Policlic n.15
3 gennaio 1925
Il 3 gennaio 1925, l’allora Presidente del Consiglio dei ministri Benito Mussolini pronunciò alla Camera dei deputati uno dei suoi discorsi[1] più celebri e importanti. Con tale discorso Mussolini sancì la fine dello Stato liberale – che tra il 1922, anno della marcia su Roma[2], e il 1925 era ancora formalmente in piedi, sia pur ridotto a un simulacro sempre più vuoto – almeno dal punto di vista simbolico[3].
La situazione nella quale Mussolini si presentò alla Camera il 3 gennaio non era tra le più semplici per il suo governo e per la sua sopravvivenza politica. Mussolini, difatti, aveva vissuto mesi di profonda difficoltà a seguito dell’uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti, avvenuta il 10 giugno 1924[4]. Lo sdegno provocato dall’assassinio Matteotti fu enorme e il governo fascista fu a un passo dal crollare[5].
Con il discorso del 3 gennaio, Mussolini riprese l’iniziativa e superò la crisi, aprendo la fase decisiva per la “radicalizzazione autoritaria del governo e dello Stato”[6]. Sin dall’incipit, Mussolini chiarì che “il discorso che sto per pronunziare dinanzi a voi forse non potrà essere, a rigor di termini, classificato come un discorso parlamentare”[7], e che “io non cerco questo voto politico. Non lo desidero”[8]. Dopodiché Mussolini passò a ripercorrere tutti i principali avvenimenti dei mesi precedenti, difendendosi dalle accuse di aver creato un regime repressivo (“Si è detto che io avrei fondato una Ceka. Dove? Quando? In qual modo? Nessuno potrebbe dirlo! […] la Ceka italiana non è mai esistita”[9] oppure “Pena di morte? Ma qui si scherza, signori. Prima di tutto, bisognerà introdurla nel Codice penale, la pena di morte; e poi, comunque, la pena di morte non può essere la rappresaglia di un Governo. Deve essere applicata dopo un giudizio regolare, anzi regolarissimo”[10]) e sostenendo invece che tutta la sua azione aveva avuto come unico obiettivo la normalizzazione dell’Italia (“Tuttavia io continuo nel mio sforzo di normalizzazione e di normalità. Reprimo l’illegalismo”[11]). A questo punto si inserisce quella che probabilmente è la parte più famosa di tutto il discorso, nella quale Mussolini assume su di sé la responsabilità di tutto ciò che era stato il fascismo negli anni precedenti, e che si riporta integralmente:
Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto.
Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!
Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento ad oggi.[12]
Dopo diversi attacchi rivolti alla secessione dell’Aventino[13], la chiusura del discorso non fu di minore impatto, e di fatto preannunciava ciò che sarebbe accaduto negli anni immediatamente successivi:
Vi siete fatte delle illusioni! Voi avete creduto che il fascismo fosse finito perché io lo comprimevo, che fosse morto perché io lo castigavo e poi avevo anche la crudeltà di dirlo. Ma se io mettessi la centesima parte dell’energia che ho messo a comprimerlo, a scatenarlo, voi vedreste allora.
Non ci sarà bisogno di questo, perché il Governo è abbastanza forte per stroncare in pieno definitivamente la sedizione dell’Aventino. L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa.
Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l’amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario.[14]
Il discorso del 3 gennaio 1925 ebbe certamente un fortissimo valore simbolico, ma la trasformazione dell’Italia in una dittatura richiedeva anche interventi di tipo normativo, che impegnarono il governo Mussolini dal 1925 al 1926. Tali provvedimenti, passati alla storia sotto il nome di “leggi fascistissime”, ebbero come principale ideatore l’allora ministro della Giustizia, Alfredo Rocco.
