Questo articolo è estratto dalla rivista Policlic n. 1 pubblicata il 27 maggio.
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Maggio è in qualche modo il mese simbolo dello Stato che non china la testa dinanzi alla forza mafiosa. Il 18 maggio nasce Giovanni Falcone, il giudice istruttore del più grande processo alla mafia. Un magistrato che per portare a compimento i suoi sforzi ha dovuto resistere ai dardi infuocati che fendevano l’aria del Palazzo dei Veleni di Palermo, come fu rinominato il tribunale di giustizia. Attacchi, sia ben chiaro, provenienti non solo dalla mafia ma anche dalla magistratura stessa e da parti dello Stato. Il 23 maggio 1992 Giovanni Falcone muore dopo la deflagrazione di 500 kg di tritolo sulla A29, immediatamente prima dello svincolo per Capaci. Insieme a lui, la sua amata moglie, magistrato anche lei: Francesca Morvillo. Deceduti anche i suoi ragazzi – perché di ragazzi si trattava – della scorta Savona Quindici. Un maggio denso di significati, di memoria che deve spingerci a una rinnovata consapevolezza della crudeltà e pervasività delle mafie, pronte a sfruttare la crisi economica causata dal coronavirus per sostituirsi allo Stato, per “soccorrere” attraverso un “sostegno interessato” quegli imprenditori in difficoltà.
Di mafia non si parla mai abbastanza. Quando se ne parla, spesso lo si fa a sproposito. L’emergenza Coronavirus ha posto, con rinnovata urgenza, il problema della criminalità organizzata. Se è vero che la pandemia ha avuto come conseguenza precipua una crisi economica senza precedenti, è altrettanto evidente che è proprio in questi casi che le mafie cercano di sostituirsi allo Stato. Il frutto acerbo di questi mesi di lockdown è una crisi di liquidità senza precedenti che ha tolto ossigeno a molte imprese italiane fino a causare l’arresto critico, al limite della chiusura, di diverse piccole e medie attività. In risposta, il Governo ha varato i decreti Liquidità e Cura Italia con il proposito, troppo ottimistico seppur necessario, di risollevare l’economia partendo proprio dall’aiuto agli imprenditori. Ma, complice una macchina burocratica farraginosa, vetusta, inquinata da giochi di potere, il sostegno statale ha perso la sua iniziale veemenza per ridursi quasi a un solo proclama. Insomma, gli effetti delle varie iniziative del Governo non sono ancora così visibili. Ciò provoca due sviluppi: il malcontento della popolazione in condizione di necessità e l’attivismo delle mafie. Queste ultime accorreranno in ausilio dei nuovi indigenti attraverso un sostegno che può essere definito “interessato”, secondo quanto sostenuto dal giudice per le indagini preliminari Piergiorgio Morosini, che ha firmato, il 12 maggio scorso, 91 arresti tra boss, estortori e prestanomi di due clan storici palermitani, quelli dell’Arenella e dei Fontana. Secondo il giudice Morosini, le organizzazioni criminali – che già dal 2016 sono risultate interessate all’industria farmaceutica (indagine della DDA di Milano) – metteranno in pratica l’usura a tassi di interesse mai così bassi prima d’ora, l’estorsione, il riciclaggio, fino ad arrivare all’intestazione fittizia di beni e alla sottrazione di aziende ai danni del titolare originario.
Un quadro vieppiù allarmante del quale Policlic ha discusso con il vicedirettore dell’AGI, Paolo Borrometi. Borrometi è, fin da giovane, un giornalista impegnato nella lotta alla criminalità organizzata. Nel suo libro Un morto ogni tanto (Solferino, 2018), l’autore descrive le sue inchieste nella zona di Pachino e del mercato ortofrutticolo di Vittoria. Oggi, Paolo Borrometi è sotto scorta dopo aver subito vari attentati alla sua vita e a seguito di un’intercettazione durante la quale un boss di mafia sanciva la sua condanna a morte da concretizzarsi in modo analogo alla strage di Capaci.
