Approfondimento giuridico sulle politiche comunitarie
L’immigrazione è argomento caldo, caldissimo, quando mancano circa due mesi alle elezioni europee. È quanto mai opportuno, forse necessario, analizzare in profondità quella che è la visione ideale e le relative politiche approvate e applicate dall’Unione Europea nel corso degli anni, in una materia tanto controversa quanto decisiva per il futuro della stessa Europa.
Se pensiamo a un termine specifico per descrivere tale tematica, quello forse più adatto è “divisiva”. Il tema dell’immigrazione è infatti stato in grado, soprattutto negli ultimi cinque anni, di causare una lacerazione profonda nell’assetto politico di questa Unione Europea, che si inserisce in quella più generale tra sovranisti ed europeisti.
In questo articolo ci proponiamo di ripercorrere le tappe storiche fondamentali della elaborazione dell’attuale assetto giuridico-politico comunitario in tema di immigrazione.
Per l’eliminazione dei controlli alle frontiere: gli accordi di Schengen
Nell’articolo 3 del Trattato sull’Unione Europea possiamo leggere:
L’Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest’ultima.[1]
Dal Trattato si evince chiaramente come la disciplina in questione sia composta da diversi ambiti, riuniti dopo un lungo processo in un unico Titolo, il quinto, strutturato su tre filoni: libertà, sicurezza e giustizia. Quello che interessa in questa sede è il primo, che include la disciplina legata ai visti, all’immigrazione, all’asilo e ai controlli alle frontiere esterne dell’Unione.[2]
Durante il percorso storico dell’integrazione europea gli Stati membri avvertirono, già molti anni fa, l’esigenza di intervento nella materia oggetto di questa analisi. Gli sforzi in questo senso, però, andarono a sbattere contro l’opposizione di alcuni di essi, in particolare del Regno Unito.
Tale opposizione comportò la necessità di agire al di fuori dei Trattati. Il 14 giugno del 1985 i rappresentanti di Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo si riunirono in una città del Lussemburgo meridionale, Schengen, per discutere soprattutto di controlli alle frontiere interne (ma anche di visti, immigrazione e asilo, cooperazione giudiziaria in materia penale, cooperazione di polizia, cooperazione amministrativa). La riunione si concluse con la firma degli Accordi di Schengen che prevedevano l’eliminazione progressiva dei controlli alle frontiere interne e l’introduzione della libertà di circolazione per i cittadini dei Paesi firmatari, di altri Paesi della Comunità e di alcuni Paesi terzi.
Agli accordi fece seguito, il 19 giugno 1990, una Convenzione di applicazione aperta alla firma degli altri Stati della Comunità Europea. Progressivamente aderiranno l’Italia (27 novembre 1990), Portogallo e Spagna (1991), Grecia (1992), Austria (1995), Danimarca, Finlandia e Svezia (1996).
Per l’applicazione della Convenzione ci furono consistenti ritardi. Entrata in vigore nel 1993, infatti, essa fu applicata solo dal 26 marzo del 1995, cinque anni dopo la ratifica. Le cause di tale ritardo si legano ai complessi adempimenti operativi che implica la Convenzione.
Come detto, gli accordi erano stati ratificati al di fuori del sistema dei trattati e vi rimasero fino a quando il Trattato di Amsterdam del 1997 non li introdusse nel sistema stesso. Non vennero però inseriti direttamente nei trattati, a causa della mancata firma di Regno Unito e Irlanda, ma allegati ad essi attraverso il Protocollo n. 2.
Due anni dopo Amsterdam, nel 1999, avvenne l’incorporazione dell’acquis di Schengen nel sistema normativo dell’Unione e quindi nell’acquis comunitario. In questo modo esso è stato imposto a tutti gli Stati che nel corso degli anni hanno aderito all’UE. Inoltre va sottolineato come possano partecipare al sistema di Schengen anche Stati terzi, ed esempi in questo senso sono l’Islanda, il Liechtenstein, la Norvegia e la Svizzera.
Il Trattato di Lisbona del 2009 è stato affiancato da due importanti protocolli, il n. 19 e il n. 22. Il primo, considerando la mancata adesione a Schengen di Regno Unito e Irlanda, permette agli altri Stati membri di avviare una cooperazione rafforzata nelle materie relative all’accordo. La cooperazione rafforzata avviene quando un gruppo di Stati membri decide di realizzare tra di essi, anche se nel quadro dell’UE e quindi attraverso le sue istituzioni, un obiettivo dei Trattati che non può essere conseguito dall’Unione nel suo insieme per mancanza della maggioranza in Consiglio. Questa permette di mandare avanti procedure che altrimenti sarebbero bloccate dal veto di alcuni Stati membri.
