“Le venature nazionaliste non garantiscono la tutela dell’interesse nazionale. Il Parlamento Europeo deve contare maggiormente nella gestione dell’Unione Economica e Monetaria”
Come testimoniato dalle vicende della stretta attualità, le modalità e le condizioni di adesione dell’Italia all’Unione Europea continuano a essere argomento decisamente divisivo. Anche per questo motivo la redazione di Policlic.it ha deciso di tornare sull’argomento, ampiamente trattato in precedenti articoli, per effettuare un’analisi storica del processo di integrazione europea. A questo proposito, abbiamo deciso di ripercorrere varie tappe simboliche di tale percorso assieme a Sandro Guerrieri, professore di Storia delle istituzioni politiche italiane ed europee presso il Dipartimento di Scienze Politiche della Sapienza di Roma, da noi intervistato.
Partiamo dagli albori del processo di integrazione: Quali furono le cause del fallimento della Comunità Europea di Difesa (CED)?
La Comunità Europea di Difesa nacque sulla base di una proposta francese, avanzata da Jean Monnet e recepita dal presidente del Consiglio Pleven, che serviva a trovare una via alternativa alla questione del riarmo della Germania. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna temevano che la guerra di Corea fosse la manifestazione di un atteggiamento più aggressivo dell’URSS, con conseguenze pericolose anche in Europa e con possibili attacchi verso l’occidente. Chiesero perciò il riarmo tedesco. I francesi non vedevano di buon grado questo riarmo dell’ex nemico e quindi proposero di inserire contingenti tedeschi nell’ambito di un esercito comune europeo.
La CED era una forma di integrazione estremamente avanzata delle forze armate dei vari Paesi, tanto che nell’esercito comune sarebbe entrata la grande maggioranza delle forze militari. Rimanevano fuori le forze adibite al controllo delle colonie, quelle impiegate nelle missioni all’estero e le forze di sicurezza interna. Alla fine però questa integrazione militare così radicale spaventò gli stessi francesi, anche a seguito della proposta di De Gasperi di procedere verso un’unione politica. Ci fu in Francia una profonda spaccatura in alcune forze politiche, come i socialisti e i radicali, e l’opposizione totale di comunisti e gollisti. Questo scenario portò al fallimento della CED.
La storiografia si è molto interrogata se fosse stata la grande occasione perduta per arrivare a una comunità politica. La mia idea è che forse fu una “fuga in avanti”, o meglio, questo scenario di un esercito europeo avrebbe retto se fosse rimasta la percezione di una minaccia impellente da parte sovietica.
Con la fine della Guerra di Corea, la morte di Stalin, qualche segnale di distensione da parte dei dirigenti sovietici, una minaccia così immediata non fu più percepita e i francesi nell’agosto del 1954 si interrogarono su quale fosse il male minore: il pericolo sovietico eventuale o la perdita del controllo nazionale su gran parte delle forze armate.
Quale sarebbe stato il rapporto tra la CED e la NATO?
Un rapporto molto stretto. Non si deve pensare alla CED come una sorta di blocco slegato dal sistema di difesa atlantico. Ci sarebbe stata la supervisione del comandante supremo della NATO che in caso di guerra avrebbe assunto il comando generale anche delle truppe della CED. Era una comunità di difesa che si inquadrava in un sistema di alleanze che era quello occidentale e che era quindi strettamente correlato con la presenza americana oltre che con le forze della Gran Bretagna.
Nessuno dei promotori della CED aveva in mente l’idea di una “terza forza”, meno che mai De Gasperi, che considerava l’alleanza con gli USA come un elemento fondamentale. Non c’era l’idea di essere autonomi rispetto alla NATO. Si puntava a valorizzare maggiormente la presenza europea all’interno di questo quadro comune.
Quale significato ebbe la Conferenza di Messina del 1955, vista un po’ come un rilancio del processo di integrazione?
Certamente, il rilancio di Messina. E non dimentichiamo il bellissimo scenario di Taormina, dove si svolse gran parte della Conferenza. Lo shock della CED rivelò, come poi fu più volte riconfermato che la costruzione europea non è un processo lineare, ci possono essere delle serie battute d’arresto.