Rocco Chinnici diceva che la mafia è soprattutto accumulazione di capitale. Questa definizione torna utile nell’attuale fase post-COVID. Le mafie sono pronte ad accaparrarsi illecitamente i finanziamenti erogati dallo Stato?
È uno dei pericoli principali per due ragioni. La prima è che le mafie hanno tantissimi capitali illeciti da reinvestire. Oggi, ciò che manca è la liquidità, mentre le mafie questa liquidità ce l’hanno. Questo è molto allarmante sotto il profilo dell’usura ma anche sotto il profilo della tenuta delle aziende. Immaginiamo un imprenditore in crisi di liquidità che si rivolge alle mafie, queste entreranno nell’azienda fino a togliergliela. È un allarme vero e proprio. La seconda ragione riguarda le mafie che investono in attività che non hanno conosciuto alcuna crisi, come quella delle agenzie di pompe funebri o come le aziende della filiera alimentare. Il pericolo mafie è oggi presente e non va mai sottovalutato.
Nelle sue inchieste, si è occupato del controllo dei mercati ortofrutticoli esercitato dalle mafie. La filiera agroalimentare ha conosciuto un aumento della produttività e della domanda durante i due mesi del lockdown. Che ruolo hanno giocato le mafie?
Non so se le mafie abbiano giocato un ruolo, questo lo accerteranno gli inquirenti. Io posso semplicemente dire che insieme alle pompe funebri, la filiera dell’agroalimentare ha continuato a produrre. L’Osservatorio di Coldiretti presieduto da Giancarlo Caselli afferma che quello è uno dei business più importanti per le mafie. È chiaro che, in un momento del genere in cui nel campo alimentare si è continuato a produrre, abbiamo abbassato l’asticella dell’attenzione. E io da giornalista che si è sempre occupato di agromafie sono preoccupato per questa cosa. L’ho denunciato in diverse occasioni.
Chi sono i nuovi esposti al ricatto mafioso in questo periodo di emergenza? Come può lo Stato frenare questo “interessato sostegno”?
Per quanto riguarda questo momento di coronavirus, bisogna reagire non abbassando i controlli e la sensibilità. L’Autorità Nazionale Anticorruzione è acefala da diversi mesi, da quando Raffaele Cantone si è dimesso dalla presidenza. Questo è preoccupante per un Paese che ha nelle mafie e nella corruzione i suoi principali problemi. Io non capisco come sia possibile che un’autorità così importante rimanga senza un presidente. Da ciò ne ricavo una scarsa sensibilità. Inoltre, mi angustia il sentire di alcuni che affermano che per partire bisogna ridurre i controlli. Se alle mafie togliamo i controlli, che già spesso non sono così efficaci nell’intercettare gli interessi mafiosi, si comprende chiaramente la grandezza del problema.
Si è parlato molto dell’importanza dei media. Lei che, per dirla con Siani, è un giornalista-giornalista non ritiene che troppo spesso i nostri colleghi siano lasciati soli ed esposti nel loro lavoro contro le mafie?
Come diceva Paolo Borsellino: “Parlate di mafia. Parlatene in televisione e in radio, basta che ne parlate”. Ecco, io penso che di mafia non si parli mai abbastanza. Inoltre, oggi c’è una narrazione sulle mafie a mio avviso preoccupante perché passa quasi il messaggio che la mafia sia stata sconfitta con l’arresto e la morte di Riina e Provenzano. Questo è un problema che abbiamo sempre avuto in Italia: ci siamo accorti delle mafie quando queste hanno sparato. Quando invece hanno fatto affari abbiamo abbassato l’attenzione. Quindi nei riguardi della narrazione delle mafie, anche da un punto di vista giornalistico, ritengo che se ne parli poco e anche quando se ne parla probabilmente lo si fa con una scarsa attenzione. E i colleghi giornalisti che se ne occupano sono esposti a minacce, perché troppo spesso lasciati soli. Così diventano facili obiettivi.
Tra il 7 e il 9 marzo si sono registrate delle rivolte nelle carceri italiane. La simultaneità fa pensare a una regia esterna, tanto che Nicola Gratteri ha insistito sulla schermatura delle reti cellulari nei penitenziari. Pensa a una casualità o a un piano elaborato a tavolino?