Tale protocollo, inoltre, prevede la possibilità per Regno Unito e Irlanda di decidere a seconda dei casi se partecipare o meno a nuove misure basate sull’acquis di Schengen attraverso una procedura definita dallo stesso Protocollo. Per quanto concerne la Danimarca, invece, il protocollo n. 22 le permette di disporre di sei mesi di tempo per decidere se accettare o meno un atto relativo a Schengen. In caso di accettazione dovrà conformarsi all’atto stesso, in caso contrario saranno gli altri Stati membri a dover adottare misure idonee a far fronte a tale mancata partecipazione.
Attualmente l’area Schengen comprende 22 dei 28 (fino a brexit) Paesi UE. L’adesione di Bulgaria, Croazia, Cipro e Romania deve ancora avvenire, per varie ragioni. I Paesi che si candidano per aderire all’Unione Europea, come detto, devono aderire integralmente all’acquis di Schengen, ma i controlli alle frontiere interne dell’Unione vengono aboliti soltanto a conclusione di un processo di valutazione della Commissione, volto a verificare che il Paese appena entrato abbia applicato le misure di accompagnamento idonee per l’abolizione dei controlli alle frontiere interne.[3]
Lo spazio di libertà: controlli alle frontiere, asilo e immigrazione
Quando si parla di immigrazione nell’ambito comunitario, non si può non citare l’articolo 80 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea. Tale articolo, infatti, afferma il principio di solidarietà ed equa ripartizione delle responsabilità. Un principio importantissimo, se pensiamo alla estensione geografica dell’UE e alla conseguente pressione migratoria eterogenea che subiscono i vari Stati europei. Ad esempio, è chiaro che due Paesi come l’Italia e la Grecia, essendo geolocalizzati nel mar Mediterraneo, hanno sostenuto e sostengono tuttora oneri diversi, rispetto ai Paesi continentali, per quanto concerne la gestione dei controlli alle frontiere esterne.
Entrando nello specifico della disciplina sui controlli alle frontiere, va sottolineato che lo stesso TFUE all’art.77 abilita il legislatore comunitario ad adottare le misure necessarie a garantire l’assenza di controlli sulle persone che attraversano le frontiere interne. Nel 2006 è stato adottato un regolamento, definito come codice frontiere Schengen, che ha definitivamente “comunitarizzato” gli accordi sopracitati. Tale regolamento vieta i controlli alle frontiere interne, appunto, e quelli effettuati a 20 km di distanza dalle stesse, a meno che il controllo non venga effettuato a causa di comportamenti particolari delle persone interessate o comunque in situazioni che palesino una minaccia per l’ordine pubblico. I controlli possono essere ripristinati, per un periodo non superiore a trenta giorni, in caso di minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna. Prima dell’eventuale ripristino dei controlli, lo Stato membro deve comunicare la propria intenzione alla Commissione.
Con il regolamento del 2006, che è stato poi sostituito da quello del 2016 del Parlamento Europeo e del Consiglio (sempre relativo al codice frontiere Schengen), è stata disciplinata anche la materia relativa alle frontiere esterne. In particolare, gli Stati membri hanno l’obbligo di localizzare i punti di transito attraverso i quali è possibile oltrepassare le frontiere esterne ed entrare nel territorio dell’UE e di sorvegliarli in modo adeguato. I cittadini di Paesi terzi che vogliono entrare in territorio comunitario dovranno rispondere a determinati requisiti di ingresso. Devono possedere un documento di viaggio valido e un visto; non essere registrati nel Sistema d’informazione integrato Schengen (SIS), una banca dati che archivia informazioni su persone e beni che per qualsivoglia motivo vanno tenuti sotto controllo oppure respinti; non rappresentare una minaccia per l’ordine pubblico, la sicurezza pubblica o le relazioni internazionali di uno degli Stati membri. Devono inoltre dichiarare scopo e condizioni del soggiorno nonché possedere mezzi di sussistenza sufficienti per l’intera durata del soggiorno e per il ritorno nel Paese di provenienza.
Nel caso in cui l’interessato non sia in possesso di tali requisiti, può essere respinto dichiarando la motivazione. È possibile inoltre presentare ricorso in conformità alla legislazione dello Stato che ha respinto il richiedente. Nel caso in cui il richiedente risponda ai requisiti sopracitati, viene apposto un timbro sul suo passaporto in modo da permettere il calcolo del periodo per il quale il soggiorno è consentito.
Come evidenziato in precedenza, sono le autorità di frontiera nazionali che si occupano dei controlli; va inoltre precisato che la responsabilità principale del controllo delle proprie frontiere esterne ricade sugli Stati membri. Tale controllo può però essere effettuato anche attraverso una “gestione integrata”. A tal fine è stata istituita un’apposita agenzia, denominata Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (Frontex), alla quale è affidato il coordinamento dell’azione degli Stati membri nella materia in questione. Più nello specifico, gli ambiti di azione di Frontex sono sette:
- Analisi dei rischi. In questo ambito Frontex si occupa della valutazione dei rischi per la sicurezza delle frontiere e di definire modelli e tendenze dell’immigrazione clandestina e delle attività criminali transfrontaliere (come la tratta di esseri umani).
