 190 milioni. Inoltre, “un bambino malnutrito su tre al mondo, vive in India. Il 46% circa dei bambini minori di tre anni è sottopeso, e molti di loro soffrono di malnutrizione acuta. Circa il 30% dei bambini è sottopeso alla nascita”.
In ogni caso, è bene ricordare ancora una volta che la povertà non si traduce solo in indigenza. Il fenomeno, infatti, comporta una lunga serie di problematiche, quali violenze di tipo domestico e sessuale, esclusione sociale, razzismo e criminalità. Elementi, questi, che minano le possibilità dei bambini fin dalla nascita, incatenandoli a uno stile di vita caratterizzato da privazioni, vulnerabilità e instabilità esistenziale. Si tratta, in definitiva, di un mancato rispetto della dignità dei minori così come stabilito in materia dal diritto internazionale. Un fatto che dovrebbe far riflettere la politica sulle conseguenze del modello di sviluppo che, da trent’anni a questa parte, regola gli aspetti socioeconomici della maggior parte delle nazioni del mondo.
In fuga dalle pallottole: gli effetti della guerra sui bambini
Che i conflitti armati siano una minaccia per i più piccoli è un fatto conclamato ormai da tempo. Basti pensare che la creazione di Save the Children da parte di Eglantyne Jebb trova origine nella volontà di sollevare le sorti di tutti quei bambini che avevano sperimentato gli orrori della Prima guerra mondiale. Tuttavia, nel corso del Novecento, la parcellizzazione dei conflitti e l’introduzione di tattiche di guerra molto più cruente rispetto al passato hanno finito per mettere ancora più in pericolo l’avvenire di migliaia di minori.
Infatti, se fino alla Seconda guerra mondiale i conflitti venivano combattuti solo tra soldati specializzati nella lotta, oggi le guerre hanno assunto le sembianze di vere e proprie stragi di persone innocenti. Si calcola che, a partire dalla guerra che ha lacerato l’Europa nel 1939-1945, “oltre il 90% dei caduti nelle guerre sono civili, in metà dei casi bambini”. Questo perché i campi di battaglia si sono estesi ben oltre i recinti delle trincee e gli scontri tra fazioni opposte si sono spostati su “città, villaggi, scuole e ospedali”.
Oggi assistiamo a conflitti armati strutturati attorno a una cosciente strategia di annientamento del nemico. Come dimostrano i casi del Ruanda, dei Balcani o della Siria, gli scontri all’arma bianca e le cannonate sparate da uomini in divisa sono stati da tempo sostituiti da bombardamenti a tappeto, stupri etnici ed esecuzioni di massa. A fare le spese di questi massacri premeditati sono gli individui più vulnerabili: donne violentate per impedire la “riproduzione del nemico”, anziani condannati a morte per cancellare la memoria culturale di un preciso gruppo etnico, bambini arruolati tra le fila nemiche e obbligati a uccidere parenti, amici e concittadini. Da tempo, ormai, le guerre hanno smesso di essere una resa di conti fra eserciti ben addestrati e sono diventate sempre più una delle principali cause della negazione dei diritti dell’infanzia.
Le tattiche militari del XXI secolo stravolgono l’esistenza dei bambini; li costringono ad abbandonare le scuole, a vedersi negato l’accesso alle cure, a vivere in pericolose condizioni igienico-sanitarie e a fuggire in Paesi lontani. Spesso e volentieri, i conflitti armati avvengono in regioni in cui le scuole e i centri sanitari rappresentano l’unico riparo dalla fame e dalla miseria – in Africa non è raro imbattersi in istituti scolastici che supportano le famiglie con l’erogazione di alimenti salubri e nutrienti.
Per fare un esempio, in una località vicino Idlib, nella Siria nordoccidentale, lo scorso 25 febbraio 7 bambini e 3 insegnanti hanno perso la vita in seguito al bombardamento di una scuola. Si trattava del ventiduesimo dall’inizio dell’anno. Per di più, nelle zone in cui le scuole rappresentano obiettivi sensibili, i genitori preferiscono interrompere il percorso scolastico dei figli per paura che possano restare uccisi. Da questo punto di vista, la guerra rappresenta una delle principali cause alla base della dispersione scolastica dei più piccoli.
Ma i conflitti moderni coinvolgono i minori in molti altri modi. Ad accomunare alcune delle più cruente guerre degli ultimi anni è il dramma dei bambini soldato. Nonostante il diritto internazionale consideri l’arruolamento dei bambini un crimine di guerra, ogni anno decine di migliaia di minori vengono costretti a imbracciare il fucile e a partecipare ad azioni di combattimento. Privati di ogni legame familiare e, molto spesso, storditi da stupefacenti, sono troppi i bambini che vengono sfruttati per fini militari.