Vari attori, tra cui l’Assemblea Comune della CECA, si impegnarono però per trovare dei nuovi campi di integrazione che a questo punto privilegiassero nuovamente l’ambito economico. La vicenda della CED condusse gli attori favorevoli all’integrazione a rinunciare, nell’immediato, all’integrazione politica, soprattutto in un campo così delicato come la difesa.
A Messina si arrivò sulla base di due idee di fondo. La prima era quella di sviluppare il metodo funzionalista che aveva trovato attuazione nella CECA, con la nascita dell’EURATOM. Quindi una sorta di nuova integrazione verticale, con un settore disciplinato e oggetto di interventi di politiche comuni. Era l’idea di Monnet a cui la Francia teneva in modo particolare.
La seconda era quella di creare un mercato comune orizzontale, complessivo, che non fosse più limitato al carbone e all’acciaio, ma investisse tutti i settori. La prima proposta in questo senso era stata avanzata dagli olandesi, in particolare dal ministro degli esteri Beyen.
A Messina si scelse di procedere in entrambe le direzioni e iniziò il processo che avrebbe condotto ai Trattati di Roma del ’57, che avrebbero portato alla nascita della CEE e dell’EURATOM, con un nuovo sviluppo del metodo funzionalista ma anche con l’avvio dell’integrazione orizzontale che ampliava il mercato comune rispetto all’orizzonte della CECA.
Nel sistema istituzionale ci fu però una minore apertura alla dimensione sovranazionale. Una delle conseguenze della bocciatura della CED risiedeva nel fatto che alcuni protagonisti pensavano che si dovesse tenere maggiormente conto dei singoli interessi nazionali anche nell’ambito delle istituzioni. Quindi quel Consiglio di Ministri che nella CECA aveva un ruolo importante, ma circoscritto, nella CEE divenne il supremo organo decisionale. Come sappiamo, infatti, la Commissione ha il potere esclusivo di iniziativa legislativa ma non può adottare autonomamente le decisioni.
Nell’attuale periodo storico, l’argomento dell’immigrazione è molto trattato, spesso tristemente. La mente non può non andare alla tragedia di Marcinelle dell’8 agosto 1956, quando 136 minatori italiani persero la vita in un tragico incidente. Quali cambiamenti portò quell’evento e quale significato può avere per l’Italia di oggi ricordarlo, anche e soprattutto nell’ottica di un’emigrazione italiana?
Noi tendiamo a dimenticare di essere stati un Paese di emigrazione con fenomeni di massa, con centinaia di migliaia di emigranti che partivano ogni anno, sin dalla fine dell’800. Ondate migratorie che sono continuate fino agli anni ’60, e che si sono attenuate negli anni ’70. Oggi però abbiamo una nuova emigrazione di laureati e di cervelli di cui bisogna tenere conto.
Tutto questo deve portare ad affrontare la pressione migratoria verso l’Italia tenendo conto di aspetti che noi italiani abbiamo vissuto sulla nostra pelle. Ad esempio, nel secondo dopoguerra, i nostri emigranti che andavano in Belgio, lo facevano sulla base di accordi bilaterali che spesso non erano rispettati fino in fondo. Non si garantiva un alloggio decoroso, i nostri emigrati vivevano in condizioni molto dure, spesso in ex campi di prigionia della seconda guerra mondiale, in alcuni dei quali non si era nemmeno provveduto a togliere il filo spinato. Morivano in incidenti nelle miniere a mille metri sotto terra, oppure avevano malattie professionali terribili, come la silicosi, che devastava i polmoni. Avevano una protezione sanitaria inadeguata, con le compagnie assicurative del Paese ospitante che spesso cercavano i cavilli per non rimborsare le vittime di incidenti minerari.
Noi ci dobbiamo ricordare di tutto questo, per onorare le nostre vittime come appunto nel caso di Marcinelle. Ma anche per capire che esistono delle esigenze di accoglienza che un popolo che voglia dirsi civile non può trascurare. Quindi, rispetto al fenomeno della gestione dell’immigrazione, che certamente è complesso e va affrontato in un quadro europeo multilaterale, non possiamo arrivare a replicare gli atteggiamenti peggiori che altri hanno manifestato nei confronti dei nostri connazionali. Cerchiamo di fare tesoro delle tragedie vissute dagli italiani, per non farle ripetere a chi arriva in Italia.
