Questo articolo è estratto dalla Rivista n.0 di Policlic pubblicata il 27 aprile. Scarica qui sotto la versione integrale.
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In soli cento giorni l’epidemia di COVID-19 è riuscita a ribaltare gli equilibri mondiali come solo una guerra sarebbe stata capace di fare.
Mentre le grandi democrazie occidentali arrancano di fronte all’avanzata del virus e sembrano incapaci di concordare una linea comune per far fronte ai danni economici che la pandemia ha comportato, i Paesi del Sud-Est asiatico si stanno accreditando a livello globale come esempi virtuosi di efficienza politico-istituzionale.
Mentre in Italia Governo e Regioni sembrano non saper trovare una direzione unanime in merito alle modalità di riapertura delle imprese, e all’orizzonte si profila addirittura l’ipotesi di un ricorso alle urne per identificare le forze politiche che dovranno occuparsi della ricostruzione del Paese, la Corea del Sud è salita agli onori della cronaca per essere stata la prima nazione a condurre delle elezioni nazionali durante l’epidemia di coronavirus e a rieleggere il Premier uscente Moon Jae-in – il tutto senza imporre alcun tipo di isolamento o chiusura delle imprese.
Per l’Occidente il confronto con l’Asia si fa ancora più impietoso se si prendono in considerazione i problemi che l’Unione Europea sta riscontrando relativamente alle problematiche economiche del continente, con le nazioni del Nord a sostegno di interventi rigoristi e quelle del Sud favorevoli ad accantonare, almeno per il momento, i parametri finanziari stabiliti dai trattati comunitari.
Per non parlare degli Stati Uniti, dove lo scontro tra il Presidente Donald Trump e l’esperto virologo Anthony Fauci ha messo in luce le falle nel sistema di gestione dell’epidemia, con le immagini delle fosse comuni a Hart Island che continuano a fare il giro del mondo. Mentre in Corea del Sud, Cina, Taiwan e Singapore si lavora facendo ricorso a dati e controlli a tappeto, in Occidente si alzano le frontiere e si lascia che prevalgano gli egoismi nazionali.
Queste considerazioni, perciò, non possono prescindere da un’analisi delle motivazioni alla base del successo dell’Asia di fronte alla pandemia di COVID-19 e delle ripercussioni che questo fenomeno potrà avere nel contesto globale.
La dottrina confuciana e il legame simbiotico tra lo Stato e il popolo
Molti sono gli intellettuali che hanno intravisto nel coronavirus l’occasione per il modello asiatico di ergersi a parametro sociale, politico ed economico di riferimento, così come numerosi sono gli osservatori che hanno intravisto nella pandemia il fenomeno destinato ad affossare definitivamente il sistema democratico occidentale.
Di certo, l’epidemia di coronavirus, proprio come un conflitto armato, ha accelerato il confronto silenziosamente in atto ormai da decenni tra liberalismo e confucianesimo e ha finito per mettere in luce pregi e difetti di entrambi i sistemi, al punto da prendere sempre più le sembianze di una vera e propria guerra fredda. In un’Europa lacerata da secolari egoismi nazionali e istituzioni ancora molto disfunzionali, il modello cinese, come dimostra il caso dell’Italia, si eleva giorno dopo giorno a esempio di decisionismo e pragmatismo politico, fomentando la propaganda antieuropeista dei partiti sovranisti a danno dei partiti tradizionali. Ma dove risiede il successo del modello asiatico?
Benché molte di queste siano a tutti gli effetti delle democrazie, Cina, Corea del Sud, Taiwan, Giappone e Singapore sono tutte nazioni caratterizzate da una cultura autoritaria figlia della dottrina morale e politica confuciana, la quale prevede una maggior obbedienza e una fiducia quasi incondizionata nei con- fronti dello Stato. Per comprendere l’importanza del confucianesimo nello sviluppo della moderna società asiatica, è utile pensare a come esso sia stato utilizzato per oltre 2000 anni dagli imperatori cinesi per giustificare e formalizzare il rispetto di un sistema sociale di tipo gerarchico e un complesso legislativo autocratico. Secondo la dottrina confuciana, infatti, l’universo è regolato da un ordine naturale che deve riflettersi anche nelle relazioni umane; la famiglia è l’istituzione sociale primaria e da essa dipendono tutte le altre. Stando agli insegnamenti di Confucio,
Al mondo ci sono cinque rapporti universali: tra principe e suddito, tra padre e figlio, tra marito e moglie, tra fratello maggiore e fratello minore, tra amico e amico. […] Tutti coloro che governano l’Impero, lo Stato e la famiglia hanno nove norme: perfezionare la propria persona, onorare i virtuosi, amare i parenti, rispettare i grandi ministri, formare un sol corpo con i funzionari, trattare il popolo come figlio, attirare gli artigiani, essere ospitali con gli stranieri, ricevere graziosamente i feudatari [1].
