La “destra dell’establishment”: la Molodaya gvardiya
La ripresa dell’agitazione anticomunista a opera della “Nuova destra dell’establishment”, erede spirituale del movimento slavofilo pietroburghese, coincise con l’apertura del processo a carico dei dissidenti del VSKhSON.[1] L’esordio ufficioso risale infatti alla primavera del ‘68 quando Michail Lobanov, giornalista politico conosciuto per l’estrema vicinanza al Partito, pubblicò sulle pagine della Molodaya gvardiya [2] (“Giovane Guardia”) un articolo controverso intitolato I bottegai colti.
Spartiacque epocale nella storia del nazionalismo russo, il saggio si presentava come un appello rivolto a ogni buon cittadino perché aderisse alla crociata contro un nuovo nemico, una metastasi così profonda da aver aggredito il tronco sano della patria socialista: i summenzionati “bottegai”. Benché fosse stata coniata ai tempi dello zar Pietro I per indicare una delle classi in cui era stata suddivisa la popolazione dell’impero, tale formula designava nel concreto un gruppo di individui accomunati non soltanto dalla mentalità ristretta, conformista e piccoloborghese (“mini”), ma da una cultura pseudo-accademica posta al servizio di un’inestinguibile brama di denaro. È interessante notare come, tra i maggiori responsabili di questo traviamento ideologico, venissero additati gli intellettuali sionisti, oggetto di una rinnovata campagna discriminatoria in seguito agli eventi della Primavera di Praga[3].
Ciò che più colpisce dell’opera di Lobanov è tuttavia il richiamo allo spirito nazionale e al suolo russo, gli unici elementi in grado di compattare l’opinione pubblica di fronte all’impossibilità di rilanciare la carica rivoluzionaria del marxismo. Altrettanto feroce risultava essere la critica all’establishment brežneviano, colpevole di aver sottovalutato il problema dei meščanstvo [4] ponendo le condizioni ideali perché si diffondesse in ogni angolo dell’Unione. Commentava Yanov, con una punta di sarcasmo non troppo velata:
Nel linguaggio esopico di Lobanov, i capi sono diventati ciechi […] non vedono che il “mini” non esiste come una cosa in sé, ma come il riflesso- l’anticamera per così dire-, dello spirito borghese che ha conquistato l’Europa e che ora sta investendo la Russia come una tempesta [5].
In breve, le manovre intessute dal Politbjuro per aprire l’URSS al commercio internazionale avevano causato molti più problemi di quanti ne avessero effettivamente risolti, spianando la strada a un capitalismo che minacciava di infiacchire la tempra morale delle nuove generazioni. Il solo strumento capace di invertire un simile processo di “americanizzazione” era l’idea nazionalista, da qui l’invito rivolto alle istituzioni perché cercassero l’appoggio dei patrioti relegati nelle fabbriche e nelle campagne: la cosiddetta “Russia autentica”.
L’inevitabilità e il crepuscolo dei “guardiani”
Il clamore suscitato da tali riflessioni convinse la “Giovane Guardia” a ripetere l’esperimento pubblicando, nel mese di settembre, un nuovo articolo intitolato L’inevitabilità. Logica ripresa degli argomenti affrontati in precedenza, il pezzo di Viktor Čalmaev non si limitava a tratteggiare un quadro spettrale dei pericoli legati all’imborghesimento dell’umanità [6], ma si spingeva ben oltre affermando che:
[…] il regime ufficiale e i canoni dello Stato […] non hanno affatto esaurito la Russia.[7]
Inoltre il materialismo storico[8], pietra angolare del pensiero marxiano, veniva sostituito da una teoria evoluzionistica dove lo spirito nazionale si stava preparando per l’ultima sfida con l’“americanismo”, preludio di una nuova e più gloriosa Stalingrado. Come se ciò non bastasse, l’autore rincarava la dose asserendo l’esistenza di una certa continuità tra i periodi zarista e bolscevico, stagioni preparatorie in attesa della grande crociata contro i nemici esterni, nonché attribuendo alla Chiesa ortodossa un ruolo centrale in virtù della sua natura organizzatrice e unificante.