La tragedia di Marcinelle insegna anche un’altra cosa. Da quella tragedia si ebbe un maggiore impegno a livello europeo nell’affrontare la questione degli incidenti nelle miniere. Si arrivò a un intervento comunitario in quest’ambito, ed è di un’azione a livello comunitario che noi abbiamo oggi fortemente bisogno per gestire il fenomeno migratorio. A mio avviso l’Italia non deve assumere venature sovraniste che sono autolesioniste. Ricordiamoci che il nazionalismo fascista condusse al disastro della nazione. Le tendenze nazionaliste, dal punto di vista stesso dell’interesse nazionale del Paese, portano a risultati opposti.
Nel suo libro lei ha definito “Un parlamento oltre le nazioni” l’Assemblea Comune della CECA. Quali novità fondamentali furono introdotte con tale istituzione e quale eredità ci ha lasciato?
Di cooperazione parlamentare si comincia a parlare nel secondo dopoguerra, innanzitutto con la nascita dell’Assemblea Consultiva del Consiglio d’Europa, la quale svolse un’azione importante promuovendo l’elaborazione del testo della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Con l’Assemblea Comune della CECA, abbiamo un ulteriore rafforzamento dell’identità parlamentare a livello sovranazionale, perché si crea un sistema in virtù del quale abbiamo una sorta di esecutivo, in quel caso l’Alta Autorità, che è responsabile nei confronti dell’Assemblea, nel senso che quest’ultima può costringere l’esecutivo alle dimissioni. I 78 parlamentari scelti dai parlamenti nazionali cercarono di interpretare il proprio ruolo in maniera dinamica, affermando il principio del controllo parlamentare sulle varie attività della comunità.
E’ una questione fondamentale anche oggi: il Parlamento cerca di avere maggiore voce in capitolo sulle questioni della governance dell’Euro. Secondo me dobbiamo andare molto più avanti di come è attualmente la situazione, per far sì che il Parlamento conti maggiormente nella gestione dell’Unione Economica e Monetaria.
La scelta dell’Assemblea Comune della CECA era quella appunto di prospettare alternative possibili nella gestione della comunità, politicizzandola e non riducendola a un sistema di governo fondato esclusivamente su criteri tecnocratici. Di qui anche l’attenzione su alcuni temi come l’Europa sociale, i diritti dei lavoratori, gli interventi per i lavoratori licenziati a seguito del mercato comune, l’attenzione alla politica abitativa. Un’attenzione per le tematiche sociali che deve essere sicuramente ripresa, potenziata, perché uno dei limiti della costruzione comunitaria fino ad oggi è che il pilastro “Europa sociale” è ancora poco strutturato rispetto agli altri.
Ha accennato prima alla Francia. Quale era la visione di Europa di Charles De Gaulle?
Sul rapporto tra De Gaulle e l’Europa si è scritto molto. C’è chi banalizza un po’ la questione: De Gaulle anti-europeista. Non è affatto vero. Teneva a una cooperazione europea, ma la vedeva con occhi diversi rispetto a Jean Monnet o a De Gasperi. Per De Gaulle, la cooperazione doveva avvenire sulla base di un accordo tra i governi, tra gli Stati. L’Europa delle nazioni. È con De Gaulle che si prefigurano, con il “piano Fouchet”, le prime possibilità di cooperazione politica fondata sui ministri degli esteri e sui capi di stato e di governo.
Il conflitto che lo oppone nel 1965 al presidente della Commissione, il tedesco Walter Hallstein, deriva proprio da una concezione diversa di come la comunità doveva svilupparsi. Hallstein voleva una comunità sovranazionale, un maggiore controllo del Parlamento Europeo sull’esecutivo. De Gaulle voleva che i governi rimanessero i padroni della macchina comunitaria. Non gradiva affatto l’aumento dei poteri del Parlamento.
È la visione di un’Europa intergovernativa, che abbia inoltre un’identità che non sempre coincida con gli interessi americani. Da qui la scelta di uscire dal comando integrato della NATO e alcune formule abbastanza ambigue come “L’Europa dall’Atlantico agli Urali”.
Altra questione molto attuale è quella di Brexit. Può essere di interesse storico capire quale fu l’impatto dei britannici e dell’idea, anche in questo caso peculiare, che avevano sull’Europa. In particolare sulle istituzioni, facendo un parallelo tra prima e dopo l’ingresso del Regno Unito nella Comunità.