Alla luce di questa interpretazione, è perfettamente comprensibile come una visione della società di questo tipo abbia potuto influenzare il rapporto tra le istituzioni e il popolo e, soprattutto, abbia potuto determinare la centralità del ruolo dello Stato all’interno delle società asiatiche. Il governo, inteso come “padre della nazione”, ha il dovere di intervenire in tutte le questioni che riguardano il popolo, mentre quest’ultimo è assolutamente incline ad accettare l’ingerenza dello Stato in virtù del rispetto delle gerarchie stabilito dalla dottrina confuciana. Vi è, in buona sostanza, un rapporto simbiotico tra élite e cittadini e, di fronte alle difficoltà, il singolo individuo è in grado di sacrificare la propria libertà personale per il raggiungimento del bene della collettività.
Tuttavia, con l’avvento del Novecento, la moltiplicazione dei contatti tra i continenti asiatico ed europeo e il crollo dell’Impero, in Cina il confucianesimo cominciò a essere interpretato come un mero strumento di repressione incapace di far fronte alle esigenze della modernità.
Quando Mao Zedong diede vita alla Repubblica popolare cinese, il confucianesimo subì un vero e proprio assalto culturale. Il Partito comunista cinese si impegnò in un processo di sradicamento dei retaggi culturali confuciani sopravvissuti alla rivoluzione, determinando un rigetto di fenomeni quali l’elitismo e il burocratismo, ma anche l’idealismo, l’umanesimo e il conservatorismo tipici della dottrina confuciana. A titolo illustrativo, durante la Rivoluzione Culturale (1966-1976) le Guardie Rosse vennero spedite a Qufu, città natale di Confucio, per distruggere i monumenti a lui dedicati e per profanarne la tomba.
Oggi, a Qufu, i monumenti dedicati a Confucio sono stati restaurati, nel 2004 è stato fondato il Confucius Institute e nel giro di pochi anni in tutto il mondo si sono moltiplicati centri di ricerca che portano il nome del filosofo. Come immaginabile, il fautore della riabilitazione del confucianesimo è stato il Segretario generale del Partito comunista cinese Xi Jinping. Al leader della seconda economia mondiale, infatti, spetta il merito di aver capito la centralità del pensiero confuciano nel contesto culturale cinese, specialmente in relazione alle capacità di rafforzamento del sostegno popolare. Xi Jinping sembra aver compreso l’enorme potenziale che un’interpretazione in chiave moderna del confucianesimo potrebbe avere relativamente ai futuri sviluppi del “Dragone”, in una fase storica in cui Pechino si appresta a diventare la principale candidata per il ruolo di potenza egemonica a livello globale. Inevitabilmente, una dottrina mora- le che professa la disciplina, l’aderenza alle dottrine stabilite dal governo e, soprattutto, l’obbedienza nei confronti del monarca, non può che facilitare il ruolo di uno stato autocratico e fortemente interventista come quello cinese.
La dottrina liberale: il ritiro dello Stato e il rafforzamento dell’iniziativa privata
In Occidente la situazione appare diametralmente opposta. Il pensiero liberale, che trova la propria origine in epoca rinascimentale durante le lotte per la libertà religiosa, stabilisce il primato dell’individuo rispetto a qualsiasi altra istituzione di tipo politico, sociale, economico, religioso e culturale, al punto da determinare una riduzione dell’intervento statale e la formalizzazione di una radicale distinzione tra sfera pubblica e sfera privata. Senza alcun dubbio, la dottrina liberale ha avuto il solenne merito di rendere inalienabile tutto il complesso di diritti individuali e sociali che oggigiorno si ergono a garanzia di qualsivoglia prevaricazione assolutistica e che costituiscono la base fondativa del moderno diritto internazionale. Grazie a questa dottrina, l’Occidente ha avuto la possibilità di ergersi a esempio paradigmatico di efficienza democratica, riuscendo a porre in essere sistemi politico-istituzionali fondati sulla limitazione dello Stato in favore delle libertà di azione degli individui.
