Felicità e anestesia delle coscienze
L’uomo contemporaneo è ormai uso a concepire la vita interiore alla stregua di un automatismo di circostanza: a ogni azione corrisponde una reazione, efficace e risolutiva. Tale approccio smarrisce la via mediana dell’esercizio, della fatica del cuore, della conoscenza che si fa energia, cioè abito. Chi si applica quotidianamente alla pratica della meditazione sa che l’inganno è sottile: l’orgoglio è sempre dietro l’angolo e offre il pretesto per scambiare la quiete temporanea dei sensi esterni con un salto quantico di coscienza. Chi medita quotidianamente non pensa, non agisce, non intuisce, semplicemente pratica! Che sia un’attività pneumatica di rilassamento psicofisico, ovvero un atto contemplativo e recitativo di lode, ringraziamento, devozione, adorazione, carità o timore verso Dio, in tutti i casi il nostro resterebbe un giudizio fuorviante, frutto di una mente discorsiva e del suo atavico, superfluo chiacchiericcio interiore.
Nei diversi ambiti della vita quotidiana occorrerebbe serbare la medesima, inalterabile visione di cose, creare cioè quello che Aristotele chiama uno stato abituale. Scrive il filosofo: «Chiamo stati abituali quelle cose in base alle quali ci atteggiamo bene o male riguardo alle passioni».[1] Questa l’essenza della virtù: uno stato abituale «per cui un uomo è buono e compie bene la sua opera».[2] Aristotele è consapevole dell’obiezione che gli si può muovere contro: se la gente compie azioni giuste e temperanti, è già giusta e temperante.[3] In verità le azioni virtuose presuppongono il fatto che, una volta accolta la virtù, questa sia tale se «colui che agisce lo fa trovandosi in certe condizioni: prima di tutto se agisce consapevolmente, poi se ha compiuto una scelta e l’atto virtuoso è stato scelto per se stesso, in terzo luogo se agisce con una disposizione salda ed immutabile».[4] In altre parole, l’opera buona e temperante presuppone un’intenzione di pari valore, una specifica consapevolezza.
L’esercizio della virtù si colloca entro la dimensione politica della vita. Del resto il nostro filosofo raccomanda ai governanti la conoscenza dei singoli aspetti inerenti alla dottrina dell’anima, perché essi possano adempiere ai loro uffici avendo come unico fine il bene comune. Il dato certo che emerge dagli studi di filosofia antica – e che noi oggi abbiamo riposto nel cassetto dei ricordi – è che la via alla felicità è una qual certa perfettibilità della comunicazione con la parte migliore di noi stessi. Ciò pone in risalto una sfumatura d’importanza capitale per l’intera economia del nostro discorso: la necessità conduce per direttissima alla vita intellettuale, la cui attività opera un affrancamento dalle modalità d’esistenza, dunque un distacco graduale dalla vita dei sensi. Tale movimento dissolve, gradualmente, le nostre rappresentazioni mentali legate al piacere, allo svago, al possedere, autentiche responsabili del continuo sciabordare dell’anima nelle torbide acque della mondanità. In altre parole, è impossibile disgiungere l’eudaimonia dal corrispettivo cammino ascetico, proprio di ciascuno, mentre è possibilissimo disgiungere la vita intellettuale dalla corrente delle forme, ossia dalle paratie organizzate dell’odierna vita in società.
