- Perché è sbagliato assimilare il rifiuto di Savona a quelli di Previti e Gratteri
L’incertezza che da giorni ammanta il panorama politico-economico nazionale è, come noto a tutti, l’ineluttabile conseguenza del niet opposto dal Presidente Mattarella alla nomina del Prof. Paolo Savona a capo del Ministero dell’Economia. Prima di provare a dare una risposta di carattere eminentemente giuridico e per quanto possibile scevra da valutazioni di opportunità, alla domanda che da giorni passa di bocca in bocca e di tastiera in tastiera, ossia se il Capo dello Stato possa, Costituzione alla mano, rifiutare la nomina di un Ministro, è bene porre una precisazione. Quanto accaduto lo scorso 27 maggio costituisce un novum nella storia repubblicana, non essendo il veto posto sulla figura del Prof. Savona equiparabile a quelli mossi dai predecessori del Presidente Mattarella[1]. E ciò per almeno due motivi: innanzitutto, nelle occasioni impropriamente invocate come precedenti, v’erano ragioni obiettive che rendevano quantomeno inopportuna la nomina a Ministro delle figure proposte dai Presidenti del Consiglio incaricati[2]; in secondo luogo furono questi ultimi – a fronte delle rimostranze del Colle – a rivedere spontaneamente le proprie scelte, mentre oggi, per la prima volta, è stato ingaggiato un vero e proprio braccio di ferro che si è concluso con la rimessione dell’incarico da parte del Prof. Conte e il suo conseguente affidamento a un soggetto del tutto estraneo alla maggioranza parlamentare. Insomma, con un intervento del tutto inedito, il Capo dello Stato ha de facto impedito, per ragioni squisitamente politiche e di merito, la formazione di un Governo che fosse espressione dei due partiti di maggioranza preferendogliene uno che, con tutta evidenza, sarebbe stato destinato a spegnersi, con un harakiri istituzionale, nella mancata fiducia delle Camere.
- Gli equilibri costituzionali e la forma di governo come fattori ostativi al veto del Presidente
Quanto sopra rende evidente come le determinazioni del Presidente Mattarella debbano esser vagliate autonomamente, non potendo esse trovare un’automatica legittimazione in dinamiche passate che, per ragioni fondanti e modalità di sviluppo, risultano del tutto inidonee a fungere da termine di paragone. L’esame che segue volutamente prescinde dalle indicazioni offerte dai Manuali di Diritto costituzionale, i cui estratti circolano da giorni, in guisa da offrire una lettura delle norme coerente al dato d’insieme rinveniente dalla Carta e quanto più possibile aderente alla voluntas dei Padri costituenti.
Il nodo da sciogliere è quello relativo al significato da attribuire alla “proposta” di cui al secondo comma dell’art. 92 Cost.[3], che potrebbe o meno intendersi come vincolante per la nomina dei Ministri da parte del Capo dello Stato. In altri termini, occorre chiedersi se questi, una volta ricevuta la lista da parte del Presidente del Consiglio precedentemente incaricato, possa rifiutarsi di designare a capo dei rispettivi dicasteri uno o più dei nomi in essa indicati.
L’ambiguità del dato letterale induce, coerentemente con i criteri generali d’interpretazione della legge[4], ad esaminare il testo dei lavori preparatori che hanno condotto all’adozione del dettato costituzionale definitivo. Questo tentativo, però, si rivela infruttuoso poiché nulla è ivi specificato circa le concrete sfere di attribuzioni dei soggetti indicati nell’art. 92 Cost.[5].
L’equivocità del testo normativo e l’oscurità dell’intentio legislatoris suggeriscono dunque di ricostruire il significato della disposizione arcana sulla scorta di una sua interpretazione sistematica, ossia di una lettura che, contestualizzandola nella fonte di provenienza, consenta di attribuirle un valore con essa coerente. In questa direzione concorrono a dar luce alla norma sub iudice i rispettivi primi commi degli artt. 89[6], 90[7] e 95 Cost[8].
I primi due, in particolare, conformano la c.d. “irresponsabilità del Presidente della Repubblica”, a garanzia della quale è previsto che ogni suo atto, ad eccezione di quelli legislativi, per i quali è prevista una procedura ad hoc, debba essere controfirmato da un Ministro, che ne assume la responsabilità. Per quanto d’interesse, l’atto di nomina dei nuovi Ministri e del Presidente del Consiglio viene controfirmato proprio da quest’ultimo. In altri termini, non solo è necessario che la designazione di ognuno dei componenti dell’Esecutivo consegua alla proposta conforme da parte del Presidente incaricato, ma anche che questi la “controfirmi”, assumendosene piena responsabilità. L’art. 95 Cost., invece, chiama il Capo del Governo a rispondere della politica generale dell’Esecutivo, mantenendone l’unità d’indirizzo.