Tuttavia, un approccio che favorisce l’azione individuale rispetto a quella collettiva mal si concilia con una concezione dello Stato di tipo collettivista, dove il bene comune è affidato all’azione di governo e non all’iniziativa privata. Basta leggere i testi dei più importanti autori liberali per comprendere l’aura di scetticismo che avvolge l’intervento statale – Henry David Thoreau, uno dei padri fondatori del pensiero liberale americano, arrivò ad affermare che “il miglior governo è quello che non governa affatto” [2]. Ecco perché i processi politici che hanno contraddistinto l’Occidente negli ultimi secoli sono stati caratterizzati, seppur a vicende alterne, da un progressivo ritiro dello Stato e da un sempre più consistente rafforzamento dell’iniziativa privata. Così, negli ultimi quarant’anni, si è assistito a un indebolimento delle strutture politiche occidentali e al primato dell’individualismo rispetto alla collettività. La radicalizzazione del pensiero liberale degli ultimi quarant’anni sembrerebbe aver diffuso, su larga scala, la convinzione secondo cui la libertà degli individui sia possibile solo in un sistema di governo in cui l’ingerenza statale sia ridotta al minimo e in cui lo Stato debba limitarsi solamente a circostanziare il raggio d’azione dell’individuo.
Per avere un’idea degli effetti che la diffidenza nei confronti dello Stato assistenzialista ha provocato in Occidente, è utile far riferimento a quanto accaduto al sistema sanitario italiano a causa della progressiva contrazione dell’intervento statale. Quello che sta accadendo in Lombardia da quasi due mesi non è il frutto dell’impossibilità di contenere una pandemia molto aggressiva, ma il risultato di quarant’anni di tagli al welfare. Secondo uno studio della Fondazione Gimbe, infatti, solamente
nel periodo 2010-2019 alla sanità pubblica sono stati sottratti oltre € 37 miliardi, di cui: circa € 25 miliardi nel 2010-2015, in conseguenza di “tagli” previsti da varie manovre finanziarie; oltre € 12 miliardi nel 2015- 2019, in conseguenza del “definanziamento” che ha assegnato meno risorse al SSN rispetto ai livelli programmati, per l’attuazione degli obiettivi di finanza pubblica; nel periodo 2010-2019 il finanziamento pubblico è aumentato di soli € 8,8 miliardi, crescendo in media dello 0,90% annuo, tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua (1,07%).
Come si legge nell’annuale relazione della Corte dei Conti, la frenata più importante è arrivata dagli investimenti degli enti locali (-48% tra il 2009 e il 2017) e dalla spesa per le risorse umane (-5,3%), una combinazione che in termini pratici si ripercuote sulla quantità e sull’ammodernamento delle apparecchiature, oltre che sulla disponibilità di personale dipendente, calato nel periodo preso in considerazione di 46mila unità (tra cui 8mila medici e 13mila infermieri). I mancati investimenti si fanno sentire soprattutto nel sud Italia, dove tutte le regioni (eccezion fatta per il Molise) spendono meno della media nazionale.
A questo proposito, il caso più emblematico è, senza dubbio, quello del sistema sanitario lombardo, considerato uno dei più efficienti al mondo, ma alle prese con una drammatica ondata di contagi e decessi. Quanto accaduto nel cuore pulsante dell’economia italiana è la fotografia del processo di abdicazione al settore privato da parte delle istituzioni, in atto da decenni. Un sistema che trova origine nella legge regionale n. 31 dell’11/7/1997, introdotta dall’amministrazione Formigoni, che prevede “la sussidiarietà solidale per assicurare l’erogazione uniforme dell’assistenza sanitaria”:
Attraverso questo principio il privato entra prepotentemente nel Servizio Sanitario Regionale, formalmente per cooperare alla pari con le strutture pubbliche, nei fatti per essere supportato e foraggiato dal [settore] pubblico, riservando per sé i settori più remunerativi della sanità e dell’assistenza, quali ad esempio i reparti di alta specializzazione in cardiologia o le Residenze Socio Assistenziali lasciando al pubblico la gestione dei settori meno redditizi quali ad esempio i servizi di pronto soccorso e la psichiatria. In questa gara impari il pubblico si vedrà tagliare migliaia di posti letto sostituiti dalle strutture private accreditate. La riforma inserisce la separazione in aziende differenti dei servizi sul territorio e degli ospedali, con un continuo impoverimento dei primi sia in risorse materiali che umane. Anche le assunzioni del personale vengono orientate in modo da potenziare alcuni reparti più remunerativi e abbandonare ulteriormente a se stessi gli altri. […]
In nome dell’eccellenza la regione si riserva di distribuire una parte delle risorse economiche destinate alla sanità secondo criteri soggettivi che non a caso hanno fatto la fortuna di più d’una struttura privata.