Il giurista del regime: Alfredo Rocco
Alfredo Rocco nacque a Napoli il 9 settembre 1875. Suo padre, Alberto Rocco, era un ingegnere funzionario del Ministero dei Lavori Pubblici[15], ma Alfredo scelse di intraprendere gli studi giuridici – come fecero, peraltro, i suoi fratelli minori Arturo, Ferdinando e Ugo[16] – e si laureò in giurisprudenza a Genova nel 1896[17]. Nel 1899 Rocco conseguì la libera docenza e cominciò a insegnare presso l’Università di Parma, cambiando nel primo decennio del Novecento molte città a causa della carriera accademica[18].
L’interesse per gli studi giuridici e per l’accademia non impedì a Rocco di avvicinarsi alla politica, dapprima su posizioni vicine a quelle del Partito Radicale[19] e di Francesco Saverio Nitti[20]. Nel 1907 partecipò, difatti, al terzo Congresso del suddetto partito, presentando una relazione incentrata sulla situazione degli impiegati, ai quali era contrario a concedere il diritto di sciopero, pur ritenendo che essi dovessero avere una rappresentanza politica estranea al socialismo[21]. Dopo una pausa dalla politica lunga sei anni, Rocco tornò a interessarsi al dibattito pubblico nel 1913, quando in un articolo sostenne che i liberali dovevano spostarsi su posizioni più nazionali[22] e aderì al movimento nazionalista[23].
Da questo momento in poi, Rocco non smise mai di interessarsi alla politica. Sempre nell’ambito del movimento nazionalista, nel 1914 Rocco si schierò contro la neutralità italiana nella Prima guerra mondiale che era appena scoppiata, poi partecipò tra il 1914 e il 1915 a varie manifestazioni interventiste[24], ed infine, quando l’Italia decise di entrare in guerra, si arruolò come ufficiale volontario di artiglieria lavorando presso l’Ufficio propaganda, finché non fu chiamato al fronte nel 1917, in seguito alla disfatta di Caporetto[25].
La guerra non mitigò le posizioni nazionaliste di Rocco[26], ma anzi le esasperò. Eletto deputato nel 1921 nei blocchi nazionali[27], Rocco divenne un fervente sostenitore della fusione tra nazionalisti e fascisti[28], e ciò gli valse, all’indomani della marcia su Roma, un posto nel governo Mussolini come sottosegretario prima al Tesoro (dall’ottobre 1922 al marzo 1923) e poi alle Finanze (marzo-settembre 1923)[29].
Rieletto deputato nelle elezioni del 1924, Rocco si ritrova a presiedere la Camera nei mesi di tensione seguiti alla denuncia dei brogli elettorali da parte del deputato Matteotti e all’assassinio dello stesso. Proprio in veste di Presidente della Camera, Rocco pronunciò un discorso il 13 giugno 1924, tre giorni dopo la scomparsa di Matteotti, in cui si augurava una “inesorabile giustizia, che sia monito severo ai facinorosi, e che ristabilisca l’impero non solo dell’ordine giuridico, ma anche dell’ordine morale, violato oggi, per il fatto inaudito che ci riempie di commozione e di orrore”[30]. Sempre da Presidente della Camera Rocco assistette al discorso del 3 gennaio 1925 e, appena due giorni dopo, il 5 gennaio, Mussolini lo volle nel suo governo per ricoprire la carica di ministro della Giustizia[31].
Fu proprio in qualità di ministro della Giustizia che Rocco divenne l’architetto del regime. Egli, in particolare ma non solo, legò il suo nome prima alle “leggi fascistissime”[32] con le quali venne spazzato via ogni residuo delle libertà garantite dallo Stato liberale, e poi alla riforma dei codici penale e di procedura penale[33]. Tra tutte le sue riforme, in questa sede ci si occuperà in particolar modo della creazione del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato e del Codice penale.
Rocco rimase al Ministero della Giustizia fino al 1932, quando lasciò il governo per assumere il rettorato dell’Università La Sapienza di Roma. Nominato senatore del Regno nel 1934, morì poi il 28 ottobre 1935 a Roma[34] per una leucemia.
Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato
Una delle “leggi fascistissime” dovute all’azione di Alfredo Rocco è stata la legge 25 novembre 1926, n. 2008 Provvedimenti per la difesa dello Stato[35]. La suddetta aveva preso le mosse dai vari attentati di cui Mussolini era stato vittima tra il 1925 e il 1926[36], con uno schema che si è ripresentato, nella storia d’Italia, con la cosiddetta strategia della tensione durante la Prima Repubblica[37]. Il provvedimento, che era composto da appena otto articoli, introduceva però novità sostanziali nell’ordinamento giuridico italiano.
Anzitutto venne reintrodotta la pena di morte – che era stata eliminata nel 1889 dal Codice penale elaborato dall’allora ministro di Grazia e Giustizia Zanardelli[38] – per tutti coloro che attentavano “contro la vita, l’integrità o la libertà personale del Re o del Reggente” ma anche “della Regina, del Principe ereditario o del Capo del Governo”[39]. In altre parole, da quel momento in poi gli attentati contro Mussolini potevano essere puniti con la pena capitale.
La seconda novità fondamentale della legge 2008/1926 era l’istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Tale tribunale aveva sostanzialmente il compito di occuparsi di reati politici. Difatti, rientravano nella competenza del Tribunale speciale tutti i delitti previsti dalla citata legge 2008/1926, e quindi, oltre agli attentati contro la famiglia reale e il Capo del Governo, anche l’istigazione a compiere questi attentati e la ricostituzione di partiti o associazioni disciolte dalle altre “leggi fascistissime[40]”. Tra gli elementi identificativi del Tribunale speciale c’era l’identificazione del giudice con il potere politico, la segretezza del procedimento, ed ancora l’inappellabilità delle sentenze e l’annullamento di tutti i diritti della difesa[41].
Sulla natura tipicamente fascista del Tribunale speciale e su quanto invece affondasse le radici nello Stato liberale molto si è scritto. Certamente, nel Tribunale speciale si possono ritrovare alcune caratteristiche tipiche della legislazione speciale ed emergenziale usata anche prima dell’avvento del fascismo, e cioè la sospensione delle libertà garantite dallo Statuto albertino e l’affidamento provvisorio di ampi compiti all’autorità militare[42]. La tesi della continuità, peraltro, fu sostenuta dallo stesso Rocco al Senato[43].
In realtà, le differenze tra la legislazione speciale liberale e il Tribunale speciale fascista c’erano ed erano evidenti. Anzitutto, il Tribunale speciale non ebbe carattere temporaneo. Istituito inizialmente per durare solo cinque anni, esso venne rinnovato a più riprese nel 1931, nel 1936 e poi, definitivamente, nel 1941, operando quindi per tutta la durata del regime fascista[44]. Inoltre, come già sottolineato, esso fu uno strumento politico, divenendo una “delle istituzioni più strategiche del regime, almeno sul piano della repressione del dissenso e degli atteggiamenti antifascisti”[45].
La stessa struttura del Tribunale speciale lo avvicinava più a un tribunale militare che a uno ordinario. Fino al 1928, difatti, il collegio era presieduto da un generale (inizialmente il sardo Carlo Sanna[46]) e composto da ulteriori cinque membri provenienti dalla milizia fascista, non necessariamente provvisti di competenze giuridiche, e nominati direttamente da Mussolini[47]. Insomma, appare chiaro come questo Tribunale avesse un approccio eminentemente politico e ideologico, sottraendo alla magistratura ordinaria tutti i casi di sua competenza, che erano anche quelli che più interessavano al regime per i suoi scopi repressivi[48].
Nel marzo 1928 si aprì la seconda fase del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, quando fu reso possibile anche per i magistrati ordinari e per i professori universitari entrare a far parte del Tribunale[49].
