Alla ricerca dei maestri perduti
Un lavoro qualunque per gente qualunque? Scriveva George Orwell che per vedere quello che abbiamo davanti al naso serve uno sforzo costante. Uno sforzo che la nostra società ha sostituito con l’avere, principio anestetico della coscienza moderna, votato all’efficientismo dell’utile e alla massimizzazione del profitto. Le recenti celebrazioni per il Primo Maggio, festa dei lavoratori, hanno posto in evidenza le annuali criticità di cui soffre il nostro Paese in materia di prevenzione e sicurezza sul posto di lavoro, mancanza di salari adeguati, precarietà e disoccupazione, ma hanno lasciato indietro un tema ben più importante: il lavoratore come persona, il cui valore aggiunto risiede nell’incarnazione della propria vocazione spirituale, civile e sociale.
È oramai tacito il pensiero secondo il quale, ai tempi dell’austerity e della crisi, si debba accordare priorità assoluta al lavoro, qualunque esso sia, purché garantisca un’uscita graduale dai bisogni materiali, necessari e non, e offra all’interessato la possibilità di tirare a campare, mentre la sua anima repressa incalza e diviene materia di discussione per medici specialisti e farmacisti. Un sistema da polli in batteria, ove il lavoro si staglia all’orizzonte come uno spaventoso monolite di piombo e ferro che sovrasta la coscienza individuale e, quel che è peggio, le impone un umiliante, disumano e liberticida giù la testa.
In altre parole, il lavoratore deve essere esclusivamente produttivo e può discutere in merito alla produttività medesima, nonché alle modalità di somministrazione del lavoro, nella misura in cui le sue idee non siano d’intralcio al meccanismo di produzione, prima cioè che esse diventino materia di discussione seria sullo stato di precarietà esistenziale cui si condanna la persona, una volta che si sia sgomberato il campo da ogni residuo di Anima.
Così fanno sorridere i concertoni, le folle urlanti nelle piazze, i giovani a cavalluccio gli uni sugli altri con striscioni e bandiere al seguito, gli slogan urlati dai palchi, la politica che tuona dai luoghi degli eventi commemorativi, dalle segreterie di partito o sulle bacheche dei social network, agitando lo sdegno, denunciando il sopruso, additando la corruzione e la malavita. Una ventata di perbenismo collettivo di cui non resta traccia il giorno dopo, proprio come l’Uomo che s’avvia a scomparire dall’orizzonte metafisico della Storia per tornare a farsi schiavo di una quotidianità informe, depredata di scopi che esulino dal salario, dallo svago e dall’immediato soddisfacimento dei propri istinti. Scrisse profeticamente Aldous Huxley nell’ormai lontano 1932:
“Ma la civiltà industriale è possibile soltanto quando non ci sia rinuncia. Concedersi tutto sino ai limiti estremi dell’igiene e delle leggi economiche […]. La civiltà non ha assolutamente bisogno di nobiltà e di eroismo. Queste cose sono sintomi d’insufficienza politica. In una società convenientemente organizzata come la nostra nessuno ha delle occasioni di essere nobile ed eroico […] siete condizionati in modo tale che non potete astenervi dal fare ciò che dovete fare. E ciò che dovete fare è, nell’insieme, così gradevole, un tal numero d’impulsi naturali sono lasciati liberi di sfogarsi, che veramente non ci sono tentazioni alle quali resistere” [1]
Non viviamo noi, oggi, la difficoltà di ricondurre l’Uomo alla consapevolezza del posto che occupa in società, posto rispondente alla sua vocazione? Il lavoro manca o scarseggia? Bene, allora chiunque potrà svolgere qualsiasi tipo di lavoro, in ragione del fatto che la persona non viene più educata alla scoperta del proprio talento. Chiunque può essere dato in pasto al mercato, indipendentemente dalla propria personalità, purché lo si reputi idoneo allo svolgimento della mansione richiesta.