Il percorso fin qui delineato trovava la propria sublimazione nel pensiero di Konstantin Leont’yev (1831-1891), convinto di come l’essenza più intima del gigante eurasiatico trascendesse l’aspetto statuale per assurgere al ruolo di potenza civilizzatrice, un tempo appannaggio del glorioso impero romano. Di conseguenza, l’inevitabilità cui si accennava nel titolo risiedeva nell’imminente trasformazione della Russia per mano di un “bizantinismo” che, al variare dei secoli, aveva salvaguardato il fervore profondo e l’entusiasmo interiore dei popoli slavi. Senza di essi, il regime di Brežnev era infatti destinato a scomparire per sempre dal palcoscenico della storia universale.
A questo punto, il guanto di sfida lanciato dalla “Giovane Guardia” dovette essere giocoforza raccolto dalla Divisione Propaganda del Comitato Centrale, invero promotrice di una timida controffensiva limitata al trasferimento del direttore presso un’altra rivista, la Vokrug Sveta (“Intorno al mondo”), e alla creazione di un’apposita categoria per classificare gli attacchi ideologici: il čalmaevismo. Troppo poco a fronte di un movimento che stava riscuotendo le simpatie di ampi strati dell’opinione pubblica, capace al tempo stesso di coordinarsi con altre testate per proseguire la propria offensiva contro l’oligarchia dirigente[9].
La condanna del trozkismo in quanto massima espressione dell’internazionalismo proletario costituì invece il fulcro dell’articolo di S. Semanov, dato alle stampe nel corso del 1970 con il titolo suggestivo di Sui valori relativi ed eterni. Tale saggio avrebbe dovuto rappresentare, nelle intenzioni del suo promotore, un importante segnale distensivo rivolto alle correnti neo-staliniste, il primo passo verso la creazione di un ampio fronte antigovernativo chiamato ad abbattere la monocrazia comunista. Tra i passaggi più contestati dell’intera pubblicazione, figuravano queste poche righe:
Solamente dopo l’adozione della nuova costituzione (quella del 1936, nda) […] tutti gli onesti lavoratori erano stati saldati una volta per tutte in un unico e monolitico insieme [10]
Nondimeno, simili dichiarazioni si scontravano con le linee guida postulate da Chruščëv in occasione del XX Congresso del PCUS (febbraio 1956), consacrato dalla denuncia dei crimini commessi da Stalin nel periodo compreso fra il 1927 e il 1953. Tale leggerezza avrebbe esposto Semanov e i suoi collaboratori alla dura rappresaglia del Partito, solerte nel defenestrare l’intera redazione ponendo così fine alla parabola sovversiva della Molodaya.
Veče: l’esordio del nazionalismo sciovinista
Il concretizzarsi della minaccia cinese in seguito allo scisma ideologico del 1961, preludio delle schermaglie consumatesi otto anni dopo lungo la frontiera col fiume Ussuri, ebbe un ruolo cruciale nel cambiamento di indirizzo della rivista Veče, il maggior organo di stampa della cosiddetta “opposizione leale”. Tale formula stava a indicare un movimento non allineato con le politiche del regime ma, al tempo stesso, in grado di adottare un basso profilo evitando tematiche insidiose quali l’ortodossia marxista e le sue possibili alternative. Fu quest’ultima peculiarità a convincere il Primo Segretario a non diramare l’ordine di chiusura immediata, emesso solamente nel marzo del ‘74 dopo cinque anni di attività e nove uscite curate dal direttore Vladimir Osipov (1938-vivente).
Interprete di uno stile fresco e aperto al confronto su quasi tutti gli aspetti relativi alla storia sovietica, Veče rappresenta ancora oggi un termometro formidabile degli umori circolanti nella “nuova destra russa”. Ciò era in parte dovuto alla natura composita della redazione, animata da personalità le cui convinzioni spaziavano da un “liberalismo” scevro da derive xenofobe a uno sciovinismo che, col senno di poi, avrebbe preso il sopravvento. L’ascesa della seconda frangia sino ai vertici del consiglio d’amministrazione fu senz’altro favorita dal rapido mutamento della congiuntura internazionale, caratterizzata dal venir meno del pericolo americano rispetto alla concorrenza posta in essere da Pechino.