La terza fase cominciò nel 1931 e si protrasse fino alla fine del regime. In quell’anno, difatti, il Gran Consiglio del Fascismo stabilì che dei reati politici si occupasse solo il Tribunale speciale, che intanto passava dalla competenza del Ministero della Guerra a quella diretta della Presidenza del Consiglio[50], e quindi di Mussolini, che ebbe peraltro rapporti molto stretti con i successori di Sanna, Guido Cristini (dal 1928 al 1932) e Antonino Tringali Casanova (dal 1932 al 1943)[51]. Ciò che non cambiò, nel corso delle tre fasi, fu che il Tribunale speciale restò sempre un organo politico, con il preciso obiettivo di eliminare il dissenso[52].
I numeri del Tribunale speciale per la difesa dello Stato rendono bene l’idea di quanto la sua azione fosse importante per gli scopi repressivi del regime fascista: tra il 1926 e il 1943 furono deferite 15806 persone; a processo davanti al Tribunale speciale finirono 5619 persone, e le condanne a morte furono 77, di cui 62 eseguite[53].
Una tra le direttive principali dell’azione del Tribunale speciale fu l’attacco alle formazioni comuniste. In tal senso, assunse particolare rilevanza il cosiddetto “processone” condotto tra il 1926 e il 1928 contro i dirigenti comunisti[54]. Il “processone”, che prese le mosse dall’arresto di due corrieri – Giacomo Stefanini e Bonaventura Gidoni[55] – che portavano materiale di propaganda nel settembre 1926, vide coinvolti tutti i più famosi dirigenti comunisti. Furono denunciati, tra gli altri, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti, Antonio Gramsci, Mauro Scoccimarro, Ruggero Grieco, Giovanni Roveda, Giorgio Carretto; si trattò, insomma, di nomi pesanti. Alla fine del processo, che durò a lungo ed ebbe continui rinvii, e al quale si interessò Mussolini in prima persona (fu difatti determinante nella decisione delle pene[56]), le sentenze emesse furono tra le più pesanti rispetto a quelle emesse dallo stesso nel corso della sua storia, se si escludono le condanne a morte: Terracini fu condannato a 22 anni 9 mesi e 5 giorni di reclusione, mentre Gramsci, Roveda e Scoccimarro a 20 anni 4 mesi e 5 giorni[57]. Negli anni successivi, l’offensiva del Tribunale speciale contro i comunisti continuò; a puro titolo di esempio, si ricordi la pesante condanna, nel 1932, di un altro dirigente del Partito Comunista d’Italia, Pietro Secchia, a 17 anni e 9 mesi di reclusione[58].
L’eredità di Rocco: il Codice penale
Come già sottolineato, Alfredo Rocco ricoprì la carica di ministro della Giustizia sino al 1932, e durante la sua permanenza al governo ebbe il tempo di fare approvare sia un nuovo Codice penale che un nuovo Codice di procedura penale, entrambi nel 1930[59]. Nel presente contributo si porrà l’attenzione sul primo.
Il Codice penale del 1930 aveva come obiettivo quello di superare il Codice penale del 1889, ideato dall’allora ministro della Giustizia Zanardelli. I lavori di elaborazione del Codice durarono circa quattro anni e, sotto lo stretto coordinamento del ministro, lavorarono solo tredici giuristi, tra cui il fratello di Alfredo, Arturo Rocco[60].
Rocco si sforzò, durante la sua relazione alla Camera, di sottolineare la continuità dei due codici, nel solco della tradizione giuridica nazionale[61]. In questo senso, alcuni passaggi della relazione sono rivelatori e, talvolta, sorprendenti. Dice Rocco, ad esempio, che “per la riforma del Codice penale era necessario integrare e completare le norme del codice del 1889, più che sopprimere o radicalmente modificare le norme medesime”, lasciando addirittura inalterata la struttura del codice Zanardelli, così come la fisionomia del sistema[62]. Le novità principali, a detta di Rocco, consistevano in alcuni nuovi istituti, in perfezionamenti tecnici, in nuovi mezzi legislativi di lotta contro la delinquenza da condurre in modo più energico[63]. Nonostante ciò, Rocco arrivò ad affermare che “il nuovo codice risulterà assai più mite del precedente, in tutti i casi in cui v’è ragione di essere indulgenti”[64].