È allora chiaro come il Presidente del Consiglio sia responsabile dell’assise che guida tanto nella sua fase genetica, in conseguenza della controfirma degli atti di nomina dei Ministri, quanto in quella funzionale ed operativa, per espressa previsione dell’art. 95 Cost. Naturale conseguenza di una così netta, duratura, gravosa assunzione di responsabilità sulle figure e sull’operato dei Ministri non può che essere la vincolatività, per il Capo dello Stato, della proposta di nomina da egli avanzata. Ad una piena responsabilità deve corrispondere un pieno potere di designazione, pena l’assurdo di chiamare il Presidente del Consiglio a rispondere di scelte non proprie.
Quanto sopra è inoltre corroborato da una considerazione di carattere ordinamentale: l’Italia è modellata su una forma di governo parlamentare che, come tale, fa sì che l’Esecutivo debba godere della fiducia delle due Camere e non, come avviene nei Paesi a stampo semi-presidenziale, anche di quella del Presidente della Repubblica. Giammai, da noi, il Capo dello Stato potrebbe “sfiduciare” un Governo, come può invece avvenire in altri Stati come la Francia, ove, a certe condizioni, è possibile la revoca presidenziale dell’Esecutivo.
- Il risicato spazio del Presidente, chiamato a garantire la Costituzione che lo limita
D’altro canto, però, questa lettura dell’art. 92 Cost. – che pare l’unica coerente al dato d’insieme – non vuole certamente ridurre il Presidente della Repubblica a mero ratificatore delle scelte altrui, pena la vanificazione del passaggio istituzionale imposto dalla norma stessa. Poiché occorre sempre privilegiare l’interpretazione della legge che sia comunque idonea a garantirne un’utilità concreta, bisogna ritenere che il Presidente della Repubblica, oltre a dover rifiutare l’adozione di atti manifestamente irrituali o illegittimi, possa suggerirne al proponente una diversa ponderazione, senza però addivenire ad un rifiuto categorico. Rapportando queste potestates all’articolato procedimento di formazione del Governo, è infatti evidente la necessità di bilanciare le prerogative di scelta del Presidente del Consiglio incaricato con la difesa delle procedure e dei limiti costituzionali, tutti equipollenti sul piano della vincolatività e dunque necessariamente oggetto di contemperamento. Inoltre, non si giustificherebbe la nomina dei Ministri da parte del Capo dello Stato se questi non potesse quantomeno esprimere un’opinione sul merito della proposta, fermo restando però che, dinnanzi all’irremovibilità del Presidente del Consiglio, come detto unico responsabile del Governo, non potrebbe opporsi, in assenza di vizi, alla formazione dell’Esecutivo. Del resto, il Governo dovrà successivamente superare il vaglio del voto di fiducia delle Camere – questo sì, di carattere esclusivamente politico –, in occasione del quale il Capo dello Stato ben potrebbe ribadire le proprie perplessità, in modo tale da sensibilizzare senatori e deputati sui profili di criticità rilevati e favorire un mirato dibattito parlamentare sul punto.
- Il Presidente Mattarella ha davvero rischiato l’impeachment?
Aderendo alla lettura proposta, la linea seguita dal Presidente della Repubblica in occasione della querelle con le forze politiche di maggioranza rappresentate dal Prof. Conte potrebbe dunque aver dato luogo ad una forzatura del dettato costituzionale. In considerazione di ciò, in particolare da uno dei due partiti coinvolti nello scontro[9], si sono levate voci che ne reclamavano l’impeachment[10]. Sebbene nelle ultime ore l’iniziale livore politico sembri essersi stemperato[11], non è superfluo interrogarsi sulla reale percorribilità della strada inizialmente paventata. Occorre dunque chiedersi se, per il fatto di aver sostanzialmente impedito la formazione del Governo, il Presidente della Repubblica potrebbe esser messo in stato d’accusa e addirittura condannato per attentato alla Costituzione, ai sensi dell’art. 90 Cost., secondo comma[12].