In altre parole, sempre più di frequente, il lavoratore serve al mercato del lavoro, non viceversa, se non per ovvie esigenze economiche o di curriculum. Ci si trova così di fronte a una miriade di giovani (e meno giovani) costretta, per necessità, ad abbracciare professioni che recidono ogni legame con la personalità profonda, perturbano e annichiliscono emotivamente, logorano psicologicamente, ma, quel che è peggio, allontanano dall’interiorità, distogliendola dalla comprensione della propria natura superiore; dal lavoro considerato nella sua accezione qualitativa, iniziatica. È quanto posto in rilievo da René Guénon, a proposito della nozione indù di swadharma:
”nozione essa stessa tutta qualitativa, in quanto riguarda lo svolgimento da parte di ciascun essere di un’attività conforme alla sua essenza o alla sua natura propria, e per ciò stesso eminentemente conforme alla sua essenza o alla sua natura propria […]; ed è mediante questa stessa nozione, o meglio per la sua assenza, che si evidenzia nettamente il difetto della concezione profana e moderna. Secondo quest’ultima un uomo può dedicarsi ad una professione qualsiasi, ed anche cambiarla a suo piacimento, come se questa professione fosse qualcosa di puramente esteriore a lui, senza alcun reale legame con ciò che egli veramente è, cioè con ciò che lo fa essere se stesso e non un altro. Nella concezione tradizionale, al contrario, ciascuno deve normalmente svolgere la funzione cui è destinato dalla sua stessa natura, con le attitudini che questa essenzialmente implica; e non può svolgerne un’altra, senza che ciò rappresenti un grave disordine che avrà una ripercussione su tutta l’organizzazione sociale di cui egli fa parte” [2]
Ora, è evidente che il dibattito pubblico odierno, anno dopo anno, continui a ignorare tali pressanti interrogativi, e anzi verrebbe da chiedersi se il problema sia mai stato posto in questi termini. Sono cioè le qualità essenziali degli esseri a determinare la loro attività, mentre i lavoratori oggi non sono che unità intercambiabili e puramente numeriche. Non solo lavorare è di capitale importanza, occorre altresì comprendere qual è il fine per cui si lavora e in risposta a quale chiamata della propria natura interiore. Il tema della vocazione, infatti, pone un altro problema di rilevanza sociale notevole: chi, oggi, è ancora in grado di scoprire una persona di talento ed è anche disposto a mettersi in gioco, rischiando in prima persona perché questa realizzi la propria chiamata alla vita?
La figura del mentore
La figura del mentore vive una crisi profonda. Il mentore, colui che guida, consiglia, aiuta il giovane o l’inesperto alla conoscenza di se stesso e del proprio talento, intuendone la personalità profonda, dunque il potenziale da risvegliare, è forse una delle peggiori mancanze del nostro tempo. I cosiddetti cervelli in fuga non emigrano esclusivamente per l’assenza di opportunità lavorative a breve o a lungo termine, emigrano soprattutto perché sempre più spesso il loro talento non viene minimamente scorto e le relazioni umane con i diretti superiori sono deleterie e lesive della loro interiorità. Non sarebbe corretto, infatti, esaminare il fenomeno degli expat esclusivamente dalla prospettiva della mancanza di risorse economiche sufficienti a trattenere in Italia coloro i quali, una volta all’estero, finiscono per ricoprire ruoli professionali d’eccellenza.
È giunto il momento di inaugurare una riflessione seria su chi detiene ruoli dirigenziali e di comando, nel settore pubblico come in quello privato, piuttosto che intasare Internet, tv e carta stampata con i desideri, i sogni, le speranze di quanti abbandonano la propria terra per cercare fortuna altrove. Assistiamo, impotenti, a un deterioramento progressivo della qualità del lavoro, poiché deteriori sono divenute anche le coscienze di chi valuta, giudica e pesa da posizioni apicali e di vertice, ove i miti della velocità, dell’efficienza, del fatturato e della produttività hanno soppresso il cammino della virtù, nonché il fine per il quale ci si impegna a divenire uomini migliori. Scrive a tal proposito Aristotele in Etica Nicomachea:
”Non vi sarà la scelta corretta senza saggezza e senza virtù, infatti l’una pone praticamente il fine, l’altra ciò che porta al fine […] vi sono tre generi di attitudine del carattere da cui dobbiamo rifuggire: vizio, mancanza di autocontrollo, bestialità […] riguardo al contrario della bestialità, la cosa più adatta sarebbe parlare di una virtù superiore al nostro livello, virtù in un certo senso eroica e divina” [3]
L’uomo virtuoso, nel nostro caso il mentore, dovrebbe essere superiore, intendo superiore alle sue infide passioni, alle esigenze del mercato e alle logiche del profitto, mirando alla selezione dei migliori. Non necessariamente i più esperti, titolati e referenziati, ma coloro i quali danno prova di possedere un’anima, una luce che brilla al di sopra degli ambienti e dei contesti, per ragioni che comunicano verticalmente con il risveglio della coscienza.
Del resto nell’Antichità, sino al Medioevo e Rinascimento, godeva di ottima reputazione la figura del maestro, il solo che potesse conoscere i segreti di un’arte o di una disciplina e che potesse trasmetterli al neofita, tenendo presenti l’apprendimento di una dottrina, di un’arte o di un mestiere che si configurassero quali esiti naturali della personalità del discente. Tale quadro, permeato dei rapporti tra maestro e discepolo, andava ad inscriversi entro la cornice di un ordine sociale, civile e morale che influenzava positivamente la vita della civitas.