Io l’ho denunciato diverse volte. A mio avviso, è impensabile che nelle carceri potessero partire simultaneamente rivolte interne e esterne spinte dalla casualità. Mentre i carcerati si rivoltavano all’interno, fuori dagli istituti, i parenti si adoperavano in proteste. Il timing denota una regia dietro a queste rivolte. Hanno posto l’attenzione su questo fatto Nicola Gratteri, Catello Maresca e Nino Di Matteo. Sono degli esperti di mafia: dalla ‘Ndrangheta, alla Camorra e a Cosa Nostra. Il risultato è stato una serie di minacce nei confronti di questi magistrati che sono rimasti inascoltati.
Come ha reagito alle scarcerazioni di alcuni detenuti al 41-bis avvenute dopo la circolare del DAP del 21 marzo? La mafia vive di segnali…
Io sono un giornalista e non devo mai dimenticare il mio ruolo nella società. Devo quindi farmi delle domande. Me le sono poste su quella circolare dissennata del DAP del 21 marzo, giorno del ricordo delle vittime di ogni mafia, che sostanzialmente aprì le porte ai detenuti in tutte le carceri d’Italia. Aprì le porte non solo a dei piccoli delinquenti ma anche a detenuti al 41bis o in alta sorveglianza. Questa sconfitta ha portato alle dimissioni di Basentini e alla nomina di Dino Petralia e di Roberto Taraglia, due magistrati dalla comprovata esperienza. Non può essere un caso, che da quando si sono insediati loro non è stato scarcerato più nessuno, anzi i detenuti hanno cominciato a rientrare.
Nino Di Matteo ha acceso i riflettori sulla sua mancata nomina a capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) nel 2018: al suo posto il ministro della Giustizia Bonafede preferì Francesco Basentini. Lei, che è un esperto di criminalità organizzata, che considerazioni ha tratto?
Per me Nino Di Matteo è uno straordinario magistrato che quasi in totale solitudine, seppur insieme ai suoi colleghi Tartaglia e Del Bene, ha condotto un processo da tutti osteggiato che ha portato a delle condanne in primo grado. Al di là del merito del pronunciamento, Di Matteo ha condotto a delle verità fino ad allora indicibili in questo Paese: la trattativa tra la mafia e pezzi deviati dello Stato. Ho risentito più volte le parole di Nino Di Matteo il quale non dice che il ministro Bonafede ha ceduto al ricatto di quei boss che si lamentavano di una sua eventuale nomina al DAP. Lui ha asserito che gli vennero offerti due posti e che quando il giorno dopo accettò la direzione del DAP, il ministro gli disse che quella posizione non era più sostenibile. La domanda che da giornalista – perché io il giornalista faccio – mi pongo è: il ministro ha ricevuto consiglio da qualcuno? A questa domanda non ho trovato risposta.
Che ruolo hanno la cultura e le nuove generazioni nella lotta alle mafie?
I giovani hanno un ruolo fondamentale che è cominciato nel 1992. Lo hanno avuto per il risveglio delle coscienze di quella Palermo che era sconvolta dagli omicidi, soprattutto quelli di Falcone e Borsellino. Un ruolo significativo anche per la generazione di magistrati, giornalisti e inquirenti che sono cresciuti grazie a quella formazione o meglio indignazione. Oggi, però, va fatto uno slancio in più. Io sono assolutamente per commemorare le vittime. Lo faccio spesso perché ritengo che il ricordo sia il primo ingrediente dell’impegno. Ma accanto a questo ci vuole una nuova consapevolezza. Le mafie non sono più solo coppola e lupare ma anche investimenti, professionisti, colletti bianchi che permettono ai clan di fare affari. Di tutto questo i giovani devono prendere contezza per comprendere che la lotta alle mafie inizia dai comportamenti dei singoli e dallo studio. Soltanto con lo studio possiamo comprendere ciò che abbiamo davanti.
Gianpaolo Plini per Policlic.it