Tra gli anni Ottanta e Novanta, durante il conflitto che sconvolse l’Uganda, Joseph Kony, leader del Lord’s Resistance Army, utilizzò i bambini soldato per seminare panico e distruzione tra le popolazioni del Nord del Paese. Il Child Soldiers Global Report del 2004 stima che i minori arruolati dal Lord’s Resistance Army sarebbero stati circa 20.000. Molti di questi sono riusciti a fuggire e a tornare a una vita normale, ma spesso i traumi psicologici li costringono a fare i conti con rimorsi, sensi di colpa e il terrore di essere nuovamente arruolati.
In aggiunta a ciò, la guerra è in grado di produrre una delle più efferate brutalità che possano essere inflitte a un bambino: la violenza sessuale. Durante i conflitti milioni di minori vengono sottoposti a violazioni talmente gravi da comprometterne il naturale sviluppo psicofisico. Un rapporto di Save the Children del 2013 stimava che in alcuni Paesi l’incidenza degli abusi sessuali a danno di minori, durante e subito dopo i conflitti, fosse attorno all’80% – un dato che si traduce in circa 30 milioni di bambini violentati. Come prevedibile, le più colpite sono le bambine, ma le violazioni non risparmiano neanche i maschi.
A titolo esemplificativo, in Liberia, “l’83% degli scampati alle violenze di genere nel 2011-12 aveva meno di 17 anni e quasi tutti avevano subito stupro”. Nella Repubblica Democratica del Congo, a fine 2008, sono stati calcolati 16.000 casi di violenza sessuale nei confronti di donne e ragazze; nel 65% dei casi non avevano raggiunto la maggiore età e, di queste, il 10% erano bambine al di sotto dei 10 anni. In Costa d’Avorio, in occasione della crisi post-elettorale, si calcola che le vittime di abusi sessuali siano state, nel 52% dei casi, bambini. In Sierra Leone, nella fase successiva alla fine del conflitto, gli abusi sessuali a danno di ragazze minorenni hanno raggiunto un picco del 70%; “più di un quinto […] aveva meno di 11 anni”.
La maggior parte delle violenze vengono perpetrate su minori in età adolescenziale. Ma vi sono casi – come quelli che hanno contraddistinto la guerra ai narcos in Colombia – in cui le vittime di stupro non raggiungono i 5 anni di età. Spesso e volentieri i minori subiscono violenze sessuali di gruppo commesse da eserciti governativi, milizie paramilitari e gruppi armati rivoluzionari. Le carceri rappresentano uno dei luoghi in cui gli abusi sessuali registrano picchi di incidenza altissimi.
A fare scalpore, negli ultimi anni, è stato il caso delle spose bambine dei miliziani dell’ISIS. Nei territori occupati da Daesh, i combattenti del Califfato vengono risarciti attraverso matrimoni con giovani spose scelte tra le popolazioni sottomesse; una miserabile strategia politico-militare per “legittimare l’occupazione di città e villaggi”. Ancora più doloroso è il caso delle adolescenti rapite e sottoposte a schiavitù sessuale dai miliziani dello Stato Islamico – alcune delle quali uccise per essersi rifiutate di accettare passivamente l’inferno della prigionia[2].
La violenza sessuale nei confronti di un bambino è una barbarie intollerabile; mina lo sviluppo dei minori fin dalla più tenera età e comporta traumi psicologici ed emotivi che ne pregiudicano lo sviluppo psicofisico. Un bambino vittima di abusi sessuali è destinato a diventare un adulto afflitto da problematiche di integrazione sociale – con conseguenze anche dal punto di vista riproduttivo ed educativo. Ecco perché ogni minore vittima di stupro rappresenta un fallimento per l’intera società.
Da qui le necessità, da parte della comunità internazionale, di combattere senza riserve ogni tipo di violenza nei confronti dei bambini e di vigilare, in modo più scrupoloso, sulle modalità di svolgimento dei conflitti. Senza tralasciare l’incidenza dei casi di violenza sessuali nei Paesi più sviluppati, è fondamentale che gli occhi della comunità internazionale scrutino con maggiore attenzione quanto avviene in Africa, Asia e Sudamerica, poiché è in questi continenti che nascerà il grosso delle future generazioni.