Un sistema di questo tipo, volto ad alleggerire la pressione sulle strutture pubbliche – almeno formalmente – si è dimostrato del tutto impreparato di fronte alla necessità di ricoverare migliaia di persone, molte delle quali in terapia intensiva. Gli ospedali pubblici sono al collasso e si è dovuto ricorrere al reintegramento di medici, anestesisti e infermieri ormai in pensione. Così, oggi assistiamo al fallimento di un sistema sanitario basato sulla centralità delle Regioni, sulla concorrenza tra le aziende sanitarie locali (ASL) – in competizione tra loro come in un sistema di mercato – e su un concetto di salute che ha smesso di essere annoverato tra i diritti inalienabili dell’individuo. In definitiva, il risultato del processo di de-statalizzazione degli ultimi quarant’anni.
Naturalmente, il ritiro dello Stato è un fenomeno che non riguarda solo l’Italia. Anzi, studiando attentamente la storia dello Stato sociale dei Paesi anglosassoni, è possibile notare l’adozione di politiche ben più radicali. Per esempio, secondo uno studio di Human Rights Watch, tra il 2010 e il 2018 nel Regno Unito si è verificata una riduzione della spesa pubblica per i servizi di welfare del 44%, lasciando molti genitori della quinta economia mondiale nell’impossibilità di nutrire i propri figli.
Una situazione prodotta dai tagli operati dal governo conservatore guidato da David Cameron, volti a snellire la burocrazia e a ridurre l’ingerenza dell’apparato statale, costringendo molti cittadini britannici a chiedere l’aiuto di organizzazioni di volontariato e fondazioni private.
Senza alcun dubbio, la contrazione dell’operato statale ha contribuito a esacerbare la diffidenza nei confronti del governo – considerato dall’opinione pubblica come incapace di far fronte ai bisogni di ampi strati della società – e a generare una mentalità̀ collettiva fortemente individualistica. La radicalizzazione di una dottrina che mira a massimizzare le libertà individuali – siano esse economiche, religiose, sessuali, politiche o culturali – ha determinato la creazione di una società in cui i cittadini non sono certamente inclini ad anteporre il bene collettivo a quello individuale. La conseguenza di tutto ciò è una sostanziale incapacità, da parte delle élite, di generare una connessione profonda con il popolo.
Oriente contro Occidente: il successo del modello confuciano tra biotecnologia e controllo sociale
Quanto al Sud-Est asiatico, è inopinabile che Cina, Corea del Sud e Taiwan appaiano, almeno per il momento, come i veri vincitori del conflitto silente tra Oriente e Occidente generato dalla COVID-19. Il di- scorso è un po’ diverso per Singapore e Giappone, il primo alle prese con un’impennata di casi dopo un azzeramento dei contagi a causa di un’apertura troppo repentina delle attività lavorative, il secondo reo di aver fatto poca chiarezza sul reale numero degli infetti prima dello slittamento ufficiale delle Olimpiadi.
In ogni caso, basta aprire i social network o le chat di WhatsApp per imbattersi in video di cittadini cinesi orgogliosi della risposta del proprio governo e perfettamente favorevoli a tutte le misure restrittive adottate dalle alte cariche del Partito comunista cinese. Nel giro di soli due mesi, anche in virtù di una risposta popolare molto positiva, la Cina è passata dal ruolo di untrice del mondo a modello di efficienza gestionale. L’adesione popolare nei confronti della roboante macchina propagandistica messa in piedi dal PCC è un esempio del solido legame che in Asia tiene insieme popolo ed élite. Come prevedibile, il successo di Pechino ha spinto molti esponenti del mondo politico italiano a elogiare le istituzioni cine- si, dimenticando, vale la pena ricordarlo, che quello di Xi Jinping è a tutti gli effetti un sistema dittatoriale. Lo stesso discorso vale per la Corea del Sud, dove il sostegno del popolo nei confronti del governo è sta- to democraticamente celebrato con la rielezione del Presidente uscente Moon Jae-in.
