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Introduzione
L’età giolittiana fu per l’Italia un periodo di intenso sviluppo economico e, soprattutto, industriale. La crescita, tra il 1896 e il 1913 (con un rallentamento nel biennio 1907-08 a seguito di una crisi economica internazionale), coinvolse tutti i settori economici e il tasso di crescita fu il più alto mai registrato nell’Italia liberale: in questo periodo il saggio dello sviluppo industriale fu dell’8%[1].
Fu tra la fine dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale che per la prima volta si svilupparono in Italia in maniera preponderante i settori industriali moderni, come siderurgia, meccanica e chimica.
In questo articolo si analizzano i fattori che hanno favorito il take off industriale italiano nel primo quindicennio del XX secolo.
Crescita demografica, crescita dell’agricoltura e istruzione
Tra i fattori principali che consentirono lo sviluppo industriale ci furono la crescita demografica e l’aumento della popolazione urbana. Sebbene l’industrializzazione attirò le persone nelle città, il processo di urbanizzazione era già in corso e in qualche modo favorì lo sviluppo ampliando il mercato e stimolando un miglioramento delle infrastrutture e dei servizi pubblici. Tra il 1887 e il 1914, ad esempio, il numero degli uffici postali raddoppiarono e quello degli uffici telegrafici triplicarono [2]. Inoltre, per le industrie, diveniva più facile reperire la manodopera[3].
Altro fattore che favorì l’industria italiana fu la crescita dell’agricoltura, che non solo riuscì a sostenere una popolazione in aumento, ma consentì anche un buon flusso di esportazioni (soprattutto di latticini, formaggi e prodotti suini), garantendo il pareggio della bilancia commerciale per la componente agricolo-alimentare[4]. Inoltre, l’agricoltura incentivò la nascita di industrie rurali per la lavorazione di vari prodotti, l’ampiamento dei mercati, la fioritura di talenti imprenditoriali, l’accumulazione di capitali; offrì all’industria manodopera a basso costo[5] e stimolò, per l’esigenza di concimi e macchinari, la produzione nazionale di beni dell’industria chimica e meccanica, pur rimanendo le loro quote di importazione non trascurabili[6].
Importante fu anche il ridursi dell’analfabetismo tra il 1861 e il 1914. Secondo la teoria di Bowman e Anderson, per consentire l’avvio di un processo di sviluppo economico, almeno il 40% della popolazione deve saper leggere e scrivere; in presenza di una larga maggioranza della popolazione analfabeta non basterebbe, infatti, una élite molto ben istruita[7].
Al momento dell’Unità la situazione in Italia era molto complicata, con i tre quarti della popolazione analfabeta. Se però al Nord questa percentuale si riduceva fino quasi al 50%, nelle regioni del Mezzogiorno si toccavano punte che sfioravano il 90%[8]. La legge Casati, promulgata nel 1859 e poi estesa a tutta Italia, aveva previsto l’istituzione di una scuola elementare gratuita e obbligatoria per due anni e la creazione di due percorsi per gli studi tecnici[9]. Questa legge, fino al 1911 fu modificata soltanto in maniera minima con l’aumento del periodo di obbligatorietà per la scuola elementare da due a tre anni, voluto nel 1877 dal ministro Coppino[10]. Nel 1911, poi, con la legge Daneo-Credaro, lo Stato avocò a sé l’onere della gestione della scuola elementare, togliendolo ai comuni. Intanto, la spesa destinata all’istruzione era aumentata dal 2,3% sulla spesa pubblica totale del 1866, all’8,7% del 1912[11].
Nei primi cinquant’anni post-unitari, la lotta all’analfabetismo diede buoni risultati. Il tasso di alfabetizzazione passò dal 25% del 1861, al 62% del 1911[12], con differenze regionali tutt’altro che trascurabili: se nelle regioni del cosiddetto triangolo industriale la percentuale di analfabetismo si aggirava attorno al 15%, nelle regioni del Sud era ancora vicina al 60%[13]. Non sembra dunque frutto di un caso che proprio nelle regioni con un più alto tasso di alfabetizzazione si sarebbe concentrata la maggior parte dello sviluppo economico.