Where are you now, my son? Le migrazioni come minaccia al diritto all’infanzia
Le due macro-emergenze analizzate fin qui sono alla base della terza problematica che minaccia il diritto all’infanzia: i flussi migratori. Negli ultimi anni, in Europa, quello dei richiedenti asilo è divenuto uno dei principali terreni di scontro tra le principali forze politiche. La narrazione anti-immigrazione, com’è ormai noto, ha fornito forza propulsiva alla maggior parte dei movimenti populisti del Vecchio Continente e ha esacerbato le problematiche di integrazione interne all’Unione Europea.
Nell’estate del 2019, l’allora Ministro dell’Interno e attuale leader della Lega Matteo Salvini si rese protagonista di un duro braccio di ferro con le ONG che forniscono aiuto alle imbarcazioni cariche di migranti alla deriva nel Mediterraneo; in Francia, nel 2017, Marine Le Pen, capo politico del Rassemblement National, riuscì a raggiungere il secondo turno delle presidenziali grazie alla sua retorica anti-islamista, in un Paese ancora sconvolto dagli attentati terroristici targati Daesh; nell’estate del 2015, il Premier ungherese Viktor Orbán commissionò la costruzione di una recinzione di rete metallica al confine con la Serbia per respingere i flussi migratori provenienti dai Balcani.
Nell’ottobre del 2013, al largo delle coste di Lampedusa, il dramma dei rifugiati deflagrò come una bomba nel cuore dell’Unione Europea. Nel bel mezzo della crisi dei rifugiati siriani, si verificarono due episodi destinati a marchiare in maniera indelebile la recente storia comunitaria. Il 3 ottobre, un peschereccio libico di 20 metri si bloccò a circa mezzo miglio dalle coste italiane. Per attirare l’attenzione e segnalare il guasto al motore, un membro dell’equipaggio diede fuoco a un lenzuolo e prese ad agitarlo. Le fiamme si propagarono sul ponte e molti dei passeggeri, presi dal panico, si riversarono su un lato della barca causandone il ribaltamento per ben tre volte prima di colare a picco. Furono almeno 368 i migranti che persero la vita; di questi, 41 erano minori, la maggior parte dei quali non accompagnati.
Pochi giorni dopo, l’11 ottobre, la Marina Italiana intercettò un’imbarcazione alla deriva carica di rifugiati siriani. Lampedusa era a circa 61 miglia, ma le incomprensioni tra i militari italiani e la Guardia Costiera maltese causarono uno stallo di due ore: un tempo interminabile per un’imbarcazione in avaria e stracolma di passeggeri. Persero la vita 260 migranti, di cui 60 bambini. Il 18 ottobre, il governo Letta varò l’operazione Mare Nostrum per spostare le acque territoriali più a Sud e pattugliare quelle miglia marittime dove ha sede l’inferno dei migranti. L’operazione venne sospesa nel 2014; da allora si calcola che i bambini morti nel Mediterraneo siano stati circa 678.
Purtroppo la questione è ben più sostanziale e non riguarda solo i flussi migratori marittimi che collegano il Nordafrica all’Europa. Un rapporto dell’UNICEF del settembre 2016 fissa il numero di minori in fuga dal proprio Paese a circa 50 milioni di unità – più o meno l’equivalente della popolazione di un Paese come la Colombia. A costringere questa enorme massa di bambine e bambini a compiere viaggi spesso mortali sono fenomeni quali la guerra, la povertà, le persecuzioni etnico-religiose e gli effetti del cambiamento climatico. Una vera e propria nazione in movimento privata del diritto all’infanzia. Di questi, circa 10 milioni risultano essere rifugiati o richiedenti asilo. Una cifra che fotografa una realtà inaccettabile: la metà dei rifugiati nel mondo sono minori.
Quella delle migrazioni è una tragedia capace di minare le opportunità dei più piccoli alla pari di guerra e povertà. Per certi versi, i viaggi della speranza attraverso i deserti di sabbia e acqua possono risultare anche più sfiancanti e pericolosi di un bombardamento o a una crisi alimentare. Durante le traversate, i minori sono sottoposti a minacce di ogni genere: fame, ricatti, stupri, prostituzione, prigionia, violenze fisiche ed emotive. Molti – come dimostra il caso della Libia – nascono in centri di detenzione sovraffollati, senza controlli medici di alcun tipo e rinchiusi in ambienti caratterizzati da pericolose condizioni igienico-sanitarie; condizioni di vita, queste, che compromettono lo sviluppo dei più piccoli fin dai primi giorni.