L’impegno psicofisico che molte persone, oggi, profondono nei corsi di autorealizzazione spirituale conferma l’intrinseca vocazione dell’essere umano all’equilibro, l’armonia, la pace, ma lascia spesso invariata la struttura sociale. Il risultato è che uno stile di vita morigerato, controllato, disciplinato finisce con l’essere parte integrante (sfruttata ad hoc dal Capitale) dell’ingranaggio sistemico, piuttosto che segnare un sostanziale cambio di atteggiamento nella mentalità dei più. Non già una società eudaimonica, ma una società anestetica, in cui i desideri si traducono in consumi, senza alcun avanzamento da questo ai piani superiori dell’essere, permanendo sottotraccia il fine trascendente della contemplazione e della ricerca della verità. Già Plotino osservava: «per coloro che agiscono, la contemplazione è il fine: ciò che essi non hanno potuto raggiungere per la retta via, cercano di afferrarlo girandogli attorno».[5] Il girotondo anestetico impedisce la contemplazione, attività tipicamente intellettuale, benché non possa annichilire in toto l’impulso alla verità. Platone assegnò alla contemplazione una portata spiccatamente politica: la visione del Bene supremo informa l’individuo e l’intera Città. Identica sul piano ermeneutico la sentenza evangelica del servire due padroni: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».[6]
Tali considerazioni paiono suggerire che a nessuno sia possibile condurre una vita all’insegna del benessere senza che questo generi una concreta ricaduta pratica sullo stile di vita, in grado di arrecare del bene al prossimo e alla comunità. È questo il passaggio ineludibile dalla vita contemplativa alla vita attiva, o meglio, dalla Metapolitica alla politica. Senza la prima non può darsi la seconda; senza vita intellettuale non può darsi vita morale. Così accade che l’uomo viva quella che Giovanni Reale ha efficacemente ribattezzato come la mitologia del benessere:
[…] quella che un tempo era chiamata “felicità” dal piano spirituale viene retrocessa a quello materiale e fisico: essa consisterebbe esclusivamente nel poter fruire di beni materiali nel maggior numero possibile, e nel coinvolgimento del maggior numero possibile di persone in tale fruizione.[7]
La parola chiave è, appunto, fruizione: l’uomo d’oggi deve poter fruire di qualsiasi circostanza (politica, professionale, sportiva, affettiva, sociale) per convertire la propria attività in consumi e benessere. Com’è possibile, allora, tenere in gran conto la ricchezza personale e al contempo credere e agire in vista del bene comune? Abbiamo detto che la cifra della contemplazione, vera e unica fonte di una retta prassi politica, è via del distacco, vita di ascesi, da intendersi secondo il carattere proprio di ciascuno. In un mondo sempre più carente di autentici maestri di spirito, brillano se possibile ancora più forte le luci di un insegnamento universale. Un’ascesi che, è utile precisare, non va inquadrata nell’ottica di un rigorismo intransigente, quale rinuncia a tutti i momenti lieti e talvolta leggeri dell’esistenza, ma si configura come orientamento interno, capace di creare uno spazio riservato alla riflessione profonda su tutto ciò che possa definirsi autenticamente giusto, utile, illuminativo nella vita di tutti i giorni. La contemplazione ingentilisce l’animo, ne mitiga le escursioni emotive, lo rende indipendente, per quanto possibile, dall’incubo del tempo che scorre invano e che chiede di essere costantemente consumato, in modo che nessuna delle istanze provocatorie del desiderio venga lasciata indietro. Per noia si commettono, talvolta, le azioni più turpi, riprovevoli e vergognose.
I santi monaci conoscevano bene questo demone, cui diedero il nome di accidia. La noia nasconde sempre un vuoto d’essere, che va trattato con estrema compassione e misericordia, poiché è in grado di portare fuori strada chiunque, anche gli spiriti più progrediti. Evagrio Pontico (345 ca.) definisce l’accidia in questi termini:
[…] una mancanza di tono dell’anima, ma una mancanza di tono che non è secondo natura, e che non sa resistere alle tentazioni […]. L’accidioso prende come pretesto le visite ai malati, ma soddisfa il proprio scopo: è pronto al servizio ma ritiene legge la propria soddisfazione.[8]
Proviamo per un momento ad attualizzare le considerazioni addotte. L’accidia, osserva l’A., non è per natura ma è una atonia, letteralmente una mancanza di tonos, o di sensibilità spirituale, la quale si traduce in un prurito sensibile irrefrenabile, tanto da spingere il monaco fuori dalla propria cella. L’abbandono della custodia e della vigilanza del cuore non è, tuttavia, privo di conseguenze. Il primo e più pericoloso derivato di questo stadio della coscienza è di ritenere legge il soddisfacimento del proprio desiderio. Possiamo concluderne, allora, che l’abbandono della vita intellettuale diventi legge, ossia dittatura del desiderio che si svincola dalle sorti politiche della collettività, operando al di fuori del bene comune, creando di fatto l’odierna società anestetica. Una società del fare, in perenne stato confusionale, che va continuamente sedata mediante, appunto, il soddisfacimento del desiderio.
Già Platone, nel Gorgia, affrontò il problema di una conciliazione tra le passioni e la virtù. Secondo Callicle, interlocutore di Socrate nel dialogo in questione, la sfrenatezza delle passioni, in condizioni a loro favorevoli, avrebbe potuto costituire motivo di virtù e di felicità. Per contro Socrate ribatterà impiegando la metafora dei vasi bucati e consumati:[9] l’anima dissoluta è come se fosse bucata, costretta a riempirsi voracemente giorno e notte, per evitare le più gravi sofferenze, senza mai poter definitivamente colmare la misura del piacere. Viene da chiedersi se, oggi, non sia in corso il tentativo di identificare la felicità con l’anestesia delle coscienze, che pur si reputano tanto sveglie quanto più moltiplicano i loro bisogni, perfettamente disinteressate alla vita politica della collettività. Già, perché chiunque pratichi la virtù fa politica, permanendo in una connessione profonda con i destini della Città.Se non crediamo ai molteplici anestetici del mondo moderno e postmoderno, potremmo pur sempre consultare le statistiche e renderci conto di quanto la civiltà tecnologica e dei consumi impegni le nostre risorse mentali quotidiane in un vortice che blinda l’individualità e la rafforza al punto tale da creare etichette e contrapposizioni d’ogni sorta: sportive, politiche, religiose, sessuali. In altre parole, stiamo contribuendo al trionfo dell’individualismo mediante un eccesso di desiderio, perlopiù di matrice virtuale. Occupare gli spazi liberi della giornata con attività extra-lavorative che muovono contro la dimensione qualitativa del tempo è esattamente l’opposto dell’esercizio della virtù, con le inevitabili conseguenze che un atteggiamento di questo genere comporta riguardo allo stile di vita delle masse.
