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Negli ultimi tempi, uno degli aggettivi più in voga nell’universo digitale è frictionless. Parola che esprime un valore essenziale in rete, e cioè qualcosa che non produca frizioni, che non produca attriti, che non produca resistenze. L’esempio mirabile di questo aggettivo è rappresentato da quel supermercato, messo in piedi da Amazon, in cui i clienti entrano, osservano, decidono, acquistano le merci, mettendole in una sacca intelligente, e poi escono senza passare dalla cassa. Perché la cassa non esiste, anche se le merci vengono – ugualmente e ovviamente – pagate. Un sistema registra ogni acquisto e lo trasferisce direttamente sul conto della carta di credito dell’acquirente.
Si tratta di un processo che esprime alla perfezione un mondo senza l’attrito fastidioso di un operatore di cassa e del denaro, del tempo, dei movimenti, della materialità. I soldi che vanno estratti dal portafogli, contati, poggiati e ricontati quando arriva il resto. Tutti passaggi che la tecnologia intende cancellare, velocizzare. La carta di credito muoveva già in questa direzione, ma evitare la sosta alla cassa, evitare il momento in cui si paga per un bene, evitare di rendere concreto il concetto di valore, elidere questi fastidiosi attriti rende l’acquisto molto più fluido.
L’ecosistema digitale che abitiamo è orientato al concetto di frictionless, intanto perché costituisce un ambiente incorporeo, privo di fisicità, ma soprattutto perché ogni nostra interazione all’interno di questo ecosistema viene regolata e indirizzata dal design, dalla progettazione, per essere quanto più facile e rapida possibile. Senza attriti, appunto. Qualsiasi spazio digitale di successo è “un’idea che non ha bisogno di spiegazioni”, per utilizzare le parole di un laureato di Harvard, di fronte alla nascita di Facebook nel lontano 2005, raccolte da David Kirkpatrick in Facebook. La storia (Hoepli, 2011).
In effetti, un utente acquista un bene dentro Amazon con soli tre clic, prenota un albergo su Booking con un numero limitato di passaggi. Domino’s Pizza ha addirittura realizzato un’applicazione in cui il cliente acquista la sua pizza preferita con zero clic: il sistema registra le preferenze e fa trascorrere un conto alla rovescia di 10 secondi; se l’utente rimane immobile, non fa nulla, non si contraddice in qualche misura, l’ordine parte. L’attrito è come se non esistesse: il denaro altro non è che una cifra in una schermata. Dopotutto, il neuromarketing applicato al commercio elettronico funziona così.
Più in generale, però, e non solo quando acquistiamo un bene, molte nostre interazioni all’interno del mondo digitale sembrano orientate a una delle possibili declinazioni del concetto di frictionless, e cioè all’apparente assenza del denaro in ogni sua forma. Per essere ancora più precisi, le nostre interazioni nello spazio digitale si svolgono all’insegna di un esteriore difetto di valore economico. Tutto fila via liscio, in maniera amichevole, senza oneri, senza costi per nessuno, senza pagamenti.
La gratuità, dopotutto, rappresenta un perno essenziale delle nostre esperienze di navigazione. Le relazioni nei social network e le richieste affidate all’intelligenza artificiale dei motori di ricerca; la condivisione di un contenuto da parte nostra e la fruizione di un contenuto pubblicato da altri in una piattaforma gratuita; l’utilizzo di diverse e gratuite applicazioni in uno smartphone, come pure la ricerca di un indirizzo e l’itinerario proposto per raggiungerlo: sono tutte azioni che non prevedono frizioni, non prevedono somme di denaro. Azioni concluse senza costi apparenti. L’abbiamo imparato negli ultimi anni – la gratuità riposa su una considerazione che corre sulla bocca di tutti: è gratis perché il prodotto siamo noi.
Non interessa in questa sede definire il processo che conduce alla gratuità nelle nostre esperienze di navigazione, ma ricordare che tutto quello che facciamo lì dentro, letteralmente tutto, possiede un valore, un valore economico di cui noi non siamo a conoscenza. Questo valore è frutto di ogni nostra azione, anche di quelle di cui siamo inconsapevoli: tanto delle nostre preferenze espresse quanto di quelle inespresse. Lo spiega con chiarezza Shoshana Zuboff nel fondamentale Il capitalismo della sorveglianza (Luiss University Press, 2019).
