Lungi dalla via del tramonto, gli Iron Maiden, intraprendono la via dell’eternità, regalando al pubblico un prodotto che supera di molto le aspettative (già altissime). La maturità musicale, palesata dai tempi di “Brave new world”, permette a questi “monumenti” della musica mondiale di continuare a regalare Forti Emozioni. Pare, inoltre, che non abbiano nessuna intenzione di porre fine alla loro sublime carriera, a testimoniarlo la felice dichiarazione di Bruce subito dopo l’uscita di “The book of souls”: “spero che questo non sia l’ultimo album”.
È un album differente dai precedenti sotto molti punti di vista: il lavoro si compone di due dischi (novità assoluta per un album studio dei Maiden), include il pezzo più longevo della loro carriera (empire of the clouds) e soprattutto può vantare diverse penne nella scrittura dei testi. Infatti, in quest’album, sotto la costante e imprescindibile supervisione del “Vate” Steve Harris, si son cimentati nel complesso mondo della scrittura anche i restanti componenti del gruppo, generando così una pluralità di argomenti e di melodie. Inutile dire che la strabiliante verve compositiva portata in dote da Bruce Dickinson, dopo le riuscite esperienze da solista, è il vero valore aggiunto per la band (come se il valore non fosse già altissimo!).
Album, questo, particolarmente atteso anche per via della gravosa esperienza vissuta pochi mesi or sono dal Front-Man del gruppo che ha combattuto, vincendo, con un tumore alla lingua. Fortunatamente quest’episodio non ha avuto nessuna ripercussione sulle qualità canore che da sempre lo contraddistinguono.
If eternity should fail apre le danze e lascia intendere che sarà un album interessante e ricco di colpi di scena soprattutto perché a terminare la canzone è un monologo di un “individuo” che, con voce lugubre, si presenta come Necropoli. Segue il singolo speed of light rilasciato dalla band con largo anticipo e che a mio avviso, pur non essendo una “canzonetta”, non rende onore al prosieguo dell’opera. The great unknown, cavalcata metal in stile “brave new world”, registrata con la tecnica della presa diretta ricorda a tutti che lo style dei Maiden è oramai un marchio di fabbrica. Si giunge finalmente alla più controversa (secondo molti critici) song dell’album: The red and the black. Una finestra dalla durata di oltre tredici minuti che per atmosfera, sonorità e “colori” richiama alla mente le esperienze vissute nel suo non troppo lontano parente “dance of death”. Ascoltanto l’intro di When the river runs deep, la mente viaggia indietro nel tempo, sino ad imbattersi nel futurismo di “somwhere in time”. The book of souls, la title track, si apre con un arpeggio “western” sicuramente pensato e generato della mente di Gers che, insieme a Harris, detiene la paternità di questa creatura di oltre dieci minuti saturi di riff e assoli in pieno stile Maiden.
A dare il via alla seconda parte del lavoro è la bellicosa death or glory, un ibrido tra una ritmica blues e le chitarre scuola NWOBHM. In Shadows of the valley, viene magistralmente creata un’atmosfera adatta al difficile tema trattato, facendo riferimento, a mio avviso, anche alla decima piaga dell’Egitto ai tempi di Mosè. In un “concept album” sulla morte non poteva mancare l’omaggio ad un artista che, con un gesto fatale, ha privato il mondo di una figura da sempre simbolo di altruismo e filantropia. L’artista è Robin Williams e la canzone in questione è Tears of a clown (pare che le chitarre, attraverso gli assoli, suonino la marcia funebre: Brividi!). The man of sorrows, che ai più attenti ricorderà il nome di un bellissimo brano del quarto lavoro di Dickinson solista, è, invece, la trasposizione dell’insegnamento cattolico in musica. Riesce facile pensare che l’uomo dei dolori sia proprio lui: il figlio di Dio.
Tutto sommato, sin qui, si può parlare di ordinaria amministrazione per il gruppo che ha condizionato il modo di pensare alla musica metal. La novità assoluta è racchiusa in quel gioiello di diciotto minuti che è empire of the clouds. Un numero indefinito di strumenti musicali uniscono la loro “voce” per trasmettere quello che difficilmente si può tradurre in parola. La cura per i particolari e l’attenta successione delle parti regalano un crescendo di emozioni costante che, una volta terminato, permette di mettere un punto alla seguente affermazione: gli Iron Maiden sono il miglior gruppo metal di sempre.