Le parole di Rocco, però, non trovavano riscontro nel Codice penale da egli stesso elaborato. Innanzitutto, veniva riscritto il sistema delle pene con l’obiettivo di “rinvigorire la scaduta efficacia e la sminuita forza assicuratrice, intimidatrice, sattisfatrice della pena”[65]; applicazione, esecuzione delle pene e conseguenze civili dei reati erano temi altrettanto importanti nel Codice, così come ampio spazio venne concesso al tema della prevenzione dei reati; si lavorava inoltre con severità sulla recidiva e si cercò di diminuire l’impiego di amnistie, indulti e grazie[66].
In sostanza, dunque, nonostante Rocco sbandierasse mitezza e continuità con la tradizione liberale del suo Codice, si verificò un deciso inasprimento delle pene[67]. In tal senso, assume particolare importanza la pena di morte che, come si è visto, era stata già introdotta dalla legge 2008/1926 nei casi di attentati contro la famiglia reale o contro il Capo del governo, ma che nel Codice penale trovò ulteriore spazio, segnando un punto di non ritorno nella politica reazionaria del Regime[68].
In particolare, la pena di morte fu prevista soprattutto per una serie di reati contro lo Stato. Difatti, erano puniti con la pena capitale: i cittadini che portavano le armi contro lo Stato (se avevano una funzione di comando o direttiva, art. 242); chi tentava con successo di convincere un altro Stato a dichiarare guerra all’Italia (art. 243); chi tentava, durante una guerra, di favorire i nemici dell’Italia (art. 247); chi distruggeva opere militari compromettendo l’efficacia bellica italiana (art. 253); chi sottraeva, falsificava o distruggeva documenti concernenti la sicurezza dello Stato (art. 255), o chi si procurava informazioni riservate (art. 256), se questi atti compromettevano le operazioni militari; chi praticava spionaggio politico o militare a beneficio di stati nemici o danneggiando la capacità militare italiana (artt. 257, 258, 261, 262); chi usava informazioni segrete e riservate con i medesimi scopi (art. 263). E ancora, era prevista la pena di morte per chi promuoveva e dirigeva un’insurrezione armata (art. 284); per chi operava una devastazione, un saccheggio o una strage con lo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato (art. 285); per chi scatenava una guerra civile (art. 286); per chi usurpava il potere politico o militare in tempo di guerra, compromettendo le operazioni belliche (art. 287); per chi attentava con successo alla vita di un capo di Stato estero (art. 295).
La pena di morte venne poi estesa anche a una serie di reati comuni e particolarmente gravi, e cioè a chi compiva una strage (art. 422); a chi cagionava un’epidemia (art. 438) e a chi provocava l’avvelenamento di acque o sostanze alimentari (art. 439), se questi atti causavano la morte di più persone[69].
La pena di morte, secondo le disposizioni del Codice, doveva essere eseguita mediante la fucilazione in forma privata, a meno che non avesse disposto diversamente il ministro della Giustizia (art. 21)[70].
L’inasprimento delle pene del Codice penale, tra l’altro, si coniugava con la contemporanea riforma del Codice di procedura penale, che portò a pesanti limitazioni dei diritti della difesa, tra cui la soppressione del diritto del difensore a intervenire nell’istruttoria, il rafforzamento del pubblico ministero, l’abolizione della giuria popolare[71].