Il lavoro come espressione di una vocazione: il destino dell’anima
Un saggio di notevole rilevanza, intitolato Il codice dell’anima, dello psicologo di formazione junghiana James Hillman, enuclea la cosiddetta teoria della ghianda. La ghianda altro non è se non l’immagine dell’anima nel cuore, con un preciso destino da compiere: manifestarsi al mondo e operare in esso conformemente alla propria natura superiore. Per i latini era il genius, per i greci il daimon, per i cristiani l’angelo custode. Si tratta, più precisamente, del concetto di vocazione, destino, carattere, immagine innata:
“le cose che, insieme, sostanziano la teoria della ghianda, l’idea, cioè, che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta”. [4]
Questa la domanda che dovremmo porci: esistono aziende, istituzioni pubbliche o private, compagini politiche che si confrontino, oggi, sul tema del lavoro quale vocazione personale? Questo chiedere, da parte della ghianda, di autenticarsi nel mondo, troverà un mentore che ne esaudirà le richieste, che rischierà in prima persona affinché il talento non resti nascosto? Esistono ancora datori di lavoro, manager, imprenditori, industriali disposti a scommettere sulla persona del candidato, prima ancora che sulla risorsa umana, termine algido che vuol dire tutto e non vuol dire niente?
Per non fare la fine dei polli in batteria, secondo il principio che ho espresso in precedenza, occorre che la società inizi a muoversi nella direzione di un incontro fra il talento del singolo e l’opportunità che può essergli concessa, al di là delle legittime valutazioni di partenza: età, referenze, esperienza, sgravi fiscali, tasse e contributi. La ghianda ha bisogno di un mentore (genitore, amico, conoscente), di colui che scorga qualcosa di essenziale, la percepisca con gli occhi del cuore e chiami una persona, esattamente quella e nessun’altra, a realizzare il proprio singolare destino:
“Per quanto tempo abbiamo vagato alla disperata ricerca di qualcuno che sapesse vederci davvero, che ci dicesse chi siamo”. [5]
Conclusioni
Il maestro iniziatore, l’uomo di luce, la paternità spirituale, sono concetti ormai caduti in disuso. Nella Repubblica, Platone concepì la salute dell’anima e della città in termini armonici e complementari: psyche e polis dovevano corrispondersi in funzione terapeutica, pertanto la città “giusta” sarebbe dovuta essere “quella in cui ognuno dei gruppi in cui il corpo dei cittadini è diviso secondo le rispettive capacità naturali (confermate dal processo educativo) svolga ordinatamente la propria funzione (oikeiopragia)” [6], secondo la nota ripartizione della società civile in governanti (filosofi), guerrieri e ceti produttivi (necessari alla sopravvivenza della comunità nel suo insieme).
Oggi, al contrario, ci muoviamo nel segno del regno della quantità e invertire la rotta sembra essere operazione folle, quasi disperata. Potrebbe rivelarsi invece una testimonianza di vita e di speranza, il coraggio di tornare a credere nella paternità dei gesti, delle intenzioni e delle azioni che ne conseguono:
“Finché giudicheremo le persone in base alla loro capacità salariale o a una specifica competenza, non vedremo il loro carattere […] Essere o non essere la mia vocazione: sempre e ogni volta, questa è la domanda” [7]
Finché non supereremo, anche solo in linea teorica, la dicotomia tra lavoro esteriore e lavoro interiore, finché non sarà quest’ultimo a muovere verso il primo, creandolo prima nell’immaginazione, poi nei fatti, continueremo a misurarci sulle frequenze di un dibattito meramente orizzontale, sterile come sterili appaiono tutti i discorsi che oggi si vogliono prepotentemente pragmatici. Per contro occorre rivendicare il primato della teoria sull’azione, del retto pensare in vista del retto agire, risucchiati non già dai sussulti momentanei delle ideologie dominanti, ma animati dal sicuro porto della coscienza, là dove ci si apre alla dimensione verticale della Vita, nell’irriducibile libertà di ciò che ancora non siamo, e che saremo solamente a patto di non tradire l’irresistibile richiamo della nostra anima.
Pietro Chessa per Policlic.it
Note
[1] A. Huxley, Il nuovo mondo, Mondadori, Milano, 2012, pp. 211-212
[2] R. Guénon, Il regno della quantità e i segni dei tempi, Adelphi, Milano, 2001, p. 61
[3] Aristotele, Etica Nicomachea, VI-VII, 1145a (trad. Natali)
[4] J. Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi, Milano, 2018, p. 21
[5] Ibid., p. 208
[6] M. Vegetti, Introduzione, in Platone, Repubblica, Laterza, Bari, 2001, p. XIII
[7] J. Hillman, op. cit., p. 316 e p. 266