L’articolo più emblematico di questa prima fase di Veče, ossia Il ruolo significativo di N. Ia. Danilevskii nella filosofia mondiale della storia (1971), si era posto una finalità all’apparenza innocua: ripercorrere la critica allo slavofilismo classico operata, a partire dal 1869, dall’eclettico pensatore russo. Sebbene avesse respinto quelle teorie imperniate sull’esistenza di un’unica civiltà universale, Danilevskii sosteneva infatti che alcuni popoli avessero concluso la loro missione storica o, in certi casi, non dovessero realizzarne alcuna. Di conseguenza, l’elogio della Russia in qualità di custode del genere umano non era suffragato da alcun indizio concreto, costituendo invece il frutto di un’autoinvestitura arbitraria. Le conclusioni del letterato avrebbero dovuto provare l’infondatezza del messianesimo slavofilo, accantonato in favore di una politica di “isolazionismo pragmatico” con cui San Pietroburgo intendeva realizzare un sistema autonomo di Stati.[11] Commentava in proposito Yanov:
Partendo da questa immagine del mondo […] la dottrina politica di Danilevskii implica una strategia molto semplice: a) la Russia deve diventare abbastanza forte da sconfiggere la Turchia senza che l’Occidente glielo impedisca; b) sulle rovine della Turchia deve costruire un impero isolato che si estenda dall’Adriatico all’Oceano Pacifico; c) sigillando i confini di questo gigantesco impero, la Russia può aspettare pazientemente che l’Occidente “marcisca del tutto” sotto l’influsso delle sue contraddizioni interne.[12]
Alla luce di quanto appena descritto, l’anonimo giornalista operava un confronto diretto con lo scenario internazionale a lui coevo, attribuendo a Pechino il ruolo appartenuto alla Sublime Porta, all’Ovest quello di protettore della mostruosità maoista. Da qui il giudizio tranciante sull’esperimento distensivo avviato da Brežnev, colpevole di aver impedito non soltanto la mobilitazione delle forze necessarie a combattere la decadenza europea, ma lo sradicamento definitivo della minaccia cinese.
Seppure in netto contrasto con i criteri generalmente impiegati per riassumere la nozione di liberalismo, tale indirizzo costituì a lungo l’humus ideologico dell’ala “moderata” di Veče. Le ragioni dietro una simile peculiarità sono da rintracciarsi nel tratto più distintivo del movimento rispetto alle altre declinazioni della “nuova destra”, ossia la convinzione per cui bastasse adottare una politica “isolazionista” per sconfiggere il fronte delle opposizioni, invero prodotto delle influenze venefiche esercitate dall’esterno. Nondimeno, l’unica circostanza che avrebbe spinto il Governo ad aprirsi sul tema delle riforme strutturali, nello specifico la restaurazione di una società agricola e confessionale che superasse il cosmopolitismo borghese[13], era quella rappresentata dallo scoppio di una guerra con l’ingombrante vicino asiatico. Questa teoria traeva la propria legittimità dall’esperienza del Secondo conflitto mondiale in quanto Stalin, timoroso di un possibile colpo di coda a opera dello schieramento controrivoluzionario, aveva allentato il controllo poliziesco sulla società civile, riaccendendo così la combattività dell’Armata Rossa.
La fine di Veče
È bene puntualizzare come l’intero discorso debba applicarsi alla sola frangia “liberale” della rivista, risultato di una moltitudine di correnti in cui l’impronta di Danilevskii si era amalgamata con un approccio sciovinista. Malgrado ciò, il mito dell’investitura messianica avrebbe raccolto proseliti anche all’interno di Veče, tendenza rivelatasi con la pubblicazione del saggio intitolato La dottrina degli slavofili—Il più alto slancio dell’autocoscienza nazionale del periodo preleninista. Con esso l’autore, tale M. Antonov, intendeva provare l’esistenza di svariate analogie fra la dottrina bolscevica e lo slavofilismo ottocentesco, preludio di una loro sintesi improntata alla creazione di una nuova idea del mondo.
Ma se Danileevskii aveva anticipato l’inevitabile tramonto dell’Occidente al di là di una Cortina di Ferro ante-litteram, Antonov si spingeva ben oltre sostenendo che la falsa coscienza ivi imperante costituisse un serio pericolo per la madrepatria. Nel grande palcoscenico della storia dove imperi, monarchie e repubbliche si erano susseguiti in un turbolento madrigale, gli Stati europei erano infatti divenuti delle semplici pedine asservite alle aberrazioni puritana e sionista, l’ultima delle quali capace di affondare le proprie radici sin dentro al cuore della Santa Russia. A fronte di una metastasi passibile di aggredire l’intero tessuto sociale se non curata in modo tempestivo, il giornalista ne urgeva l’immediata estirpazione tramite l’alleanza con il regime e il rilancio di quella campagna “anti-cosmopolita” patrocinata, nel lontano 1947, dall’allora sottosegretario Andrej Zdanov (1896-1948). È possibile leggere, in uno dei passaggi più oscuri e controversi dell’intera dissertazione, la seguente frase:
La storia chiama la Russia ad assumere la guida del mondo verso la luce [… ][14]
Circostanza subordinata all’istante in cui:
[…] l’idea di Mosca come una terza Roma, una nuova Gerusalemme, come l’incarnazione della più alta verità e giustizia leninista sulla Terra […] sarà diventata la posizione centrale della nostra visione del Mondo.[15]
Fu il gradimento palesato dall’opinione pubblica verso la linea “antonovista” ad alimentare una lotta intestina tra le due fazioni, destinata a concludersi solamente qualche mese dopo con il trionfo dei nazional-bolscevichi[16] e l’arresto di Osipov per mano del KGB.