Le conseguenze del Codice penale di Rocco sono state di lunghissima durata; basti pensare che, nel momento in cui si scrive, questo codice è ancora in vigore e non ci sono avvisaglie di riforme organiche. Tale Codice, però, sebbene sia stato defascistizzato immediatamente dopo la caduta del regime, in particolar modo eliminando la pena di morte con il decreto legislativo luogotenenziale 10 agosto 1944, n. 224[72], è ancora in vigore. A tal proposito occorre anche ricordare che, nei mesi centrali del 2021, è stata condotta una raccolta firme per un referendum abrogativo con l’obiettivo di abolire il reato dell’omicidio del consenziente, previsto dall’articolo 579 del Codice penale di Rocco[73].
Conclusioni
L’azione di Alfredo Rocco fu fondamentale per la nascita e il consolidamento del regime. L’importanza di Rocco è testimoniata dalla sua permanenza a capo del Ministero della Giustizia: egli, difatti, ricoprì la carica di ministro per sette anni, tanti per un ministro nel periodo fascista se si pensa che Mussolini preferiva un ricambio frequente, evitando così lunghe permanenze al governo delle stesse persone negli stessi posti[74].
Non possiamo sapere come sarebbero andate le cose se Rocco non fosse stato ministro, ma non si può ignorare il fatto che fu lui a costruire il perimetro giuridico nel quale il regime fascista poté operare la sua azione repressiva, prima con le “leggi fascistissime”, poi con il Codice penale e il Codice di procedura penale.
Inoltre, come si è visto, l’influenza di Rocco e la sua eredità sopravvivono ancora oggi, con il Codice penale ancora in vigore, sia pur emendato. Vuol dire che aveva ragione Rocco quando poneva il Codice in continuità con la tradizione politica liberale? La riposta rimane aperta e, probabilmente, dipende dal punto di vista di chi risponde. Ciò che è certo è che la sua opera, storicamente, non può essere trascurata. Dal punto di vista dell’importanza e dell’influenza di lunga durata che ha avuto, e senza voler dare alcun giudizio qualitativo, si può senz’altro affermare che Rocco si inserisce tra i giuristi, e più in particolare tra i ministri della Giustizia, con maggiore importanza nella storia d’Italia.
Emanuele Del Ferraro per www.policlic.it
Riferimenti bibliografici
[1] Per il testo completo del discorso del 3 gennaio 1925 si veda http://www.storiaxxisecolo.it/fascismo/fascismo10g.htm (ultima consultazione: 19/09/2021).
[2] Per approfondire il processo che portò alla marcia su Roma, E. Del Ferraro, I rossi e i neri: Il primo Dopoguerra dal Biennio rosso alla marcia su Roma, in Policlic n. 13 (settembre 2021), pp. 23-31, https://www.policlic.it/i-rossi-e-i-neri/ (ultima consultazione: 18/09/2021).
[3] A. Brancati e T. Pagliarani, Il nuovo dialogo con la storia 3: Il Novecento, La Nuova Italia, Milano 2007, p. 200.
[4] Il 30 maggio 1924 il deputato socialista Giacomo Matteotti aveva pronunciato alla Camera un discorso nel quale denunciava i brogli elettorali che si erano verificati nelle elezioni tenutesi il precedente 6 aprile, chiedendo a gran voce l’annullamento delle stesse. Il 10 giugno 1924 Matteotti venne rapito e ucciso da un manipolo di fascisti. Ivi, pp. 200-201.
[5] M. Gotor, L’Italia nel Novecento: Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon, Einaudi, Torino 2019, pp. 58-59.
[6] L. Tedoldi, Storia dello Stato italiano: Dall’Unità al XXI secolo, Laterza, Bari 2018, p. 123.
[7] http://www.storiaxxisecolo.it/fascismo/fascismo10g.htm (ultima consultazione: 19/09/2021).
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem.
[13] Con “secessione dell’Aventino” si fa riferimento alla decisione delle opposizioni di abbandonare i lavori parlamentari, con lo scopo di fare pressione sul re Vittorio Emanuele III affinché fosse costituito un nuovo governo senza Mussolini. A. Brancati e T. Pagliarani, op. cit., p. 200.