Meno importante appare, per la crescita di questo periodo, l’istruzione superiore[14] così come l’istruzione universitaria. Infatti, l’élite che poteva permettersi di mandare i figli all’università rimase sostanzialmente la stessa. Esistevano anche in questo campo differenze regionali significative nella scelta delle carriere: nel Mezzogiorno, infatti, continuarono a prevalere gli studi giuridici o medici, mentre al Nord si erano ormai diffusi gli studi di chimica, ingegneria e scienze[15]. In particolar modo, tra il 1900 e il 1914 gli studenti delle facoltà di ingegneria aumentarono costantemente e la loro percentuale sul numero degli studenti universitari totali passò dal 10% di inizio secolo, al 23,2% nel 1914[16].
L’emigrazione, la nuova classe imprenditoriale, gli investimenti e i capitali stranieri
Tra i fenomeni che ebbero conseguenze positive sullo sviluppo economico del Paese vi fu l’emigrazione, che assunse nell’età giolittiana dimensioni imponenti: ogni anno oltre 600.000 persone lasciarono l’Italia[17]. L’emigrazione anzitutto alleggerì il peso demografico, facendo acquisire maggiore forza contrattuale a chi rimaneva in Italia, consentendo un aumento dei salari[18]. Effetto ancora più consistente fu quello dovuto alle rimesse degli emigrati. Queste spinsero la domanda interna, poiché aumentarono capacità di spesa e di risparmio delle famiglie[19], ma soprattutto favorì il mantenimento in attivo della bilancia dei pagamenti consentendo all’Italia di far fronte alle importazioni di materie prime e beni strumentali necessari per lo sviluppo industriale[20]. L’emigrazione, infine, ebbe un ulteriore effetto positivo grazie ai migranti di ritorno, cioè quelle persone che tornate dall’estero portavano con sé nuove mentalità, nuove esperienze e nuove conoscenze[21].
A contribuire allo sviluppo industriale ci fu anche la comparsa di una nuova classe imprenditoriale più dinamica rispetto a quella ottocentesca, formata da “più fresche e solide energie produttive”[22]. Tra questi nuovi imprenditori vi erano quelli che provenivano dall’artigianato, come i Borsalino, i Rivetti e gli Zenga; i tecnici e i dirigenti provenienti dall’estero; i rampolli dell’aristocrazia settentrionale, come i Visconti o gli Agnelli. In tutti i casi era evidente la distanza dagli imprenditori del secolo precedente (Orlando, Florio, Rossi e Crespi per citarne alcuni[23]), animati da uno spirito paternalistico assente nella nuova classe. Cambiarono anche i settori che riscuotevano maggiore interesse: il tessile e la siderurgia vennero sostituiti dalla chimica, dal cemento, dalla gomma, dal settore automobilistico, dalla meccanica di precisione[24]. Desiderio dei nuovi industriali era imporre un sistema economico basato sul settore secondario come modello alternativo alla società rurale[25], e i principi di cui erano fautori erano quelli tipici del capitalismo: etica del profitto, individualismo, fiducia nella tecnologia e nel progresso, attenzione alle innovazioni[26]. Molti di questi imprenditori avevano viaggiato all’estero e avevano tratto utili conoscenze: Olivetti, ad esempio, negli Stati Uniti capì quanto fosse importante una mentalità anticonservatrice della classe dirigente per lo sviluppo industriale; in America, Giovanni Agnelli subì il fascino del fordismo e del taylorismo[27].
In questo periodo gli investimenti lordi non solo aumentarono – dai 1.204 milioni di lire del 1899 ai 3.987 milioni del 1913, con un volume che risultò, dunque, più che triplicato[28] – ma cambiò la loro destinazione: si ridusse, infatti, la quota destinata ad abitazioni e opere pubbliche, mentre aumentò quella diretta a impianti e attrezzature produttive[29].
Sebbene l’Italia fosse in grado di attirare i capitali stranieri, non ci sono dati sufficienti per poter fare una stima esatta della loro quantità presente in Italia. Un tentativo è stata fatto da Stringher[30], che ne stimò, al 1909, per un valore di 2 miliardi di lire[31], provenienti da Francia, Germania, Svizzera, Belgio e Gran Bretagna[32]. Stringher ha anche cercato di capire in quali settori questi capitali furono impiegati: secondo le sue analisi, il 34% era investito in ferrovie e tramvie, il 14% nel gas illuminante, il 13% negli acquedotti, il 7% in società di assicurazione e altrettanto in società di navigazione, e solo il 12% in miniere e altre industrie[33]. D’altra parte, il capitale straniero rappresentava solo il 7% del totale del capitale fisso e circolante investito in industria e servizi[34], una percentuale modesta e probabilmente non fondamentale per lo sviluppo, ma comunque rivolta a importanti settori strategici[35].