Gennadii Šimanov: la fronda degli “ultrà”
L’episodio appena descritto offre un’immagine chiara della direzione verso cui stava evolvendosi la “nuova destra”, divisa in una moltitudine di correnti accomunate dal solo rifiuto verso il marxismo-leninismo. Un’ulteriore conferma sarebbe arrivata nel corso del 1974, quando l’allontanamento di alcune figure sgradite al regime favorì l’ascesa degli “ultrà”[17] e del loro discutibile ispiratore, un certo Gennadii Šimanov.
Scrittore politico malvisto dall’intelligencija per le convinzioni oscenamente impopolari, Šimanov sarebbe comunque balzato agli onori della cronaca in seguito alla pubblicazione del saggio intitolato Mosca: la terza Roma. Più simile a un quadro apocalittico dominato da spettri terrificanti e da sinistri presagi, l’articolo prospettava una terribile catastrofe pronta ad abbattersi sulla Russia e sul suo popolo virtuoso, una crisi senza precedenti dove la minaccia sino-americana si assommava allo smarrimento ideologico e alla crescente disaffezione verso l’establishment. L’unico modo per sottrarsi a questo crudele destino avrebbe dovuto essere il rafforzamento dello Stato, obiettivo raggiungibile attraverso un’unione tra il vertice e la base che riportasse, nell’immediato futuro, la Nazione russa al centro della storia universale. Ella era stata infatti graziata dalla Provvidenza nell’inedita forma del giogo mongolo, propedeutico a salvaguardarla dal traviamento di un cattolicesimo che aveva favorito la nascita dell’eresia protestante e, successivamente, dei modelli capitalistico e socialista.
È nello spazio di queste poche righe che si sviluppava l’intera riflessione šimanoviana, costruita sulla credenza per cui il Signore infliggesse piaghe a altri tormenti per conservare la purezza del “popolo eletto”. Il pugno di ferro esercitato dagli zar sin dai tempi di Ivan il Terribile, le riforme pietrine, le due guerre mondiali e la dittatura proletaria assumevano, di conseguenza, un’accezione positiva in quanto fasi propedeutiche al raggiungimento dell’obiettivo finale: la rinascita dello Spirito nel segno del cristianesimo ortodosso. Ciò sarebbe potuto avvenire solamente dopo il collasso dell’utopia comunista, impostura blasfema e demoniaca speculare ai falsi idoli su cui l’Occidente aveva costruito la propria identità.
Nell’attesa che la storia seguisse il proprio corso proiettando il Paese in una nuova epoca di luce e di progresso, i cittadini avrebbero dovuto rinunciare a qualunque rivendicazione di natura economico-sociale. È proprio quest’ultima idea che consente di spiegare la ferocia degli attacchi rivolti a Sacharov e agli intellettuali sionisti, ingannati dalla chimera delle democrazie e dal benessere ivi imperante, nonché verso Solženicyn, considerato un vile opportunista il cui slancio patriottico celava una sostanziale adesione al liberalismo. Non meno incoerente risultava essere il giudizio relativo al diritto di autodeterminazione dei popoli, vigorosamente negato da Šimanov nonostante la ferrea convinzione in base alla quale:
[…] gli organismi nazionali devono essere autonomi e reciprocamente impenetrabili.[18]
Anche in questa circostanza, la sintesi imperial-isolazionista veniva portata avanti nel nome della divina Provvidenza, elemento unificatore in grado di ricondurre l’intera realtà a un conglomerato logico e, al tempo stesso, di legittimare le velleità del Cremlino di assurgere al ruolo di Terza Roma.