[14] http://www.storiaxxisecolo.it/fascismo/fascismo10g.htm (ultima consultazione: 19/09/2021).
[15] A. Tarquini, Rocco, Alfredo, in Dizionario Biografico degli italiani, 2017, https://www.treccani.it/enciclopedia/alfredo-rocco_%28Dizionario-Biografico%29/ (ultima consultazione 20/09/2021).
[16] P. Mieli e F. Cundari, L’Italia di Mussolini in 50 ritratti, Centauria, Milano, p. 145.
[17] A. Tarquini, op. cit.
[18] Ibidem.
[19] Il Partito Radicale in questione non ha nulla a che fare con il Partito Radicale nato nella prima Repubblica e ancora attivo; si tratta di quello che ha operato dalla fine dell’Ottocento all’avvento del fascismo, https://www.treccani.it/enciclopedia/partito-radicale/ (ultima consultazione: 20/09/2021).
[20] Scheda biografica di Alfredo Rocco, https://storia.camera.it/presidenti/rocco-alfredo (ultima consultazione: 20/09/2021).
[21] Ibidem.
[22] Ibidem.
[23] P. Mieli e F. Cundari, op. cit., p. 145.
[24] A. Tarquini, op. cit.
[25] P. Mieli e F. Cundari, op. cit., p. 145.
[26] A. Tarquini, op. cit.
[27] I blocchi nazionali erano delle liste che erano state presentate alle elezioni del 1921 e che includevano al loro interno liberali, nazionalisti e fascisti. Il tentativo di Giolitti consisteva nel contrastare, forte di questa alleanza, l’ascesa dei popolari e dei socialisti, ma la conseguenza principale fu quella di fare eleggere ben 35 deputati fascisti. A. Brancati e T. Pagliarani, op. cit., p. 196.
[28] P. Mieli e F. Cundari, op. cit., p. 145.
[29] https://storia.camera.it/presidenti/rocco-alfredo (ultima consultazione: 20/09/2021).
[30] Ibidem.
[31] Ibidem.
[32] Con l’espressione “leggi fascistissime” si indica una serie di leggi varate tra il 1925 e il 1926 con cui l’Italia venne trasformata definitivamente in uno Stato dittatoriale e totalitario. Le leggi, il cui sunto è disponibile a A. Raso, Leggi fascistissime: cosa sono e riassunto del testo, https://www.fattiperlastoria.it/leggi-fascistissime/, sono: Legge 24 dicembre 1925, n. 2300, Dispensa dal servizio dei funzionari dello Stato; Legge 25 dicembre 1925, n. 2263, Attribuzioni e prerogative del Capo del Governo, Primo ministro e Segretario di Stato; Legge 31 dicembre 1925, n. 2307, Disposizioni sulla stampa periodica; Legge 31 gennaio 1926, n. 100, Sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche; Legge 4 febbraio 1926, n. 237, Istituzione del Podestà e della Consulta municipale nei comuni con popolazione non eccedente i 5000 abitanti; Legge 3 aprile 1926, n. 563, Disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro; R. d. 3 settembre 1926, n. 1910, Estensione dell’ordinamento podestarile a tutti i comuni del regno; R. d. 6 novembre 1926, n. 1848, Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza; Legge 25 novembre 1926, n. 2008, Provvedimenti per la difesa dello Stato. (ultima consultazione dei link: 23/09/2021).
[33] P. Mieli e F. Cundari, op. cit., p. 145.
[34] Ibidem.
[35] https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1926-11-25;2008 (ultima consultazione: 25/09/2021).
[36] M. Gotor, op. cit., p. 59.
[37] Si veda A. Ventrone, La strategia della paura: Eversione e stragismo nell’Italia del Novecento, Mondadori, Milano 2019.