Il ruolo dello Stato: politica economica, ristrutturazione del sistema bancario e potenziamento della rete ferroviaria
Anche l’azione dei governi giolittiani favorì lo sviluppo industriale. Anzitutto la buona salute dei conti pubblici italiani alleggerì la domanda di capitali da parte dello Stato e liberò le banche di emissione dall’onere di fornire anticipazioni al Tesoro. Inoltre, essa consentì una diminuzione dei tassi di interesse sul debito pubblico, spinse a investire non solo in cartelle di rendita e favorì l’abbassamento del tasso di sconto[36]. La solida situazione finanziaria permise anche, durante il terzo governo Giolitti, la conversione della rendita, dal 5% al 3,75%, fino al 3,5% nel 1912[37], e portò un apprezzamento della lira tale da portare la moneta italiana a fare aggio sull’oro[38]. Ebbe poi una certa importanza la svolta protezionistica del 1887: l’imposizione della tariffa doganale, di lì in poi solo marginalmente rivista, aiutò sicuramente la crescita industriale[39].
Alla fine dell’Ottocento risale anche la ristrutturazione del settore bancario, in netta difficoltà dopo la crisi bancaria che causò anche il fallimento della Banca Romana, uno dei sei istituti di emissione del Regno. Con la legge bancaria del 1893, la Banca Nazionale del Regno d’Italia, la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito furono fuse in un unico organismo, la Banca d’Italia, cui fu affidata la liquidazione della Banca Romana; rimanevano come istituti di emissione anche il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia, ma la Banca d’Italia assunse un ruolo decisamente preminente, eliminando di fatto, così, gli svantaggi dovuti alla pluralità bancaria[40].
Occorre anche analizzare l’effetto che le ferrovie ebbero sull’economia italiana. Le ferrovie in Italia al momento dell’Unità erano ancora poche: appena 2.000 chilometri, per lo più situati al Nord. Già nel 1880, però, la rete ferroviaria raggiunse i 9.000 chilometri, a metà degli anni Novanta i 16.000 chilometri – con la costruzione di numerose vie secondarie – fino a raggiungere i 19.000 nel 1913[41].
Nel 1905 il Governo riuscì a far passare una legge per la nazionalizzazione delle ferrovie. Questa era una questione sulla quale la politica italiana discuteva da tempo[42]. Alla fine nel 1885 erano state stipulate delle convenzioni ventennali con delle compagnie private per la gestione della rete ferroviaria, convenzioni che dovevano scadere nel 1905. Al Governo in quel periodo c’era Giovanni Giolitti, che scelse la via della nazionalizzazione. A favore di questa scelta deponevano la pessima prova che i privati avevano dato nella gestione delle ferrovie, ma anche le pressioni degli industriali meccanici italiani, fiduciosi che una gestione statale potesse aumentare la domanda[43]. In realtà, il progetto di legge giolittiano non passò per via dell’opposizione dei ferrovieri riguardo al punto che vietava loro il diritto di sciopero. La questione si risolse con il governo Fortis: il nuovo disegno di legge dava ai ferrovieri la qualifica di pubblici ufficiali, confermando di fatto il divieto di sciopero, ma con pene più tenui per gli scioperanti[44].
Dopo il 1905 i lavori sulle ferrovie cominciarono ad avere dei discreti effetti sull’industria italiana: stimolarono la domanda di beni industriali facendo raddoppiare la produzione di materiale rotabile fettotranviario e dei relativi macchinari[45]. Prima, invece, gli effetti positivi furono abbastanza limitati poiché la maggior parte del materiale non era di produzione nazionale, ma veniva importato dall’estero[46].
Le banche miste
La crisi bancaria di fine Ottocento portò al fallimento anche della Banca Generale e del Credito Mobiliare, i due maggiori istituti di credito mobiliare del primo trentennio postunitario. Il vuoto lasciato nel sistema creditizio italiano fu riempito dalle cosiddette banche miste, che univano all’attività di credito ordinario quella di credito mobiliare a medio e lungo termine[47].