La questione del rapporto tra la Gran Bretagna e l’Unione Europea si trascina da molti decenni e ha avuto diverse evoluzioni, anche paradossali. Nel ’50 la Gran Bretagna rifiutava con un atteggiamento un po’ altezzoso l’idea di partecipare alla prima Comunità europea. I laburisti, che erano al governo, dichiararono in un celebre documento di sentirsi molto più vicini ai loro parenti in Nuova Zelanda e in Australia che agli europei. C’era l’idea di una Gran Bretagna che grazie al Commonwealth poteva mantenere una entità imperiale che le consentiva di avere un ruolo geopolitico di primissimo piano.
Negli anni ’60, avvertendo che la Comunità favoriva lo sviluppo economico, i britannici fecero marcia indietro, chiedendo l’ingresso, ma a quel punto De Gaulle sbatté loro la porta in faccia, per varie ragioni.
Nel suo rapporto con la costruzione europea la Gran Bretagna ha sperimentato e continua a sperimentare varie oscillazioni. Non si tratta in questo caso, a mio avviso, solo di una resistenza di tipo nazionalistico: il punto è che i britannici non sembrano neanche in grado di definire una visione che sia quanto meno coerente del proprio interesse nazionale.
Lo si vede già al momento del loro ingresso nella Comunità nel 1973. Subito dopo l’ingresso, nel 1975, i laburisti indicono un referendum per confermare o meno l’adesione. Addirittura, fino al 1975, i deputati laburisti non si recano a Strasburgo, perché attendono la conferma referendaria.
E’ vero tuttavia che, pur esercitando il più delle volte una funzione di freno, qualcosa di positivo nelle istituzioni europee i britannici l’hanno portato. Quando i parlamentari conservatori arrivano nel 1973 a Strasburgo, sono guidati da una personalità molto europeista, Peter Kirk, il quale mostra di credere fortemente nell’Europa. Nel suo primo discorso al Parlamento, riprende le motivazioni che erano state all’origine del Congresso dell’Aia: pacificare un continente, trovare valori comuni, evitare il ripetersi di guerre fratricide.
I britannici, poi, al Parlamento Europeo contribuiscono, forti della loro tradizione parlamentare, a introdurre uno stile più dinamico. Ricorrono spesso all’uso del “question time”, che viene introdotto proprio nel 1973. Il funzionamento del Parlamento europeo sperimenta perciò una maggiore vivacità.
Certo, quando sale al potere nel 1979 la “lady di ferro” Margareth Thatcher, è chiaro che vince la linea che porta allo scontro. La Thatcher è d’accordo su un punto: la creazione del mercato unico. La liberalizzazione del mercato incontra il suo favore. Su questo c’è un’intesa con Delors. Ma la Thatcher rifiuta ciò che deve accompagnare il mercato unico: le politiche comuni e il rafforzamento delle istituzioni.
Più in generale, il Regno Unito ha sempre manifestato una profonda ostilità verso uno sviluppo dell’Unione in senso politico-costituzionale. In questo caso incidono anche le diverse tradizioni storiche, la tradizione della costituzione scritta contro quella britannica non scritta. Per alcuni, il maggior pregio della costituzione inglese è quello di non esistere, ma questa peculiare flessibilità ha fatto sorgere nello stesso sistema istituzionale britannico dei problemi evidenti proprio nel caso dell’iter della Brexit. Certo è che dopo la Brexit avremo un Regno Unito profondamente lacerato sul piano territoriale, sociale e culturale. Il clima dell’Inghilterra dell’ultimo decennio è descritto molto bene nel romanzo conclusivo della trilogia (che si apre con gli anni Settanta e gli attentati dell’IRA) di Jonathan Coe, Middle England.
In ogni caso, con la Brexit anche l’Unione perderà qualcosa. Verrà meno un partner fondamentale, ad esempio, su tutte le tematiche relative alla difesa, visto che la Gran Bretagna è un Paese che ha una capacità operativa a livello globale. La speranza, naturalmente, è che l’Unione sappia reagire alla Brexit con un rinnovato slancio verso un’integrazione fondata sulla promozione dei diritti e sullo sviluppo delle politiche comuni su questioni cruciali come quella ambientale.
Federico Paolini per Policlic.it