[38] A. Olivieri, Pena di morte dal codice Zanardelli al codice Rocco: Profili storici e giuridici, https://www.lanternaweb.it/pena-di-morte-dal-codice-zanardelli-al-codice-rocco-profili-storici-e-giuridici/ (ultima consultazione: 25/09/2021).
[39] https://www.normattiva.it/atto/caricaDettaglioAtto (ultima consultazione: 25/09/2021).
[40] Ibidem.
[41] G. Melis, La macchina imperfetta: Immagine e realtà dello Stato fascista, Mulino, Bologna 2018, p. 368.
[42] Ibidem, p. 367.
[43] Ivi, p. 368.
[44] Ibidem.
[45] L. Tedoldi, op. cit., p. 126.
[46] G. Melis, op. cit., p. 368.
[47] L. Tedoldi, op, cit., p. 126.
[48] Ivi, pp. 126-127.
[49] G. Melis, op, cit., p. 369.
[50] L. Tedoldi, op. cit., p. 127.
[51] G. Melis, op. cit., p. 369.
[52] Ivi, p. 370.
[53] Sia i libri delle sentenze che uno studio statistico sono digitalizzati e disponibili all’indirizzo https://issuu.com/rivista.militare1/stacks/6d94474d3f20446db581a2f0ee090d4f?fbclid=IwAR3EHZ608Dz66TvP-tZNt-_-OtdcQ0l6mePZpULBwIjOWlb54WWsAhJlWYw. Si veda inoltre anche L. P. D’Alessandro, Giustizia fascista: Storia del Tribunale speciale (1926-1943), Mulino, Bologna 2020.
[54] L. P. D’Alessandro, I dirigenti comunisti davanti al Tribunale speciale, in “Studi storici”, II (2009), p. 481, https://www.academia.edu/12844763/I_dirigenti_comunisti_davanti_al_Tribunale_speciale?bulkDownload=thisPaper-topRelated-sameAuthor-citingThis-citedByThis-secondOrderCitations&from=cover_page (ultima consultazione: 3/10/2021).
[55] Ivi, pp. 484-485.
[56] Ivi, p. 540.
[57] Ibidem.
[58] Tribunale speciale per la difesa dello Stato: Decisioni emesse nel 1932, pp. 43-53, https://issuu.com/rivista.militare1/docs/tribunale-per-la-difesa-dello-stato_c24aa07901ad89 (ultima consultazione: 2/10/2021).
[59] P. Miei e F. Cundari, op. cit., p. 145.
[60] I. Pavan, La cultura penale fascista e il dibattito sul razzismo (1930-1939), in “Ventunesimo secolo”, XVII (2008), p. 48, https://www.jstor.org/stable/23720330?read-now=1&refreqid=excelsior%3A4dd8b9b26fa86da7bd78ecf944f2445c&seq=4#page_scan_tab_contents (ultima consultazione: 2/10/2021).
[61] G. Melis, op. cit., p. 275.
[62] Relazione e Regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, Approvazione del testo definitivo del Codice penale, in “Gazzetta Ufficiale 26 ottobre 1930 n. 251”, p. 4446, http://augusto.agid.gov.it/#giorno=26&mese=10&anno=1930 (ultima consultazione: 2/10/2021).
[63] Ibidem.
[64] Ibidem.
[65] G. Melis, op. cit., p. 276.
[66] Ivi, pp. 276-277.
[67] Ivi, p. 277.
[68] Ibidem.
[69] Per il testo del Codice penale, http://www.uwm.edu.pl/kpkm/uploads/files/codice-penale.pdf (ultima consultazione: 2/10/2021).
[70] Ibidem.
[71] G. Melis, op. cit., pp. 277-278.
[72] http://www.uwm.edu.pl/kpkm/uploads/files/codice-penale.pdf (ultima consultazione: 2/10/2021).
[73] https://tg24.sky.it/cronaca/2021/06/17/referendum-eutanasia-legale-raccolta-firme (ultima consultazione: 2/10/2021).
[74] G. Melis, op. cit., pp. 52-55.