Nell’accostarci alla cosmogonia, la disciplina che si occupa di investigare le origini dell’universo nei vari contesti tradizionali e culturali, ci troveremo di fronte ad alcune costanti che potremmo definire sorprendenti, specie considerandole nella loro natura globale.
Nel suo bel saggio breve, intitolato “Homo Superior” (tesi di laurea, Università di Sassari, 2007), il Dottor Nicholas Mur ci accompagna in un affascinante cammino analitico che dall’Antico Egitto arriva all’Oceania, dall’alfabeto cuneiforme tocca le molte tradizioni orali delle tribù africane. La costante più evidente e principale è senza dubbio il ricordo di un grande cataclisma, che per ragioni di vicinanza culturale e mera comodità esplicativa, chiamiamo “Diluvio Universale”. È infatti impressionante notare quanto esso torni con assoluta puntualità in tutte le culture, a tutte le latitudini, anche in alcune regioni del pianeta che potremmo senza dubbio definire sperdute, con poche o nulle possibilità di contatto con realtà “altre”.
Al fianco di tale memoria, ne troviamo un’altra: quella di un’età – o meglio, di un susseguirsi di età -precedente al grande disastro; quella di un’umanità più innocente, più in grado di comunicare con le Realtà più elevate. Un’umanità che partendo pura e bella in senso platonico, va man mano degenerando. Parliamo di una vera e propria “progressione” al contrario; sarebbe più corretto parlare di “devoluzione”, di un vero e proprio avanzare peggiorativo. Più ci avviciniamo alla Creazione Originale, più notiamo un uomo libero dalla morte, dalla vecchiaia, dalle malattie.
L’ultima delle suddette età comincia successivamente al Diluvio; all’interno di essa, troviamo una coda, e cioè l’apice della degenerazione; è questa l’età che conclude rovinosamente un segmento temporale più lungo; ne costituisce una sorta di blasfemo “finale”. Tale “chiusa” rappresenta nella tradizione Hindu la conclusione di ciò che è chiamato tecnicamente nei Veda “Ciclo Cosmico”, e come detto, essa ha valenza particolarmente negativa, anche se questo non deve essere detto in termini eccessivamente occidentalizzanti. Il nome metafisico che viene attribuito a questa sezione temporale è “Khali Yuga” – l’età di Kali, sposa divina di Siva, nella sua variante distruttiva contrapposta a Parvati, l’altra sposa che del dio rappresenta il lato salvifico e costruttore.
È bene notare incidentalmente, ragionando per sommi capi, le “età dell’uomo” sono concordamente quattro in Occidente, rappresentato dalla cultura ellenica (che parla di Età dell’oro, dell’argento, del bronzo e del ferro) e quattro in Oriente, eminentemente rappresentato dall’ Induismo (con il Satiya Yuga -età della verità; il Tetra Yuga – a ricordare Visnu e I suoi tre avatara Vamana, Pareshurama, e Rama; il Drapara Yuga – la Terza Età, coincide con la dipartite di Krisna dal mondo sensibile; e appunto, il Khali Yuga).
Mettiamo l’accento su una questione fondamentale: Il Khali Yuga, così come lo percepiamo in occidente, e cioè come un qualcosa di assimilabile alla “fine dei tempi” di provenienza giudaico-cristiana, non è accostabile solo ed unicamente ad un tipo di corruzione morale; questa equazione è in realtà forzata e fondamentalmente errata, e denota un riflesso della nostra mentalità eurocentrico-occidentale. Parliamo qui, infatti, di qualcosa di molto, molto più grave nella radice e negli effetti.
La sopra citata “corruzione morale” è solo un effetto collaterale di una causa prima molto più grande e potenzialmente distruttiva: la totale distonia tra l’uomo ed il Divino. È questo che nelle tradizioni metafisiche orientali viene considerato”male”, non il male meramente morale così come inteso in Occidente. È qui che questa distonia viene ad esprimersi con maggiore evidenza, dato che abbiamo più o meno ufficialmente basato la nostra società su fondamenta quasi totalmente profane, quindi dichiaratamente slegate dal Divino e da quelli che gli Antichi Maestri chiamavano I “Principi di Ordine Superiore”. In primis: la metafisica e tutto ciò che la conoscenza di essa comporta.