Si può quindi affermare che il maggior contributo offerto dagli ultrà sia consistito nel superamento dell’opposizione oltranzista al regime, rimpiazzata da una condotta utilitaristica dove, ai vantaggi derivanti dalla partnership con il PCUS, si aggiungeva la crociata ideologica contro i nemici dell’ortodossia. Quest’ultima avrebbe infatti continuato a esercitare un enorme potere persuasivo sulle masse popolari, spingendo l’establishment a vagliare la possibilità di allearsi con la “destra dissidente” in quanto veicolo di coesione sociale.
Niccolò Meta per Policlic.it
[1] L’Unione Russa Sociale per la Liberazione del Popolo Russo (VSKhSON) fu disciolta al termine di un paziente lavoro di infiltrazione condotto dal KGB, nel 1967. I suoi fondatori, ossia Igor Ogurtsov, Yevgeny Vagin, Mikhail Sado e Boris Averichkin, furono condannati a lunghe pene detentive (fra gli 8 e i 13 anni). I loro nomi non sono mai stati riabilitati, nemmeno nel periodo post-sovietico.
[2] La Molodaya gvardiya è una delle riviste più conosciute e rinomate nel panorama editoriale russo. È stata fondata a Mosca nel corso del 1922, e da allora ha curato la redazione di oltre 2 milioni di copie di libri.
[3] Era convinzione diffusa, in Unione Sovietica, che la Primavera di Praga fosse stata il frutto di una macchinazione orchestrata dagli intellettuali semiti. Molti di loro avevano infatti aderito al Manifesto delle duemila parole di Ludvík Vaculík (1926-2015), un atto di denuncia contro la corruzione e l’imbastardimento del regime socialista.
[4] Bottegai, nda.
[5] Yanov. A., La nuova destra russa-La distensione dopo Brežnev, Sansoni Editori, Firenze, 1981, p.62.
[6] Emblematico risulta essere il passaggio dove l’autore, nello spazio di poche righe, liquidava la cultura statunitense affermando: l’America è il primo Paese […] che essendo colto, vive senza idee. Molodaya gvardiya, 9 (1968), p.271
[7] Ibidem, p.268
[8] “Il nucleo della concezione materialistica della storia sta nell’affermazione che gli uomini, i quali vivono e producono in una data società, si trovano a muoversi entro «determinati rapporti necessari e indipendenti dalla loro volontà», che sono i rapporti di produzione propri di una determinata fase dello sviluppo storico; questi costituiscono la struttura economica della società, la base reale sulla quale si eleva la sovrastruttura dei rapporti giuridici e politici, la vita intellettuale, morale e religiosa, e soprattutto le forme determinate della coscienza sociale”. (Fonte: Treccani)
[9] Le testate in questione furono la Moskva e la Ogonek (Fiammella). Entrambe sono ancora in attività.
[10] Molodaya gvardiya, 8 (1970), p.319 – La distensione dopo Brežnev.
[11] Yanov. A., La nuova destra russa-La distensione dopo Brežnev, Sansoni Editori, Firenze, 1981, p.90.
[12] Yanov. A., La nuova destra russa-La distensione dopo Brežnev, Sansoni Editori, Firenze, 1981, p.91.
[13] Nel linguaggio marxiano, il cosmopolitismo è «l’espressione ideologica degli interessi di classe della nascente borghesia, una contromossa reazionaria all’internazionalismo socialista»
[14] Intervista con Steve Browning, AS n. 1013 p.19 – La distensione dopo Brežnev.
[15] Intervista con Steve Browning, AS n. 1108, p.138 – La distensione dopo Brežnev.
[16] Con questo termine si è soliti indicare la dottrina sviluppatasi all’indomani della guerra civile russa (1917-1922) e costruita sulla convinzione per cui il bolscevismo, seppur degenerazione del marxismo e sottoprodotto della cultura tedesca, potesse essere impiegato per fini nazionalistici. Tra gli esponenti più importanti occorre ricordare Nikolai Ustryalov (1890-1937) e Aleksej Nikolaevič Tolstoj (1883-1945).
[17] Nei primi anni del XIX secolo l’espressione ultrà, diminutivo per “ultrarealisti”, indicava gli esponenti conservatori del Partito monarchico francese. In questo caso, il termine viene invece utilizzato per designare la frangia nazional-sciovinista della “nuova destra russa”.
[18] Šimanov. G., Protiv tečeniia, p.16 – La distensione dopo Brežnev.