I racconti dei minori migranti sbarcati a Lampedusa sono un tuffo negli anfratti più bui dell’esperienza umana. Ragazze e ragazzi che, neanche adolescenti, hanno già conosciuto i morsi della fame, le ustioni dei raggi solari del deserto, il gelo dell’umidità del mare aperto e il dolore causato dalla morte di un parente o di un amico. Spesso si tratta di minori costretti a intraprendere viaggi in completa solitudine perché provenienti da famiglie con risparmi economici da destinare a una sola persona. Milioni di bambini che, senza aver avuto il tempo di raggiungere la maggiore età, hanno già conosciuto molte delle atrocità che tanti adulti in età avanzata continuano a sperare di non dover mai sperimentare; situazioni talmente gravi da far sembrare la detenzione nei centri di accoglienza controllati da milizie armate – come quelli libici – la soluzione meno spaventosa.
Per le ragazze – spesso anche per le bambine – le migrazioni rappresentano una minaccia ancora maggiore. Molte sono costrette a subire atti di violenza sessuale o a portare in grembo bambini frutto di stupri. Le oscene condizioni igienico-sanitarie dei centri di accoglienza non permettono loro di gestire dignitosamente necessità fisiologiche quali il ciclo mestruale. Molte, illuse da falsi mistificatori, fanno il loro ingresso nel mondo della prostituzione – spesso il modo più pratico e veloce per raggiungere l’Europa. Come dimostra il caso delle ragazze nigeriane fuggite dalle brutalità di Boko Haram e finite nelle grinfie dei trafficanti di esseri umani, i loro corpi diventano la documentazione delle barbarie subite: ferite, escoriazioni, fratture e mutilazioni. Tutto ciò tralasciando gli effetti psico-emotivi che simili esperienze possono generare nella mente di ragazze non ancora maggiorenni.
Negli ultimi anni, poi, alle tradizionali cause alla base dei flussi migratori se ne è aggiunta un’altra non meno rilevante: la crisi climatica. Per avere un’idea del fenomeno è utile fare riferimento alla previsione della Banca Mondiale, secondo la quale “entro il 2050 saranno almeno 143 milioni le persone costrette a spostarsi per ragioni legate al cambiamento climatico”. Per tutti i motivi esposti fin qui, è naturale aspettarsi che molti di quegli individui saranno bambini. A ben vedere, l’aumento delle temperature e il conseguente innalzamento del livello delle acque costringeranno intere popolazioni a cercare riparo in altre zone del pianeta. Secondo la Banca Mondiale, 86 milioni di migranti proverranno dall’Africa subsahariana, sottoposta a continue siccità e carestie.
Tuttavia, ingenti flussi migratori troveranno origine anche in Asia, dove numerosi Stati stanno già facendo i conti con gli effetti del cambiamento climatico. Questo è il caso, per esempio, del subcontinente indiano. In Bangladesh l’erosione delle coste e le continue inondazioni rischiano di causare l’esodo di circa 19 milioni di bambini. Per non parlare dell’India, dove, in piena emergenza coronavirus, il Ciclone Amphan ha devastato il Bengala Occidentale costringendo 1,36 milioni di persone ad abbandonare i centri abitati; di questi, 544.000 erano bambini. Stando così le cose, il peggioramento delle condizioni climatiche rischia di generare un esodo senza precedenti.
In questo contesto, il futuro dei minori è minacciato anche da fenomeni di tipo burocratico. Attualmente, i migranti ambientali tendono a essere assimilati ai cosiddetti migranti economici, vale a dire coloro che fuggono volontariamente dal proprio Paese d’origine senza motivazioni di carattere umanitario. Questi individui vengono spesso descritti come scaltri approfittatori bramosi di abbracciare lo stile di vita occidentale. Se le previsioni della Banca Mondiale dovessero anche solo avvicinarsi alle cifre esposte, i Paesi di approdo dovranno provvedere alla revisione dei criteri di catalogazione e accettazione dei minori, poiché le conseguenze dei rimpatri in zone del pianeta invivibili potrebbero rivelarsi fatali.
È possibile affermare, allora, quanto segue: da un lato le migrazioni si presentano come una conseguenza di emergenze quali la guerra e la povertà; dall’altro, invece, sembrano essere un concentrato di tutti i possibili abusi che possono essere inferti a un minore. Di fronte a questa emergenza, le soluzioni adottate sono ben poche. Dalla morte di Alan Kurdi l’Unione Europea non ha ideato alcuna strategia degna di nota. I centri di accoglienza greci e italiani sono al collasso, mentre numerosi esponenti dei governi comunitari continuano a sostenere la necessità di aiutare i migranti nei Paesi di origine; una soluzione che anche uno dei tanti bambini che sbarcano in Europa sa essere difficilmente praticabile.