Alcuni segnali culturali tipici di queste tendenze caratterizzanti del Kali Yuga sono, ad esempio: il dogmatismo scentifico, là dove la scienza non diventa un tragitto sperimentale e quindi gradualmente riconoscibile come vero, giudicabile in senso positivo solo in quanto tale, e assimilabile conseguentemente di volta in volta. Essa al contrario diventa un dogma; un dogma che, arrogantemente, sostituisce il concetto del Divino e la naturale spinta interiore dell’uomo verso ciò che è metafisico, e quindi oltre la materia ed oltre la morte fisica; l’edonismo imperante, che va a concludersi con derive idolatriche, poiché i modelli che perseguono il piacere saranno poi considerati “eroi” da emulare e adorare. Il “culto del leader” come viene chiamato da alcuni filosofi moderni, che abbiamo conosciuto nel ‘900 con i vari totalitarismi, ma che ancora oggi continua ad esistere nei mille rivoli capitalisti che vanno a sfociare nella nostra società “moderna”.
L’uomo di successo quindi viene considerato anche saggio a prescindere se lo sia davvero o meno; I modelli che vengono imposti a ragazze e ragazzi sono tutti decisamente profani, e vanno a creare un’idea del “come si dovrebbe essere” che nulla ha che vedere, ad esempio, con la Filosofia nella sua accezione classica di ricerca della verità: tale idea è anzi refrattaria al porsi quelle domande essenziali che potrebbero potenzialmente liberarci da una condizione di “produzione-consumo-nuova produzione al fine di consumare nuovamente”.
Molti autori tradizionali vedono nel Khali Yuga anche una perdita identitaria relativa a quelle che furono le iniziazioni fondamentali proprie del Mondo Antico, e cioè: l’iniziazione sacerdotale, quella guerriera, quella artigiana e quella servile (comunque da considerarsi degna e indispensabile). Iniziazioni queste che, come suggerito, erano intimamante connesse all’identità di chi le abbracciava; esse erano necessarie al sistema sociale nella sua essenza funzionale e di tessuto.
Non pensiamo tuttavia alla beatificazione, ad esempio, delle Caste Hindu: esse sono una degenerazione di un concetto metafisico originariamente corretto, concretizzatosi poi in maniera imperfetta per via di colpe esclusivamente umane. Torniamo, per un istante, al concetto di morale: l’ordinamento antico prevede gentilezza e compassione come elementi fondativi da collocarsi al di là delle leggi; è per scelta che si deve essere buoni, non per una qualche costrizione imposta da codici esterni. Seguendo questa linea di ragionamento, non solo io non tratterò male un servo; il pensiero non potrà neanche sfiorarmi. Come abbiamo accennato, le caste degenereranno in India; qualcosa di analogo accade nel nostro Medioevo. Anche qui, troviamo una società strutturata in qualcosa di simile ad un Sistema castale; queste “caste” divengono, ad un certo punto della nostra storia,“classi” dal carattere umano, che si trasformano infine in veri e propri templi dell’ingiustizia sociale, sino ad arrivare a noi prive del loro carattere iniziatico, e quindi identitario, come già detto.
La cosidetta “Crisi del mondo moderno” deriva quindi da questo: una quasi totale Perdita di identità consequenziale al fatto che si sia perso il ponte tra Dio e l’uomo. L’uomo infatti è veramente uomo solo in quanto fatto “ad immagine e somiglianza” di Dio –non per quanto riguarda la sua esteriorità, ci spiega Sant’Agostino, ma per quanto concerne la nostra parte interiore. Più vicini siamo a Dio, più siamo uomini; questo concetto connette infatti in maniera eminente il pensiero tardo antico a quello protocristiano.