Le banche miste in Italia nacquero soprattutto grazie all’aiuto dei capitali tedeschi. Nel 1894 fu fondata a Milano la Banca Commerciale (Comit), con l’apporto del gruppo tedesco Bleischroder, mentre l’anno successivo a Genova nacque il Credito Italiano (Credit), sempre con l’aiuto di alcune banche tedesche[48]. Altri due istituti già esistenti dagli anni Ottanta dell’Ottocento, il Banco di Roma e la Società Bancaria Italiana di Milano, nei primi anni del Novecento si organizzarono con le strutture e le strategie creditizie proprie delle banche miste[49]. Questi istituti di credito si distinguevano da quelli precedenti sia per il fatto che avevano molti più sportelli attivi sul territorio nazionale, così da poter raccogliere un maggiore risparmio, sia per la maggiore attenzione che dedicavano agli investimenti industriali[50].
Erano però presenti anche degli elementi di continuità tra le nuove banche miste e i vecchi istituti di credito mobiliare: su tutti il fatto che molti degli uomini che ebbero un importante ruolo nella Banca Commerciale e nel Credito Italiano erano gli stessi che avevano gestito la Banca Generale e il Credito Mobiliare[51]. Così, tra gli altri, i tedeschi Otto Joel e Federico Weil, due personalità fondamentali per la Banca Commerciale, avevano già avuto dei ruoli nella Banca Generale e nel Credito Mobiliare. Sotto la loro direzione, la Comit si dedicò anche a investimenti industriali soprattutto nei settori più avanzati, come metallurgia, meccanica ed elettricità, non disdegnando però settori più tradizionali[52]. Il disegno più strategico della Comit fu quello realizzato nel campo elettrico, tramite i forti legami con la Edison di Colombo, ma anche con la Società per lo sviluppo delle imprese elettriche in Italia (Sviluppo) e, dal 1905, con la SADE, assumendo così una posizione decisamente preminente nel settore [53]. La Comit fece inoltre grandi investimenti anche nella siderurgia, specie nell’Elba e nella Terni[54].
Per il Credito Italiano, erano grandi gli interessi nella chimica, negli zuccherifici e nella siderurgia, evidenti in particolare con il finanziamento dell’Elba[55]. Fondamentali per il Credit furono il direttore Enrico Rava e Giovan Battista Pirelli – fondatore, quest’ultimo, dell’omonima azienda produttrice di gomma e cavi che sfruttava la sua conoscenza del mondo industriale sia per procacciare nuovi affari al Credit, sia per offrire consulenza alla banca sul grado di affidabilità di alcuni investimenti[56].
Tra le banche miste, quella che ebbe la vita più travagliata fu la Società Bancaria Italiana (SBI). La SBI disponeva di un giro di affari non selezionati, di una clientela poco sicura e la sua gestione non era in mani prudenti[57]. Fu anche per questi motivi che, allo scoppio della crisi del 1907 si trovò in netta difficoltà. Giunta sull’orlo del fallimento, fu salvata grazie all’intervento della Banca d’Italia, che convinse Comit, Credit e altre banche private a operare il salvataggio[58]. Le difficoltà però continuarono e si cercò di percorrere le vie degli accordi con banche straniere (segnatamente la francese Louis Dreyfus) e quella dell’espansione societaria. Nel 1914 si giunse alla fusione con la Società Italiana di Credito Provinciale dando vita alla Banca Italiana di Sconto[59]. L’impiego di capitali della SBI era più vario rispetto a quello delle altre due banche miste, e in particolare era molto più presente nel settore tessile[60].
Un caso a sé è quello rappresentato dalla quarta grande banca mista italiana, il Banco di Roma. Anzitutto quest’istituto operò al di fuori del Nord Italia, impegnandosi nelle scarse iniziative industriali del Lazio. La sua vera vocazione, però, fu quella di volgersi all’estero con una politica imperialistica[61]. Nel 1904 fu aperta una sede ad Alessandria d’Egitto e da lì in poi il Banco di Roma cercò continuamente di espandersi, soprattutto in Libia. L’ostilità alla penetrazione del Banco e la guerra il Libia provocarono la crisi dell’istituto, il cui salvataggio fu garantito dalle banche cattoliche spinte dal Vaticano, ormai principale azionista del Banco di Roma[62].