La Siria continua a subire gli effetti di una guerra per procura tra USA, Russia, Turchia e Iran. La Libia – in virtù dell’anarchia politica in cui è piombata dopo la morte di Gheddafi – è l’imbuto infernale in cui si riversano i disperati in fuga dai conflitti etnico-religiosi dell’Africa subsahariana. L’Afghanistan continua a fare i conti con le proprie divergenze interne e con i disordini causati dall’intervento americano. Lo scontro tra sciiti e sunniti costringe migliaia di yemeniti a trovare rifugio nei Paesi limitrofi. Milioni di filippini e bengalesi non possono fare altro che abbandonare le proprie case per colpa dei disastri ambientali causati dal cambiamento climatico. A fare le spese di questi tumulti sono persone innocenti, per lo più minori. La necessità di trovare una strategia sostenibile per la gestione dei flussi migratori è, oramai, una necessità di carattere umanitario più che burocratico.
Conclusione
Sono passati quasi 31 anni dall’approvazione della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, ma, per milioni di bambine e bambini, il rispetto dei principi fondamentali contenuti nel documento sembra ancora molto lontano. Troppi sono i minori che a causa di guerre, povertà e migrazioni vengono privati del diritto a una vita sana e lontana da violenza e miseria, e troppi sono i membri della comunità internazionale che volgono lo sguardo oltre le sofferenze dei più piccoli.
Sebbene l’impegno delle Nazioni Unite abbia contribuito al miglioramento delle condizioni di vita di milioni di minori, è altrettanto vero che, in molte zone del mondo, l’applicazione del diritto all’infanzia continua a delinearsi alla stregua di un’utopia. Sono milioni i bambini a cui non viene concessa la possibilità di godere di un’infanzia felice e al riparo dai pericoli del mondo, e sempre più numerosi sono, invece, quelli che vedono negarsi i propri diritti in Paesi che, fino a pochi anni fa, sarebbero stati considerati oasi delle libertà personali.
Per questi motivi, è essenziale che la comunità internazionale si adoperi per ridurre le diseguaglianze e per sollevare le comunità più vulnerabili dalla povertà. Sono necessari investimenti infrastrutturali e politiche di integrazione che garantiscano, alle popolazioni più a rischio, progetti di sviluppo sostenibili nel lungo periodo. È altresì indispensabile condannare in maniera categorica e tempestiva ogni genere di violazione dei diritti dei minori, onde evitare la replica di tragedie umanitarie come quella siriana e yemenita. Impedire a un bambino di frequentare la scuola per paura dei bombardamenti, o costringerlo ad attraversare a piedi interi continenti, con il rischio di esalare l’ultimo respiro in un deserto di acqua salata, è quanto di peggio possa essere inflitto a un minore. Una mancata sorveglianza sulla corretta applicazione del diritto all’infanzia si traduce in un mancato interesse per il futuro dell’umanità.
Alessandro Lugli per www.policlic.it
Note aggiuntive
[1] Recenti stime fissano il numero di minori deceduti durante il conflitto siriano a 29.000 unità; per quanto riguarda lo Yemen, il numero di bambini che hanno perso la vita dall’inizio della guerra nel 2015 ammonterebbe a 1.400 unità, mentre i feriti sarebbero circa 2.140.
[2] Nel 2014 l’ISIS si rese protagonista di un tentativo di genocidio nei confronti degli Yazidi, una minoranza etnico-religiosa stanziata nel nordovest dell’Iraq. Gli Yazidi sono seguaci di un antico culto “basato sulla contaminazione tra diverse dottrine gnostiche, l’antica religione zoroastriana, il cristianesimo e […] l’islam”. Figura centrale della religione yazida è l’angelo-pavone Melek Ṭāʾūs, un angelo ribellatosi al creatore e poi redentosi. La somiglianza tra la figura di Melek Ṭāʾūs e quella di Lucifero – angelo ribelle affine sia alla tradizione biblica che a quella coranica – è all’origine dell’equivoco che vuole gli Yazidi come adoratori del diavolo. Questo malinteso ha assunto risvolti tragici durante l’avanzata dello Stato Islamico verso il nord dell’Iraq. Accusati di essere “adoratori del Demonio”, gli yazidi hanno subito persecuzioni che hanno portato alla morte di oltre 3.000 individui e al rapimento di circa 10.000 persone, nella maggior parte dei casi giovani donne e ragazze sfruttate come schiave sessuali dai jihadisti.