Il denaro, insomma, nello spazio digitale esiste, eppure sembra oggetto di un enorme e volontario processo di rimozione da parte delle grandi piattaforme. Una rimozione consapevole. Se però osserviamo con attenzione la dinamica delle interazioni digitali, scopriamo che accanto al denaro scompaiono anche le macchine che lo producono, macchine alle quali affidiamo la nostra attenzione, i nostri bisogni informativi e relazionali. Scompaiono le macchine, quindi computer potentissimi e formule altrettanto potenti, e rimangono alla nostra portata soltanto le interfacce. Maschere semplificate che nascondono l’ipercomplessità tecnologica e il suo valore. Noialtri ci limitiamo a osservare gli output, gli effetti delle interazioni tra umani e tra umani e macchine, senza poter cogliere né il valore computazionale né quello economico.
“Le tecnologie più profonde sono quelle che scompaiono. Si legano al tessuto della vita quotidiana fino a diventare indistinguibili da esso”, scriveva nel lontano 1991 un guru della Silicon Valley, l’informatico Mark Weiser, citato proprio da Shoshana Zuboff. La tecnologia che sparisce ha nascosto anche il valore economico, il colore dei soldi. Un processo ancora più radicale di quello messo in campo dalle carte di credito. La profondità tecnologica di cui parla Weiser è sinonimo di pervasività, di un potere costante e diluito nel tempo che assorbe energie, attenzioni, interessi e li trasforma in valore.
Le aziende tecnologiche rappresentano le società che hanno la maggiore capitalizzazione di mercato al mondo, che hanno cioè il più elevato valore in Borsa – a Wall Street, per la precisione. Microsoft e Alphabet (ossia Google) valgono ciascuna più di 1.000 miliardi di dollari, Facebook poco meno. L’assenza del denaro e lo stratosferico valore di Borsa esprimono una contraddizione che svela l’impalcatura concettuale edificata dalle grandi techno-corporation.
La gratuità è infatti una componente essenziale dell’infrastruttura culturale della Silicon Valley, è un valore della Silicon Valley. Prende corpo nel festival che si tiene ogni estate nel deserto del Nevada, il “Burning Man”, il quale ha portato in dote molte idee alle società digitali. La manifestazione ha un suo decalogo che ha ispirato e fornito una base concettuale a grandi aziende come Google. I fondatori del motore di ricerca andavano regolarmente al Burning Man, e subito dopo la quotazione in Borsa della loro creatura, nell’agosto del 2004, anziché partecipare a un qualche party a New York, decisero di correre nel deserto del Nevada.
La gratuità dei contenuti poggia sull’estrazione di valore dai comportamenti. Andare al Burning Man, per i fondatori di Google, significava anche ribadire la centralità di due comandamenti della manifestazione: gifting e decommodification. Il primo comandamento ruota intorno al concetto che tutto debba essere regalato; il secondo, all’idea di demercificazione. Nelle parole del decalogo del Burning Man: “la nostra comunità cerca di creare ambienti sociali che non siano mediati da sponsorizzazioni commerciali, transazioni o pubblicità”. Quanta mistificazione in questi comandamenti. Il motore di ricerca regala i risultati agli utenti, e apparentemente demercifica questo processo; in realtà vive e prospera sull’esatto contrario: vende parole e vende pubblicità.
Esiste poi uno spazio digitale alternativo, forse sotterraneo, uno spazio ctonio, che sta acquisendo notorietà proprio perché alcuni creano – estraggono, per utilizzare il verbo corretto – una moneta che emerge dalla potenza di calcolo. Dal potere computazionale. Un processo complesso ma non nascosto, che anzi proprio sulla pubblicità di ogni passaggio ha costruito la ragione del suo successo. Stiamo parlando delle criptomonete, come il bitcoin, basate sulla tecnologia blockchain.
Fino ad oggi abbiamo assistito a un processo che ha confinato queste valute in spazi residuali. Sulle criptovalute pende un giudizio residuo colmo di dubbi, timori, incertezze, preoccupazioni circa la legalità e l’opportunità, anche se la pandemia ha scosso pure queste convinzioni. E oggi le criptovalute sono oggetto di investimento da parte di banche e fondi.
A essere onesti, anche la definizione di mondo sotterraneo appare imprecisa. Serve tuttavia a evidenziare il fatto che le criptovalute, e la tecnologia su cui si basano, sono finora rimaste ai margini dei grandi ecosistemi digitali, ai margini del cosiddetto web mainstream; fuori dalla portata del discorso pubblico ed estranee al dibattito circa le opportunità e i pericoli della tecnologia. Se ne parla con una componente di mistero.
In fondo, la resistenza alle criptovalute, una resistenza destinata a crollare, potrebbe rappresentare l’acme di un conflitto simbolico. Il conflitto tra un ecosistema digitale in cui il denaro esiste ma è nascosto, in cui il valore economico appare celato agli utenti, e un ambiente in cui – al contrario – una valuta elettronica rivela tutto il suo potenziale, e addirittura mostra gli ingranaggi della zecca digitale che la produce.
Nicola Zamperini per Policlic.it