A impressionare, più di ogni altra cosa, è il divario di efficienza che ha separato Oriente e Occidente in relazione alle misure di contenimento dell’epidemia. Laddove in Europa e Stati Uniti si continua a discutere sulla liceità del ricorso a sistemi di vigilanza digitali gestiti dal governo per il rilevamento dei contagiati (non senza ipocrisie, considerando l’immensa mole di dati personali che ogni giorno riversiamo su Google, Facebook, Instagram o Amazon), i Paesi del Sud-Est asiatico hanno disposto fin da subito un sistema di Contact Tracing che ha permesso, a un Paese come la Corea del Sud, di isolare pazienti sintomatici fin dalle prime fasi e di risalire a tutte le persone entrate in contatto con essi.
Una strategia che si avvale della collaborazione delle persone contagiate e che, mediante il ricorso a telecamere di sicurezza, dati di carte di credito e smartphone, permette di ricostruire tutti gli spostamenti degli individui entrati in contatto con persone infette.
Tutto ciò sembra essere stato possibile proprio in virtù di quel legame, frutto della dottrina confuciana, che unisce popolo e istituzioni. Una fiducia quasi in- condizionata da parte dei cittadini che, per esempio, ha agevolato il Partito comunista cinese nel processo di introduzione di sistemi di riconoscimento facciale anche in presenza di mascherine protettive e che ha spinto la società a ricoprire pubblicamente di elogi il sistema politico nazionale e, soprattutto, il leader del Partito Xi Jinping. Si è trattato di una risposta collettiva che ha persino permesso alla Cina, una volta risolta l’emergenza interna, di compiere molti gesti di solidarietà nei confronti dell’Occidente.
Per avere un’idea ancora più chiara delle differenze che intercorrono tra Oriente e Occidente, è utile sapere che nel vocabolario cinese non esiste un termine che equivalga a “sfera privata” e che in tutti gli Stati del Sud-Est asiatico non sembra esserci spazio per discorsi critici nei confronti della vigilanza privata operata mediante il ricorso ai big data. In tutti questi Stati, in cui la collettività è considerata come un valore e non un limite, il controllo digitale è accettato dalla popolazione come un utile strumento per il raggiungimento del bene comune.
Nella stessa Wuhan, epicentro della COVID-19 e prima città a ricorrere al lockdown, il Contact Tracing è stato utilizzato da migliaia di investigatori digitali per identificare gli infetti sulla base di soli dati tecnici.
Così, a tre mesi dalla comparsa dei primi contagiati di coronavirus, il modello confuciano sembra aver inflitto un durissimo colpo al sistema liberale occidentale. La vigilanza digitale si è rivelata molto più efficace rispetto all’isolamento, e i Paesi asiatici – con la sola eccezione del Giappone – si apprestano a far ripartire le proprie economie. Laddove l’Occidente ha alzato frontiere facendo ricorso a strategie di con- tenimento tipiche di un sistema politico fortemente legato al concetto di Stato-Nazione, i Paesi del Sud- Est asiatico hanno messo in campo, seppur in modalità differenti, una strategia biotecnologica molto più efficace, dimostrando grande lungimiranza e capacità di adattamento alle sfide della modernità.
Di certo, l’epidemia di coronavirus passerà alla storia come un fenomeno capace di mettere in luce molte delle falle del sistema occidentale: l’ortodossia liberale, la contrazione dello Stato sociale, la crisi del sistema sanitario, l’incapacità di concertare politiche economiche di respiro continentale e la difficoltà di conciliare questioni chiave come libertà individuali, bene comune e digitalizzazione. Allo stesso tempo, la pandemia ha costretto i Paesi del blocco liberale, così come quelli del blocco orientale, a ricorrere a politiche autoritarie. Che si tratti del lockdown in Occidente, dei sistemi di riconoscimento facciale in Cina o del Contact Tracing in Corea del Sud, in questi ultimi mesi il mondo ha dovuto fare i conti con un irrobustimento di politiche considerate tradizionalmente antidemocratiche, facendo destare non poche preoccupazioni circa gli scenari globali futuri.