Sul contributo che le banche miste diedero al processo di industrializzazione in Italia durante l’età giolittiana si è detto molto. Secondo Gerschenkron, in un Paese dove è difficile reperire capitali, dove vi è diffidenza verso l’industria e sono assenti capacità imprenditoriali, il ruolo delle banche diviene fondamentale. Furono queste, infatti, a fare in modo che si potessero superare molti degli ostacoli che si opponevano all’industrializzazione[63].
La maggior parte degli altri studiosi concordano nel dare alle banche miste un ruolo importante per lo sviluppo italiano, ma non ne fanno il fattore decisivo. A titolo di esempio, Rosario Romeo sostiene che le banche miste furono necessarie allo sviluppo per far confluire i capitali nel settore secondario, cosa che non sarebbe stata possibile senza di esse[64], ma non le considera il fattore principale per il take off italiano[65]. Un discorso simile a quello di Romeo è quello proposto da Castronovo[66] e da Pescosolido[67].
Conclusione
Per quanto importante, lo sviluppo giolittiano non sconvolse completamente gli equilibri economici propri dell’Italia liberale. L’agricoltura rimase l’attività economica principale: se si guarda alla composizione percentuale del PIL per settori di produzione, nel 1913 in testa vi era ancora l’agricoltura con una quota prossima al 40% (dal 48,3% del 1861), mentre il peso dell’industria era del 24% (dal 16,9% del 1861)[68]. Il gap, però, era diminuito.
L’Italia, infatti, riuscì ad afferrare l’occasione rappresentata dalla Seconda rivoluzione industriale, entrando a far parte del novero delle nazioni industrializzate. La crescita del primo quindicennio del Novecento consentì all’Italia di affrontare, e vincere, la Prima guerra mondiale e di porre le basi del processo che porterà al boom economico del secondo dopoguerra.
Emanuele Del Ferraro per www.policlic.it
Note e bibliografia
[1] G. Pescosolido, Agricoltura e industria nell’Italia unita, Nuova Cultura, Roma 2009, p. 23.
[2] G. Pescosolido, Unità nazionale e sviluppo economico in Italia 1750-1913, Nuova Cultura, Roma 2014 p. 217.
[3] V. Castronovo, Storia economica d’Italia, Einaudi, Torino, 2006, p. 113.
[4] Ivi, p. 121.
[5] V. Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia (1861-1990), Il Mulino, Bologna 2003, p. 75.
[6] V. Castronovo, op. cit., p. 116.
[7] V. Zamagni, Istruzione e sviluppo economico, il caso italiano 1861-1913, in Toniolo (a cura di), L’economia italiana 1861-1940, Laterza, Bari 1978, p. 168.
[8] Ivi, p. 140.
[9] M. Vasta, Innovazione tecnologica e capitale umano in Italia (1880-1914), Il Mulino, Bologna 1999, p. 218.
[10] Ibidem.
[11] V. Zamagni, Dalla periferia al centro, cit., p. 210.
[12] M. Vasta, Innovazione tecnologica e capitale umano in Italia, cit., p. 220.
[13] V. Zamagni, Dalla periferia al centro, cit., p. 254.
[14] V. Zamagni, Istruzione e sviluppo economico, cit., p. 174.
[15] V. Zamagni, Dalla periferia al centro, cit., p. 253.
[16] M. Vasta, Innovazione tecnologica e capitale umano in Italia, cit., p. 231.
[17] V. Zamagni, Introduzione alla storia economica d’Italia, Il Mulino, Bologna 2007, p. 52.
[18] J. Cohen, G. Federico, Lo sviluppo economico italiano 1820-1960, Il Mulino, Bologna 2001, p. 37.
[19] Ibidem.
[20] V. Zamagni, Dalla periferia al centro, cit. p. 166.
[21] J. Cohen, G. Federico, Lo sviluppo economico italiano, cit., p. 37.
[22] G. Ruffolo, Un paese troppo lungo. Unità nazionale in pericolo, Einaudi, Torino 2009, p. 154.
[23] Per un quadro sulle imprese italiane nell’Ottocento si veda G. Paoloni, voce Le imprese nel Risorgimento, in Treccani.
[24] V. Castronovo, L’industria italiana dall’Ottocento a oggi, Mondadori, Milano 1980, p. 83.