- Operazioni congiunte. Frontex si occupa di coordinare l’invio di personale che abbia svolto una formazione nel settore in questione, nonché di attrezzature tecniche (aerei, navi, ecc.)
- Risposta rapida. In situazioni di emergenza può capitare che uno o più Paesi sia sottoposto a una pressione migratoria particolarmente intensa. È in questi casi che Frontex coordina l’invio di squadre europee di guardie di frontiera, per cooperare con lo Stato o gli Stati interessati al fine di gestire la situazione emergenziale.
- Ricerca. L’agenzia coordina anche la collaborazione tra esperti del settore dell’immigrazione e mondo della ricerca e dell’industria.
- Formazione. Come detto, il personale di Frontex deve essere formato. In questo ambito si occupa di fissare standard comuni per la formazione delle autorità di frontiera.
- Rimpatri congiunti. Anche se sono i singoli Paesi UE a determinare chi sono i soggetti da rimpatriare, è Frontex che si occupa dell’elaborazione delle miglior pratiche per il rimpatrio di migranti e del coordinamento delle relative operazioni.
- Scambio di informazioni. Come in molti altri settori delle politiche comunitarie, anche in questo è fondamentale lo scambio di informazioni tra le autorità dei vari Stati membri e tra di esse e le istituzioni europee. Frontex si occupa di sviluppare e gestire sistemi di informazione che vengono utilizzati dalle autorità di frontiera.[4]
I cittadini di Paesi terzi che richiedono un soggiorno di breve durata hanno bisogno del rilascio di un visto da parte dello Stato membro al quale viene riconosciuta la competenza dopo la valutazione del luogo e delle modalità di ingresso in UE. Esiste peraltro un elenco di Stati per i quali il visto non è richiesto, contenuto nel regolamento n. 539 del 2001 e formulato attraverso accordi internazionali tra l’UE e i Paesi terzi interessati. Il visto in questione autorizza il soggiorno per un periodo massimo di tre mesi per ogni periodo di sei mesi, a meno che lo straniero non abbia altri requisiti per poter restare in territorio comunitario, come ad esempio in caso di asilo.
L’asilo: il principio di non respingimento e il regolamento di Dublino
Molto attuale è il dibattito sulla politica comune in materia di asilo. I recenti flussi migratori provenienti soprattutto dal nord Africa hanno reso più che mai necessaria un’analisi di quelle che sono le azioni comunitarie in tema di accoglienza dei rifugiati.
A ispirare l’azione comunitaria in questa materia è il cosiddetto principio di non respingimento, invocato dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal Protocollo del 31 gennaio 1967 relativi allo status dei rifugiati. Tale principio, sostanzialmente, vieta l’espulsione o il respingimento di rifugiati e richiedenti asilo verso Paesi in cui la loro vita o la loro libertà sarebbe in pericolo per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un gruppo sociale od opinione politica. Da tale principio discende la disciplina dell’articolo 78 del TFUE che impone all’UE di offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un Paese terzo che necessita di protezione internazionale.
Protezione internazionale che può essere garantita, peraltro, anche a chi non abbia i requisiti per ottenere la qualifica di rifugiato ma che in caso di ritorno nel proprio Paese possa essere sottoposto al rischio effettivo di subire un grave danno. In questo caso parliamo di protezione sussidiaria.
In tema di immigrazione un argomento molto discusso è quello del regolamento di Dublino. Il nome deriva dalla Convenzione del 15 giugno 1990, relativa alla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri delle allora Comunità europee. Nel corso degli anni ci sono state varie riforme, fino ad arrivare all’attuale regolamento n. 604/2013 (Dublino III), secondo il quale a esaminare la domanda di asilo o di protezione sussidiaria deve essere lo Stato in cui il richiedente ha effettuato per la prima volta l’ingresso nel territorio dell’Unione.
Lo scorso 5 giugno si è tenuta a Lussemburgo una riunione tra i ministri dell’interno dell’Unione Europea [3]. Tema dell’incontro era proprio la riforma del tanto discusso regolamento n. 604/2013, più precisamente il sistema di ripartizione e delle quote di accoglienza di migranti per ciascun Stato membro. Risultato: nulla di fatto. A tre anni dall’inizio della cosiddetta “crisi dei rifugiati” in Europa, gli Stati membri non sono ancora riusciti a trovare un accordo per riformare il sistema di Dublino e le prospettive, anche in vista delle prossime elezioni europee, non promettono nulla di buono.
Federico Paolini per Policlic.it
FONTI:
[1] Carlo Curti Gialdino (a cura di), Codice breve dell’Unione Europea, Napoli, Edizioni Giuridiche Simone, 2017.
[2] Antonio Tizzano, Roberto Adam, Manuale di diritto dell’Unione Europea, Torino, Giappichelli Editore, 2017.
[3] Annalisa Camilli, La riforma del regolamento di Dublino verso il fallimento, ultimo aggiornamento 5 giugno 2018.