Tuttavia, è altrettanto vero che il ricorso a provvedimenti di questo tipo ha determinato il successo, almeno sul piano del prestigio internazionale, delle nazioni del Sud-Est asiatico, dove la diffusione su larga scala della dottrina confuciana ha certamente facilitato l’attuazione di strategie inconciliabili con il rispetto delle libertà individuali – almeno così come sono intese in Occidente. Basterebbe confrontare gli entusiasmi della popolazione cinese con l’insofferenza di milioni di occidentali costretti da quasi due mesi a trascorrere le proprie giornate tra le mura di casa.
Senza ombra di dubbio, lo scontro tra il modello liberale e quello confuciano è destinato a prolungarsi e a divenire il pilastro attorno al quale si struttureranno le relazioni internazionali dei prossimi decenni. Allo stesso tempo, qualora la classe politica occidentale non riuscisse a mettere in campo valide strategie per la ricostruzione dell’Occidente, il successo del modello confuciano sarebbe ricordato come un fenomeno capace di acuire tutti i contrasti preesistenti nelle democrazie europee e anglosassoni. Il rischio è quello di vedere aumentare il numero dei partiti favorevoli a una riproposizione dei modelli asiatici anche in Europa, dove, questo è certo, le intrinseche caratteristiche del sistema liberale resteranno sempre incompatibili con quelle del modello confuciano. Anzi, spingendosi oltre con le previsioni, una riproposizione dello Stato di polizia digitale sul modello cinese, nel contesto delle democrazie liberali, rischierebbe di dare vita a esperimenti politici pericolosamente assolutistici e a malcontenti popolari che agevolerebbero la carica eversiva dei movimenti antisistema.
L’Occidente, invece, si trova di fronte alla necessità di adottare una strategia che possa prendere quello che di buono è stato fatto in Paesi democratici come la Corea del Sud e riproporlo nel contesto liberale – nel breve periodo, per porre un freno ai contagi; nel lungo periodo, per sviluppare tecnologie di controllo sociale che possano salvaguardare la sicurezza nazionale senza sfociare in derive antidemocratiche. Di fronte al successo del modello confuciano, le nazioni occidentali sono chiamate, per esempio, a sviluppare sistemi di Contact Tracing gestiti direttamente dal governo. Il ricorso ai big data per ridurre al minimo i contagi si rivelerà una strategia fondamentale per scongiurare la creazione di nuovi focolai sul territorio nazionale. Ciononostante, è essenziale che questa attività sia gestita direttamente dagli Stati, e che questi, allo stesso tempo, si impegnino a far sì che tali sistemi non diventino strumenti di controllo sociale. In fin dei conti, il monitoraggio degli spostamenti è una realtà che società come Google e Facebook han- no consolidato ormai da anni – sarà capitato a tutti di recarsi in un determinato luogo e di ricevere notifiche riguardanti la presenza, nelle vicinanze, di alcuni dei propri contatti – ed è importante ricordare, oltretutto, il ruolo oscuro giocato dalle società di Mark Zuckerberg in occasione di Brexit e dell’elezione di Donald Trump.
Di certo, di fronte al successo di Cina, Corea del Sud e Taiwan, la classe dirigente occidentale dovrà formalizzare un’approfondita riflessione che possa prendere in considerazione tutti gli errori generati dal radicalismo liberale degli ultimi quarant’anni. La pandemia di COVID-19 ha dimostrato, ancora più della Grande recessione, le pericolosità insite nell’indolimento dello Stato e la necessità di riportare la politica al ruolo centrale che le spetta. Il coronavirus verrà ricordato come il primo vero successo del modello confuciano su quello liberale, ma, allo stesso tempo, potrà fornire all’Occidente un’importante possibilità di rigenerazione e un’occasione per interrogarsi sull’importanza del ruolo dello
Stato in relazione a questioni di rilevanza capitale come la sanità.
Alessandro Lugli per www.policlic.it
[1] L’invariabile mezzo 20, in Confucio, Opere, a cura di F. Tomassini, Tea, Milano, 1989. [2] H. D. Thoreau, La disobbedienza civile, «Corriere della Sera», Milano, 2010, p. 15