Quali sono quindi, le pericolosità collaterali a questa sconnessione con il Divino? Innanzitutto la progressiva e inesorabile sfaldatura del nostro senso di comunità. La logica è qui di rigorosa: se io non sono connesso alle Realtà Superiori, non possiedo i fondamentali metafisici; non avendo questi, la mia formazione diviene“orizzontale” e non ha più carattere identitario; non avendo carattere identitario non posso riconoscermi nei valori di chi mi sta a fianco, perchè non ne possiedo io stesso. Qui la discussione potrebbe aprirsi circa il significato del termine “valore”; ripetiamo che non ci riferiamo a simulacri di valori, ma ai valori metafisici esistenti dall’ unico punto di vista che viene preso in considerazione in questa sede: quello Sacro (netta distinzione tra assoluto e relativo; sacralità dell’essere umano; fede nel mondo ultrasensibile; eternità dell’anima e suo approdo ultraterreno).
Dovessimo applicare il discorso identitario alla politica, ci renderemo presto conto che molto spesso essa abbia tentato nella storia dell’occidente degli ultimi decenni di restaurare un forte e rinnovato senso comunitario-identitario, spesso producendo effetti incontrollabili (si pensi ai nostri anni di piombo). Tuttavia la politica non è riuscita a fermare il declino spirituale del mondo moderno (non era questo il suo compito), anzi è stata parte integrante del processo, non riuscendo neanche a offrire apprezzabili cambiamenti sociali verso di una giustizia più “umana” che “divina”.
In ultima analisi, cosa deve aspettarsi l’Uomo post-identitario? Con congruenza quasi sinistra, tutti i Testi Sacri e tutte le tradizioni orali ci suggeriscono: l’autodistruzione. È quindi possibile una risalita dell’umanità dalle profanità del Khali Yuga, un recupero della nostra dignità spirituale, della nostra identità? Le suddette tradizioni si esprimono altrettanto chiaramente anche su questo: una redenzione è non solo possibile ma necessaria; tuttavia essa non ha radici interne all’umanità stessa. Esse ci informano circa un intervento divino da declinare in senso messianico.
Kalki, il dio vedico che si mostrerà all’umanità dotato di una simbolica testa di cavallo bianco, metterà fine al Khali Juga; nell’Islam è Cristo stesso che torna con il compito di mettere fine al regno dell’anticristo che viene immaginato orbo e dotato di una scritta blasfema sulla fronte. Nella nostra Apocalisse si parla di un simile scontro finale, idealmente situato nella piana di Aram, quella che conosciamo come Armageddon.
Vi è quindi, un senso di inevitabilità che coinvolge (o sconvolge?) questo periodo storico. Cosa ci permette quindi di far fronte a tale inevitabilità come credenti, come coloro che sono chiamati a sacralizzare loro stessi e le loro vita più che mai? “Io vi voglio un popolo di sacerdoti”, dice il Signore a tutto l’Israele riunito. L’unica torcia in questo periodo di buio spirituale è quella della “retta coscienza”, che come già detto non è unicamente intesa in senso morale ma va a collocarsi al di sopra dei codici; è una scelta di amore superiore alle leggi, che le trascende. I riflessi del nostro comportamento interiore saranno intorno a noi. l’agire in controtendenza è una caratteristica tipica dell’intellettuale; restaurare la verità è il suo dovere Massimo.
Molti, in ambito Cristiano, hanno detto sin dagli inizi del ‘900 che nessuno avrebbe potuto permettersi di essere mediocre, nei tempi ultimi. Da allora questo concetto torna un po’ come una chiamata alle armi, un po’ come un estremo campanello d’allarme.
La conclusione è proprio questa: la scelta sarà infine, individuale. Una minoranza porterà lo stendardo della verità tentandone la globale restaurazione sino alla fine. Ci dicono i Testi sacri, includendo la nostra Apocalisse di Giovanni: sino al martirio. Per quanto tutto questo possa parerci negativo visto con un’ottica umana, ricordiamo a noi stessi: un nuovo mondo ci attende dopo questa età, simile all’età dell’oro, con un uomo totalmente confermato nella sua redenzione, a Dio vicino e a Dio simile. Con questa positività nella mente e nel cuore possiamo quindi guardare al futuro con occhi diversi e con l’ottimismo tipico di chi ha scelto di credere in un mondo che ha smesso di credere.
Elias G. Fiore per Policlic.it