Secondo il report Digital 2019, chiamato in causa dal sociologo Luca Ricolfi nella sua ultima, illuminante monografia dal titolo La società signorile di massa, gli italiani connessi a Internet sono quasi 55 milioni, ossia nove su dieci, di cui 35 milioni attivi sui social. Nella fascia sedici-sessantaquattro anni il tempo totale di connessione medio è di sei ore al giorno, con un buon 90% impiegato in attività ludiche. Un esito, commenta Ricolfi, «che diventa ancora più tangibile se le cifre precedenti vengono messe a confronto con il tempo di lavoro: in una giornata-tipo, a fronte di circa sei ore su Internet, quasi tre davanti alla TV, il tempo di lavoro medio non raggiunge le tre ore».[10] Naturalmente questo è solamente uno dei tanti aspetti contraddittori della nostra civiltà, secondo la quale lavorare è sempre più sinonimo di monetizzare, mentre non lavorare si traduce in uno svagare l’animo, perlopiù fine a se stesso. Come già posto in evidenza nei contributi precedenti,[11] noi siamo convinti che la crisi economica – o la narrazione che di essa si è fatta, nell’ultimo decennio, attraverso i rotocalchi e gli organi d’informazione – segnali in realtà l’urgenza di un cambio di rotta nel rapporto dell’uomo con la vita. È certo che sottrarre energie al cammino della virtù impedisce un’adeguata presa di consapevolezza dei mali d’oggi, nonché del ruolo che ciascuno di noi riveste nell’economia complessiva dell’universo, secondo la lezione di Seneca e di Marco Aurelio. Tale ruolo non può che essere politico allorché la personalità sia centrata e viva nella sola direzione della propria ragion d’essere, quella dei suoi talenti spirituali.
Torniamo a meditare sull’uso del tempo; facciamolo attraverso la sempre attuale lezione di Seneca:
Fa’ così, caro Lucilio: renditi veramente padrone di te e custodisci con ogni cura quel tempo che finora ti era portato via, o ti sfuggiva […]. Se badi bene, una gran parte della vita ci sfugge nel fare il male, la maggior parte nel non fare nulla, tutta quanta nel fare altro da quello che dovremmo […] Per me non è povero del tutto colui che, per quanto poco gli resti, se lo fa bastare.[12]
Pietro Chessa per Policlic.it
Note bibliografiche:
[1] Aristotele, Etica nicomachea, II, 1105b 25-27 (trad. Natali).
[2] Ivi, 1106a 22-24.
[3] Ivi, 1105a 17-19.
[4] Ibid., 1105a 30-33.
[5] Plotino, Enneadi, III 8,6.
[6] Mt. 6,24.
[7] G. Reale, Saggezza antica. Terapia per i mali dell’uomo d’oggi, Cortina, Milano, 1995, p. 85.
[8] Evagrio Pontico, Gli otto spiriti della malvagità. Sui diversi pensieri della malvagità, Paoline, Milano, 1996, p. 53.
[9] Cfr. Platone, Gorgia, 492c-494b.
[10] L. Ricolfi, La società signorile di massa, La nave di Teseo, Milano, 2019, p. 115. L’A. precisa che il report Digital 2019 non rileva variazioni sostanziali per quanto concerne il tempo passato su Internet per lavoro. Le cosiddette “altre attività”, diverse dallo svago, pesano infatti per appena 28 minuti. Di notevole importanza anche le statistiche e le considerazioni inerenti al consumo di droga (pp. 115-118) e al gioco online (pp. 118-125), la diffusione dei quali può essere fatta rientrare nella rassegna del consumo definito da Ricolfi signorile: «Per società signorile di massa intendo una società opulenta in cui l’economia non cresce più e i cittadini che accedono al surplus senza lavorare sono più numerosi dei cittadini che lavorano» (p. 21).
[11] Si rimanda ai contributi già pubblicati nel presente sito: Il lavoro come vocazione personale e Disoccupazione e filosofia.
[12] Seneca, Lettere a Lucilio, I, BUR, Milano, 2006, pp. 59-61.