[25] V. Castronovo, Storia economica d’Italia, cit., p. 133.
[26] V. Castronovo, L’industria italiana dall’Ottocento a oggi, cit., p. 84.
[27]Ivi, pp. 84-85.
[28] S. La Francesca, La politica economica italiana dal 1900 al 1913, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1971, p. 100.
[29] Ivi.
[30] Bonaldo Stringher è stato Direttore della Banca generale d’Italia dal 1900 al 1928, e poi fino al 1930 Governatore (carica che prima non esisteva).
[31] V. Zamagni, Industrializzazione e squilibri regionali in Italia. Bilancio dell’età giolittiana, Il Mulino, Bologna 1978, p. 145.
[32] Ivi, p. 146.
[33] Ivi, p. 145.
[34] Ivi, p. 146.
[35] V. Zamagni, Dalla periferia al centro, cit., p. 168.
[36] G. Pescosolido, Unità nazionale e sviluppo economico, cit., p. 243.
[37] E. Gentile, Le origini dell’Italia contemporanea. L’età giolittiana, Laterza, Roma 2011, p. 131.
[38] La lira deteneva in quel periodo un valore nominale più alto rispetto a quello dell’oro. V. Castronovo, Storia economica d’Italia, cit., p. 127.
[39] S. Pescosolido, Unità nazionale e sviluppo economico, cit., p. 228.
[40] P. Ciocca, Note sulla politica monetaria italiana 1900-1913, in Toniolo (a cura di), L’economia italiana 1861-1940, op. cit., p. 181.
[41] S. Fenoaltea, Le ferrovie e lo sviluppo industriale italiano, in Toniolo (a cura di), L’economia italiana 1861-1940, op. cit., p. 105.
[42] Basti pensare che la cosiddetta “rivoluzione parlamentare” del 1876, cioè la caduta della Destra storica e l’avvento al potere della Sinistra storica, trasse origine proprio da un fallito tentativo di nazionalizzare le ferrovie.
[43]E. Gentile, Le origini dell’Italia contemporanea, op. cit., p. 116.
[44] Ibidem, p. 119.
[45] S. Fenoaltea, L’economia italiana dall’Unità alla Grande Guerra, Laterza, Bari 2006, pp. 197-198.
[46] Gerschenkron è convinto che una delle cause della relativa lentezza dello sviluppo industriale italiano sia da ricercare proprio nei tempi di costruzione della rete ferroviaria, avvenuta troppo presto, quando l’industria italiana ancora non era pronta ad approfittarne. Si veda, a proposito, Castronovo, L’industria italiana dall’Ottocento a oggi, cit., p. 24.
[47] V. Zamagni, Dalla periferia al centro, cit., pp. 190-191.
[48] G. Pescosolido, Unità nazionale e sviluppo economico, cit., p. 235.
[49] Ibidem.
[50] F. Amatori, A. Colli, Impresa e industria in Italia. Dall’Unità a oggi, Marsilio, Venezia 2003, pp. 86-87.
[51] V. Zamagni, Industrializzazione e squilibri regionali, cit., p. 166.
[52] V. Zamagni, Dalla periferia al centro, cit., p. 197.
[53] Ivi, p. 198.
[54] F. Amatori, A. Colli, Impresa e industria in Italia, cit., p. 94.
[55] V. Zamagni, Industrializzazione e squilibri regionali, cit., p. 176.
[56] V. Zamagni, Dalla periferia al centro, cit., p. 199.
[57] Ivi, p. 200.
[58] Ibidem.
[59] Ivi, p. 201.
[60] V. Zamagni, Industrializzazione e squilibri regionali, cit.., p. 177.
[61] V. Zamagni, Dalla periferia al centro, cit., p. 202.
[62] Ivi, p. 203.
[63] A. Gerschenkron, Il problema storico dell’arretratezza economica, Einaudi, Torino 1974, p. 85.
[64] R. Romeo, Breve storia della grande industria in Italia, Cappelli, Bologna, 1974 p. 71.
[65] J. Cohen, G. Federico, Lo sviluppo economico italiano, cit., p. 28.
[66] V. Castronovo, Storia economica d’Italia, cit., p. 128.
[67] G. Pescosolido, Unità nazionale e sviluppo economico, cit., p. 236.
[68] V. Zamagni, Introduzione alla storia economica d’Italia, cit., p. 63.