A livello generale, dai lavori preparatori dell’Assemblea Costituente si apprende che si è scelto di usare il sostantivo “attentato” per indicare una violazione della Costituzione che non solo sia particolarmente grave, ma che sia anche commessa volontariamente[13]. Tuttavia, ciò non significa che l’agere presidenziale debba potersi necessariamente sussumere in una specifica norma incriminatrice del Codice penale. Già in passato, infatti, sotto la vigenza dello Statuto Albertino, per i giudizi di ministri dinnanzi al Senato è stato ritenuto che ben possa addivenirsi ad un esito di condanna anche per atti i quali, pur non espressamente qualificati dalla legge come reato, comunque implichino una violazione costituzionale. Inoltre, si rileva che, ricorrendone i presupposti, la messa in stato d’accusa del Presidente non è rimessa alla discrezionalità dell’assise parlamentare, costituendo piuttosto un atto doveroso, come peraltro testimoniato dalla lettera della norma[14]. Quanto alla procedura, a seguito della deliberazione delle Camere in seduta comune, il Presidente verrebbe giudicato dalla Corte costituzionale[15] in formazione integrata[16], che potrebbe anche disporne la sospensione dalla carica. In caso di giudizio di condanna, la destituzione della più alta carica dello Stato sarebbe inevitabile.
Sebbene ragioni di sensibilità politico-giuridica inducano a ritenere che, laddove il Presidente Mattarella fosse effettivamente giudicato per i fatti del 27 maggio, così divenendo il primo Capo dello Stato repubblicano soggetto ad impeachment, sarebbe con tutta probabilità “assolto”[17], un eventuale giudizio potrebbe non essere superfluo. Ciò innanzitutto perché, come rilevato, la messa in stato d’accusa si pone come doverosa di fronte ad un possibile attentato alla Costituzione. Peraltro, il mero sospetto che il Presidente di un Paese democratico possa aver violato la Carta che ne regola in toto le dinamiche civili ed istituzionali impone un puntuale accertamento dei fatti da parte degli organi all’uopo designati, pena l’inesorabile deminutio di credibilità del Capo dello Stato e, con lui, delle garanzie poste dalla Carta stessa.
Francesco Battista per Policlic.it
Note
[1] Si vuol far riferimento alle mancate nomine, al vertice del dicastero della Giustizia, di Cesare Previti, prima, non gradito al Presidente Scalfaro, e di Nicola Gratteri, poi, indesiderato dal Presidente Napolitano.
[2] È noto che Cesare Previti era il difensore di fiducia del Presidente Berlusconi e che Nicola Gratteri, quando fu indicato dal Presidente Renzi come Ministro della Giustizia, era un magistrato nel pieno delle proprie funzioni.
[3] L’art. cit., composto di due commi, dispone che «Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. | Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri.»
[4] L’art. 12 delle disposizioni preliminari al Codice civile, applicabili alla legge in generale, indica, come principali criteri interpretativi, quello letterale e quello fondato sull’intentio legislatoris, unitamente ai due, sussidiari, dell’analogia legis e dell’analogia iuris.
[5] Il testo dei lavori preparatori è consulatabile all’indirizzo http://documenti.camera.it/bpr/14611_testo.pdf.
[6] «Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità».
[7] «Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione».
[8] «Il Presidente del Consiglio dei Ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei Ministri».
[9] Ma, in verità, anche da almeno un altro, appartenente però alla minoranza.
[10] “Impingement”, per gran parte degli italiani, come riportato da https://www.agi.it/politica/inpeachment_impichment_impingement_google-3964117/news/2018-05-29/ .
[11] http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2018/05/29/di-maio-ipotesi-impeachment-non-ce-piu_a2e167fe-8eed-49a2-b69c-5d387f42d688.html .
[12] «In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri»
[13] Testualmente, è stato osservato che «è chiaro che per una violazione della Costituzione puramente formale non si avrà mai la messa in stato di accusa del Presidente. Ma una responsabilità del Presidente per violazioni sostanziali e gravi della Costituzione» sembra un elemento indispensabile.
[14] Nei lavori preparatori si legge che si è scelto di adottare una terminologia perentoria («è messo in stato d’accusa») poiché «era logico che la definizione dei delitti per i quali tale stato di accusa è consentito fosse tale da rendere conseguente un dovere più che una potestà da parte del Parlamento».
[15] Di cui il caso vuole che il Presidente Mattarella sia stato componente, dal 2011 al 2015.
[16] Con l’aggregazione, cioè, di sedici membri estratti a sorte da un elenco di 45 eletti dal Parlamento ogni 9 anni fra i cittadini aventi i requisiti per l’eleggibilità a senatore.
[17] Sarebbe invero difficile prefigurarsi un esito diverso, stanti l’elasticità della procedura di formazione del Governo e la non univocità delle interpretazioni dell’art. 92 Cost. offerte dalla dottrina. Del resto, come autorevolmente evidenziato da Pier Giorgio Licignani, «nei rapporti fra i poteri dello Stato, non possono esservi regole troppo minuziose e rigide, mentre ciò che prevale è l’idem sentire de re publica».